L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La virtù dell'otium

di Roberta Pedrotti

La tredicesima edizione di Trame sonore a Mantova rinnova l'utopia di una città ideale della musica da camera.

Mantova, 30 e 31 maggio, 1 e 2 giugno 2025 - Come l'opera è un fatto pubblico, la musica da camera è un fatto intimo. Entrambe rappresentano un sommo grado di collaborazione fra tutte le parti attrici, ma se un caso giunge anche al massimo della complessità per le diverse competenze richieste, l'altro porta all'estremo la semplicità, quasi distillata, di anche solo due persone con uno strumento e voglia di far musica insieme. Non si tratta di una performance per gli altri, ma con gli altri, di qualcosa che non nasce distinguendo chi fa da chi osserva e ascolta, bensì si identifica negli interpreti e nel loro salotto più o meno allargato.

Nelle conversazioni che aprono ogni giornata delle Trame sonore mantovane (i “Caffé con...”) è emersa per la rassegna la definizione di “splendida vacanza in cui si suona tantissimo”. Accanto alla parola vacanza balza in mente il concetto latino di otium, vale a dire del tempo libero da affari e pubblici uffici, dedicato allo studio e alle attività intellettuali. Le Trame mantovane intrecciano un nido, una sorta di bolla privilegiata in cui, semplicemente, i musicisti si incontrano e fanno musica insieme nel piacere di farla. Si prova, si sperimenta, si propone ciò che magari non si è ancora portato nelle sale da concerto o che fatica a inquadrarsi in un cartellone, ci si confronta, ci si ascolta. È una grande comunità di volontari, collaboratori, musicisti, giovani e star, di cui il pubblico si fa complice e amico, saltando da un evento all'altro, da una sala all'altra, da un repertorio all'altro. Scatta una sorta di bulimia in cui tutto pare irrinunciabile ma, alla fine, in cui possiamo rinunciare a tutto e lasciarci trasportare dagli eventi, assorbire dalla musica, serenamente in sua balìa.

L'imprevisto, anima imprescindibile dell'arte dal vivo, è di casa, sia in una forma calcolata (con i gruppi consolidati ci sono anche ensemble ci si assortiscono al momento, sodalizi fortuiti o a lungo vagheggiati), sia in maniera repentina e selvaggia, come quando capita di sostituire colleghi indisposti o impossibilitati a venire. Ecco, per esempio, che se il coro bizantino musicAeterna non può più partecipare alla kermesse, si trovano subito nuove soluzioni: Nicolas Altstaedt può suonare una suite di Bach; Miriam Prandi può incontrare il pianista Gyorgy Tchaidze e approntare lì per lì la Sonata in mi minore di Brahms.

L'imprevisto ha molti volti, può dare adito a belle sorprese, abbinamenti insoliti, soluzioni curiose o anche i piccoli incidenti che suonando tanto, per statistica, possono capitare, come una corda che si rompe, un suono che non esce come dovrebbe, un piccolo lapsus. Non dispiace, non rovina la festa: anzi, nel gusto di far musica insieme ci ricorda che siamo tutti umani, che non siamo sotto esame, che non è la singola nota sempre perfetta a far l'artista.

E allora, senza troppi pensieri, ci buttiamo a capofitto in un programma che avevamo pianificato al minuto e poi inevitabilmente si rivoluziona tutto perché balza all'occhio un concerto che ci era sfuggito o arriva un suggerimento estemporaneo, la chiacchiera con l'amico incontrato per strada che ti travia e ti porta dove non ti saresti aspettata.

Quest'anno, per esempio, mi sono sfuggiti i due quartetti più in vista, l'Hermès e l'Indaco, ma ho avuto l'occasione di ascoltare, nella Morte e la fanciulla di Schubert i valenti giovani dell'Adorno, e di scoprire i ragazzi danesi del NOVO Quartet alle prese con Schumann e Šostakovič: bellissimo equilibrio sonoro, fraseggio incisivo, efficace amalgama fra personalità ben definite.

Šostakovič è, con Berio, un fil rouge del programma. Lo racconta assai bene Guido Barbieri in un “Caffé con...” che è una profonda riflessione sul senso e il nonsenso degli anniversari (“Ahi, Puccini, di quanto mal fu matre...”), su quanto valga la pena di riscoprire e ripensare dell'italiano e sul senso della memoria incarnato da Babi Yar del sovietico. L'ascolto, nella sala di Manto del Palazzo ducale, della Sinfonia per orchestra d'archi op. 110a con l'Orchestra da Camera di Mantova (promotrice di tutte le Trame) diretta da Filippo Lama non può che confermare l'apprezzamento dello stesso Šostakovič per la trascrizione di Barshai: il quartetto op. 110 è un capolavoro assoluto, ma la versione per orchestra d'archi riesce ad apparire perfino più bella, una di quelle pagine talmente perfette e profonde da non mancare mai l'obiettivo. Nondimeno, il quintetto op. 57 (con Rizzi, Serino, Coleman, Gnocchi e Lucchesini), la sonata per violino e pianoforte op. 134 (con Pritchin e Libetta), quella per viola e pianoforte op. 147 (Power e Lonquich) o per violoncello e pianoforte op. 40 (Gnocchi e Stella) offrono ad altissimi livelli esecutivi una panoramica eloquente e poeticamente complessa dell'arte cameristica del sommo Dmitrij. La scoperta, però, viene dalla preziosa mezz'ora trascorsa con Luca Ciammarughi e il tenore Blagoj Nacoski, che esplorano la misconosciuta produzione liederistica di Šostakovič, con testi poetici giapponesi, brani d'origine popolare greca e versi contemporanei di Dolmatovskij in cui si rapprende il polivalente rapporto del compositore con il proprio tempo.

Nacoski è anche interprete – con l'Orchestra da Camera di Mantova – della prima italiana di Night di Francesco Filidei, pagina che conferma nell'autore la sapiente padronanza dei mezzi nel trattamento della vocalità e della strumentazione, con esiti d'indubbia e fine suggestione. Non è questa l'unica occasione per ascoltare sue opere (ci sono anche le surreali Proesie su testi di Federico Maria Sardelli), né altra musica dei giorni nostri. Ecco, per esempio, che un magnifico incontro nel segno del XX e XXI secolo, Ilya Gringolts e Nicolas Altstaedt non ci propongono solo il duo per violino e violoncello di Kodály e quello, incompiuto, di Klein, assassinato ad Auschwitz, ma anche il debutto italiano di quello di Holliger a loro dedicato. Oppure Laura Catrani, che nelle sue esplorazioni vocali pone come fulcro Berio, ma guarda anche indietro a Hildegard von Bingen, intorno ai Beatles e a Cathy Berberian (autrice, non solo interprete), avanti ai viventi Solbiati e Franceschini. Il commiato con Eli, Eli di Zehavi su versi di Hannah Szenes, martirizzata dai nazisti, sigilla un percorso totalizzante nel canto come esperienza fisica, teatrale, psicologica.

Quanto a sperimentazioni che allargano il confine abituale del concerto ed estendono la reciprocità insita nella musica da camera a più esperienze e discipline, non è da meno Miriam Prandi, che crea un dittico in cui le suite di Bach trovano corrispondenza nella danza di Maksim Klochnev e Alena Lisnaya di musicAeterna Dance. Non si tratta di “accompagnare” la coreografia di Alexey Slutsky, né di illustrare le note, ma di trovare una comune espressione attraverso sensi diversi, in cui la qualità della violoncellista mantovana va di pari passo con la partecipazione e la tecnica dei ballerini.

C'è, poi, chi si muove attraverso la storia della musica, come fa Ian Bostridge, che spazia (con Sardelli e l'orchestra, Elisa La Marca con tiorba e liuto, Lonquich al pianoforte, Michele Vannelli all'organo) fra i connazionali Dowland e Britten toccando via via Monteverdi sacro e profano, l'opera di Mozart, i Lieder di Schumann, con la sua allure peculiare del professore di Oxford prestato per inclinazione intellettuale al canto (e sicuramente il rinascimento inglese e il Lied tedesco gli appaiono più affini, considerato che di Britten sceglie i sonetti di Michelangelo in italiano). Ci sono Silvia Chiesa e Maurizio Baglini che propongono avvincenti trascrizioni di Gershwin per violoncello e pianoforte (da ricordare quella di Rhapsody in blue). Oppure c'è il violoncellista Nicolas Atlstaedt, che ascoltiamo in Bach, in un elettrizzante, tecnicamente prodigioso e stilisticamente liberissimo, quasi straniante, Haydn, fino al Novecento e ai contemporanei.

Fra una trama e l'altra Brahms, Schubert e i cardini del repertorio classico romantico si intrecciano all'antico, al barocco, al moderno e al nuovo. Troviamo e ritroviamo in accostamenti diversi volti ormai familiari e altri che lo diventano presto, gruppi stabili e altri che si ricombinano in un moto perpetuo di scambi musicali. Sembra quasi, alla fine, di aver ascoltato anche chi non siamo riusciti a intercettare in un concerto, come in un'ineffabile osmosi.

Non è Mantova se non si incontrano, con i soliti amici colleghi e appassionati, con gli inestimabili collaboratori (maschere, assistenti, personale della mensa...), anche Gemma Bertagnolli – entusiasta musa ispiratrice delle Trame fin dall'esordio, a segnare la vocazione anche canora di questo universo –, Roberto Prosseda, Walter Testolin, Alessandro Maria Carnelli, Giovanni Bietti e tanti altri che si scambiano senza sosta il ruolo di interpreti e di spettatori. L'utopia di otium musicale lanciata dal direttore artistico Carlo Fabiano cui si è affiancata nel tempo una giovanissima squadra di collaboratori è vitale, dinamica, aggiornata nel vero senso della parola, fuori di luogo comune perché incarna la natura originaria della musica da camera: almeno due persone che si incontrano, hanno voglia di suonare (e/o cantare) insieme e di condividerlo con chi ne abbia voglia. Se poi avviene nello splendore dei palazzi mantovani tanto meglio e chi lo desideri, anche per caso, magari perché si trova in gita al museo proprio quel giorno, è il benvenuto. Pure il passante che commenta distaccato ma non indifferente “C'è un pianoforte nella chiesa, faranno un concerto...”: sì, questo per noi è tutto un mondo, sebbene siamo pur sempre un non-luogo, un granellino di sogno nell'universo reale, parte non indifferente dell'essere umani nella quale tutti possono essere accolti.

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