Inesorabile
Francesco Libetta passa da Weber a Schumann, da Bosso a Chopin in un recital che apre in bellezza il Verona Piano Festival.
Verona, 10 giugno 2025 - «In una sola parola: inesorabile». Per tutto il concerto di Francesco Libetta nella Sala Maffeiana del Teatro Filarmonico ci è ronzata nella testa questa famosissima definizione dello stile filmico di Fritz Lang proposta da François Truffaut, che tentava di verbalizzare quel quid di decisivo e inimitabile che prende forma nei capolavori tedeschi e americani del regista, e che attiene ai movimenti di macchina, alla prossemica attoriale, all’inquadratura di quel Maestro del cinema classico. Con la musica la parola è ancora più precaria nel tentativo di descrivere il gesto interpretativo; e per questo chiediamo scusa per il doppio salto mortale comparativo, ma nella serata veronese – cha è principiata con l’Invitation à la danse di Weber, per proseguire con gli Etudes Symphoniques di Schumann, con la trascrizione del primo movimento della Sinfonia n. 1 ‘Oceans’ di Ezio Bosso, per concludersi con la Ballata n. 3 e lo Scherzo n. 3 di Chopin – soprattutto il decorso temporale dei brani ha colpito per organicità strutturale, pervasività narrativa, forza drammatica. E ciò è stato particolarmente avvertibile nel pezzo schumanniano, laddove il tempo inteso come processo (orizzontale) e come percezione simultanea di strati temporali differenti (verticale) è stato reso da Libetta come un’autentica costellazione in cui le singole forme temporali erano riconducibili con linearità appunto «inesorabile» a una serie di derivazioni di una stessa forma di partenza. Servendoci di queste categorie che Ingrid Pustijanac ha perfettamente sintetizzato in un suo saggio sul tempo nell’estetica musicale del secondo Novecento, ciò che intendiamo sottolineare dello stile esecutivo di Libetta è il modo tutto particolare di rendere un’uniformità di decorso ritmico sfaccettandola continuamente grazie a una gamma dinamica di straordinaria varietà, dal sussurro al fragore, che nella serie di variazioni dell’Op. 13 è stata particolarmente efficace nel far udire il lavoro sul suono puro di Schumann insieme al costante equilibrio tra zone di tensione accumulata e rilasciata: in questo senso accennavamo alla «narratività» del suo pianismo, che ha cantato il lirismo della seconda variazione a seguire il tema eroico della prima costruendo tra di esse un legame vitale, intrinseco, come si trattasse di frazioni susseguenti d’una storia appassionata insieme e dolcissima. Ma in tutta l’esecuzione di questo Schumann fosforescente Libetta ha mantenuto il suo tactus con regolarità inflessibile, lasciando al peso diversificato sui tasti il compito di mettere in luce voci secondarie, incisi minimi di reminiscenza, segmenti melodici che affiorano o si dematerializzano (nella decima variazione, ad esempio, aggredita con vigore straordinario). Se dramma e racconto in Schumann sorgono dalla più completa astrazione della forma, con il brano di Weber la narrazione è più evidente, esplicitata dallo stesso autore, e il pianista ha dunque avuto cura eccezionale nel sottolinearne la gestualità del valzer, senza alcuna forzatura, lasciando scorrere l’energia, la grazia e il controllo della danza proprio come poteva fare una Sylvie Guillem, che Libetta ha indicato come sua ineffabile fonte di ispirazione nel suo libro Musicista in pochi decenni.Del pari, nell’interessante frammento di Bosso, l’evocatività del titolo ‘oceanico’ orienta la ricezione in modo plastico: ecco allora che Libetta non si sottrae ai rischi didascalici, accetta l’incrocio dei linguaggi (lo spiega anche nelle sue sintetiche ma elegantissime presentazioni del programma) e anzi ne fa la chiave del suo stile: limpido, nitido in Weber; mobile e tesissimo in Bosso, con un effetto di crescendo nel pre-finale di spaventosa potenza, da farti pensare a un pianoforte e quattro mani. Con Chopin le allusività di contenuto ritornano invece ad essere celate: così, con un tocco di magistrale finezza, Libetta propone, prima della Ballata n. 3, una miniatura di Je te voglio bene assaje, scritta nel 1839 (quindi un anno prima rispetto alla Ballata) ed effettivamente simile nell’inciso iniziale al capolavoro chopiniano: intertestualità, circolazione di idee, coincidenza, puro caso, chissà? Fatto sta che il gesto esecutivo del pianista è semplicemente geniale nel proporre e negare allo stesso tempo la semanticità del comporre musicale; e in più, questo bizzarro preludietto a un monumento della letteratura pianistica funziona benissimo quale incastro enigmatico e giocoso a un tempo, così come Chopin stesso amava proporre nei suoi concerti (lo stesso Libetta ha dedicato un magnifico CD a questa prassi: Chopin selon Chopin pubblicato da Sony l’anno scorso). Uno Chopin libero, idiosincratico, quello di Libetta, leggero e incantato con sofisticatissima sprezzatura; certo, assai distante da tumulti e passioni e struggimenti: aereo, invece, e suggestivo pur nel suo taglio volutamente effimero. Un po’ spiazzante, forse, per chi non si rassegna al destino necessario della musica a svanire e permanere solo quale ricordo: e quindi per tutti noi, in fondo, abituati alla riproducibilità eterna e ubiqua. Ma forse proprio per questo suo connotato di alterità radicale, uno Chopin risolutamente «inesorabile». Tarantella, op. 43, ancora di Chopin, come unico bis. Il concerto ha aperto il «Verona Piano Festival», rassegna a raggio diffuso per tutta la provincia veronese, organizzata e diretta dal Maestro Roberto Pegoraro, il cui dettaglio può vedersi qui: https://www.veronafestival.eu/
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