Laudatio per Pinnock
La XXIV edizione di Anima Mundi si apre con un applaudito concerto con Trevor Pinnock alla testa degli English Concert & Choir
PISA – È pacifico affermare che, dal 2001, la rassegna di musica sacra (latu sensu) “Anima Mundi” sia uno degli appuntamenti irrinunciabili in area toscana, una realtà stimolante come poche e che ha sempre puntato su repertori e interpreti di altissimo livello, offrendo peraltro la possibilità di ascoltare formazioni e titoli tutt’altro che frequenti da incontrare dal vivo a sud delle Alpi. In questa ventiquattresima edizione, il festival della Primaziale Pisana ribadisce il proprio lignaggio con un concerto d’apertura assolutamente al di sopra delle aspettative: il dittico Vivaldi/Haydn porta con sé tutto quel senso di stupore e meraviglia del Messiah händeliano del 2021.
Le due composizioni che formano il programma traggono chiaro spunto dalla contemporaneità, iniziando dal celeberrimo Gloria in re maggiore RV 589 di Antonio Vivaldi, particolarmente adatto al corrente anno giubilare. Il primo elemento che colpisce l’orecchio è l’attenzione rivolta all’acustica – notoriamente perigliosa – della Cattedrale di Santa Maria Assunta, una prospettiva per cui non solo di cerca di equilibrare i volumi delle masse per non creare incidenti, ma anche per ammantare l’esecuzione stessa di un fascino davvero caratteristico sfruttando le risonanze degli ambienti. In questa lettura, Trevor Pinnock predilige quell’approccio che Paul Samuelson sintetizza nella sua Economia come «menti fredde al servizio di cuori caldi»: tutto è ragionato e calcolatissimo, nondimeno il risultato appare autenticamente viscerale. Il fraseggio nervoso, l’esaltazione alata degli insiemi corali, la tempra sanguigna tutta italiana, nonostante tutto segua nel modo più scrupoloso la prassi esecutiva siamo lontani eoni dalla sterilità di molte esecuzioni storicamente informate; anzi, come già rilevato al loro debutto ad Anima Mundi nel 2019, Pinnock e gli English Concert sono la rappresentazione vivente della gioia del far musica insieme.
C’è anche un’importante ricerca del dettaglio, dalla grazia spigolosa del «Laudamus te» all’ossessività del ritmo tarantellato del «Qui sedes», fino agli urti armonici (i rivolti di settima e le appoggiature di nona) dell’«Et in terra pax» trasfigurati dalla direzione di Pinnock in luminose vetrate istoriate. C’è un forte senso dell’umano, senza dubbio, ma che tende all’eterno con commovente energia; in questo senso la successione di pezzi veloci e lenti, ora brillanti, ora di intima delicatezza, assurge quasi a una concezione drammaturgica la cui catarsi vuole rappresentare un’effettiva elevazione dello spirito.
Ma il vero capolavoro è la Nelsonmesse – al secolo Missa in anguistiis – di Franz Joseph Haydn. Si tratta di una delle due messe haydniane in cui si fa riferimento a tempi difficili (l’altra è la più eseguita Missa in tempore belli o Paukenmesse) e anche in questo caso il pensiero non può che correre all’attualità, nelle sue più feroci declinazioni.
Significativa la decisione da parte di Pinnock di non eseguire la seconda versione della Messa, cioè quella con l’aggiunta di flauto, due oboi e fagotto, in favore della stesura originale con il suo organico particolarissimo: tre trombe, timpani, archi e organo. Questa essenzialità di mezzi si traduce in una scrittura asciutta e diretta, il cui tratto viene esaltato dal direttore britannico in particolare nei numeri dalle tinte più drammatiche come in quella meraviglia del «Benedictus», con gli interventi martellanti delle trombe. Pinnock ha l’accortezza di essere misurato tanto quanto Haydn e di fermarsi sempre sull’orlo del tragico, di limitarsi a sfiorarlo e farcelo intravedere, senza scivolare esplicitamente in esso; restano quindi le tensioni, ben sottolineate anche al di fuori dei pezzi più scopertamente drammatici (ad esempio, quelle ombre furtive, appena accennate, dagli incatenamenti dell’«Agnus Dei»), in un’esecuzione – al pari di quella del Gloria vivaldiano – in cui la chiarezza del suono e la trasparenza degli intrecci orizzontali sono garantiti con la massima cura. Scavando ancora un po’ più a fondo è possibile apprezzare la vera grandezza di Pinnock in questo particolare caso: l’attenzione rivolta verso la cellula tematica o motivica e verso la singola figura unita a un trattamento della massima nitidezza a livello esecutivo, causano una nuova comprensione formale della composizione e (cosa affatto secondaria!) senza mai appesantire il risultato esecutivo, che mantiene sempre una grande eleganza e rivela delle inattese piacevolezze dal garbato humour.
Il cuore del concerto sono i “suoi” English Concert & Choir e sembra superfluo specificare che l’orchestra bene ovunque, con un’ottima compattezza sia di suono sia di intenti, nei momenti più introspettivi così come in quelli più sbrigliati e nei motti galanti (a questo proposito, vale la pena di ricordare la raffinatissima realizzazione del sistema di duine di semicrome sul tempo debole dei primi violini con il pizzicato di secondi e viole nel «Dona nobis pacem»); ça va sans dire, la parte del leone è quella degli archi che risultano luminosissimi tanto in Haydn quanto in Vivaldi, ma è impossibile non apprezzare l’ardore guerriero delle tre trombe – ex clarini – in re o dei timpani di Stefan Beckett. L’unico elemento perfettibile pare essere l’organo positivo, suonato assai bene da Tom Foster e però dotato di un suono non bellissimo. Non meno straordinario dell’orchestra è il coro, cui sono affidate così tante pagine in questi due titoli: tolto il piacere di ascoltare finalmente un coro inglese che canta bene in latino, sfodera le sue carte migliori sì nelle poderose verticalità ma soprattutto nei rapinosi episodi contrappuntistici («Cum Sanctu Spiritu» nel Gloria e «In gloria Dei Patris» nella Missa, solo per citare due momenti).
Il quartetto di solisti si apprezza relativamente nella sua interezza, dato che compare solo nella partitura di Haydn e che questa sia sostanzialmente una messa per soprano, coro, orchestra e pertichini di altri tre soli. Meno incisive le due voci maschili e dalla dizione non impeccabile: il tenore Stuart Jackson ha obiettivamente anche pochissimo spazio per mettere in luce le proprie qualità, prima fra tutte il timbro limpido, mentre Neal Davies può per lo meno contare su quella sorta di arioso interrotto del «Qui tollis peccata mundi» in cui riesce a fornire più di un’intenzione. Molto bene il contralto Sara Mingardo, che nei passi solistici nell’«Agnus Dei» dimostra un impeccabile controllo delle messe di voce; il soprano Hilary Cronin aveva già fornito un saggio di bravura nell’aria pastorale con oboe obbligato «Domine Deus, Rex coelestis», ma è in Haydn che può dare fondo alle molte possibilità del proprio strumento: dotata di un colore caldo che si arricchisce di armonici nel registro acuto, Cronin interpreta con gusto e fraseggio impeccabile i momenti strettamente lirici come l’«Et incarnatus», rivelando poi un’inattesa morbidezza nelle lunghe colorature come quella introdotta nell’«et vitam venturi saeculi».
Lunghi applausi per i musicisti e vivo entusiasmo per Trevor Pinnock, che nella sua quinta inaugurazione come direttore artistico sembra continuare ad essere quello di cui “Anima Mundi” aveva bisogno.
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