Gli schizzi di Salome
Nonostante la clamorosa defezione di Omer Meir Wellber, un po’ a sorpresa questa Salome si rivela uno degli spettacoli più riusciti della stagione del Teatro Massimo di Palermo, complici lo spettacolo di Bruno Ravella importato dall’Irlanda e l’accurata concertazione di Gaetano D’Espinosa.
Palermo, 20 maggio 2025 - A distanza di vent’anni dalla Salome del centenario (allora in una modesta produzione affidata ad Antonio Calenda), il capolavoro di straussiano torna al Teatro Massimo di Palermo in un allestimento tecnicamente assai valido dell’Irish National Opera firmato da Bruno Ravella (e già approdato alla piattaforma web Operavision), ripreso da Carmine De Amicis, che si rivela indubbio punto di forza della serata. Nell’efficace impianto scenico semiellittico di Leslie Travers – che firma anche i costumi in chiave contemporanea, fra mimetiche e smoking – sotto l’efficace disegno luci di Malcolm Rippeth, all’elemento totemico dell’albero sradicato si coniuga quello altamente simbolico dell’acqua sottostante, che stilla dalle radici sospese a mezz’aria, bagnando Salome praticamente dall’inizio alla fine dell’opera. Delle assai pregnanti coreografie sull’acqua di Salome (chissà perché vi ha rinunciato invece lo spettacolo decisamente meno convincete di Emma Dante al Maggio Fiorentino, con cui il confronto ravvicinato è inevitabile) fatte di piroette sul velo liquido e schizzi dalle chiome, fa le spese l’indisposta per raffreddore Astrid Kessler, che cede la Prima a Nina Bezu originariamente prevista in alternanza per una sola replica. La presenza scenica è più che apprezzabile ma la linea di canto, pur ben amministrata, è evidentemente impari rispetto a quanto richiesto dall’onerosa scrittura straussiana, sicché tutta la serata giocata di rimessa, dopo l’impegnativa danza dei sette veli, si risolve in una scena finale trascolorante decisamente sul poema sinfonico.
Più a fuoco è la coppia di regnanti impersonata da Anna Maria Chiuri e Charles Workman, l’una forte di uno strumento opulento e metallico, che ben s’appaia alla personalità d’Herodias, l’altro sì sonoro ma non esente dalle peculiari sbiancature del timbro che conseguono una perfetta realizzazione musicale delle incertezze e delle paure d’Herodes. Tommi Hakala è un Jochanaan dall’emissione forbita ma forse di non sufficiente perentorietà, mentre Ewandro Stenzowski disegna un ottimo Narraboth, giustamente disperato. La distribuzione è validamente completata dai cinque ebrei Michael Gibson, Raphael Wittmer, Marcello Nardis, Sascha Emanuel Kramer e Lukasz Konieczny, dai due nazareni Benjamin Suran e Blagoj Nacoski, dal paggio Michela Guarrera nonché da Mariano Orozco (un uomo) e Maria Cristina Napoli (uno schiavo).
L’ultimo schizzo di Salome, questa volta metaforico, è quello con cui Omer Meir Wellber si congeda con una defezione dal Teatro in cui ha valorosamente tenuto la barra dal 2020. Vi lascia un’orchestra assai discontinua che – quando vuole – sa essere in stato di grazia, come in questa Salome, il cui timone è transitato nelle validissime mani di Gaetano D’Espinosa, già primo violino della Staatskapelle Dresden, poi assistente di Fabio Luisi prima che direttore autonomo, al debutto un poco tardivo nella stagione d’opera del Massimo di Palermo, sua città natale. Il controllo tecnico della materia magmatica nell’orchestrazione straussiana è notevolissimo, così come la valorizzazione delle soluzioni timbricamente espressioniste. Fin troppo didascalico nel gesto, vanta con questo repertorio una familiarità che si percepisce sin da subito. L’orchestra sembra tributargli il suo apprezzamento alla ribalta, così come notevole è il successo di pubblico, arriso anche a tutti i solisti, mentre inconsuetamente nessun rappresentate della parte visiva va a raccogliere la propria meritata quota di applausi.
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