Messaggio nella bottiglia (di plastica)
Dopo il debutto del 2021, al dittico Die sieben Todsünden/Mahagonny Songspiel si unisce The songs of Happy End. Nasce così il Trittico Weill, affidato ancora alla coppia Brook/Chailly, che alla Scala offre una panoramica più completa del dialogo artistico tra Bertolt Brecht e il compositore di origine tedesca.
Milano, 18 maggio 2025 - Il rapporto tra Bertolt Brecht e Kurt Weill ha segnato una svolta decisiva nella storia del teatro musicale del Novecento, dando vita a un modello espressivo capace di rompere con le convenzioni dell’opera tradizionale e di rifondare il rapporto tra scena, parola e musica. A unire i due artisti non fu solo una comune visione politica, ma soprattutto un’idea condivisa di teatro come strumento critico, capace di smascherare le contraddizioni della società borghese attraverso una forma artistica antinaturalistica e profondamente consapevole del proprio artificio. Brecht costruisce una drammaturgia fatta di frammenti, interruzioni, straniamenti, in cui il pubblico non deve identificarsi ma è chiamato principalmente a riflettere. Weill, da parte sua, risponde con una scrittura musicale che evita ogni lirismo consolatorio, scegliendo invece il pastiche, l’ironia, l’attrito stilistico. Le sue partiture si nutrono di jazz, cabaret, marce e forme popolari, creando un tessuto sonoro che non accompagna il testo ma lo espone, lo commenta, talvolta lo contraddice. Il sodalizio tra i due non fu soltanto una collaborazione tra librettista e compositore, ma una vera e propria alleanza estetica e ideologica. Weill sapeva tradurre in musica la distanza emotiva che Brecht voleva instaurare tra spettatore e personaggio, rendendo tangibile l’effetto di straniamento attraverso melodie ambigue, contrasti stilistici e orchestrazioni taglienti. Da questo incontro sono nati autentici capolavori del teatro in musica del XX secolo: Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (1930) ne è il più celebre esempio, ma il catalogo si arricchisce di altri preziosi titoli come Die Dreigroschenoper (1928) e Die sieben Todsünden (1933).
Quest’ultimo, bellissimo balletto-cantata, insieme a Mahagonny Songspiel (1927), brodo primordiale da cui poi nascerà l’altra ben più nota, andarono già in scena alla Scala, sempre sotto la direzione di Riccardo Chailly e unite scenicamente da Irina Brook, nel 2021, quando la pandemia sprangava le porte dei teatri, rendendo quell’allestimento un raro e prezioso momento di resistenza culturale. A distanza di quattro anni tornano sul palcoscenico del Piermarini arricchite, nella seconda parte della serata, da un ulteriore titolo, The songs of Happy End, la raccolta di canzoni estratte dal musical Happy End – con l’aggiunta, in chiusura, del tango-habanera Youkali –, che crea con le prime due un inedito Trittico capace di offrire una panoramica più ampia e sfaccettata del dialogo artistico tra Brecht e Weill.
Dialogo che Irina Brook reinterpreta qui con intensità di pensiero e di linguaggio. Rielaborando lo spettacolo del 2021, la Brook immagina il trittico «come un rituale di sopravvivenza ambientato in un futuro non troppo lontano», dove un gruppo di attori, privato di pubblico e senso, si aggrappa all’immaginazione per continuare a esistere. Attraverso tre opere di Brecht/Weill, Brook mette in scena un’umanità alla deriva tra consumismo, collasso ecologico e perdita di speranza. Tra discariche di plastica, naufragi esistenziali e cabaret disillusi, i protagonisti cercano salvezza in un altrove chiamato Youkali, isola ideale e simbolo di un’utopia possibile. Ma Brecht ci riporta alla realtà perché Youkali non esiste e l’unica via rimasta è restare umani, qui e ora, nell’unico tempo e nell’unico spazio che ci è concessi, e prendersi cura gli uni degli altri. È vero, non sempre la messinscena, magnifica sotto il profilo strettamente tecnico – specialmente nei primi due titoli –, riesce a veicolare, virgola per virgola, il messaggio impegnativo e denso che vi si cela dietro. Nonostante la franchezza delle videoproiezioni, la seconda parte, orbata dei dialoghi, sembra scorrere con meno naturalezza, e pur riscontrando un accurato lavoro di regia – i vari personaggi, nel cantare, interagiscono per palesare le passioni raccontate in musica –, la repentinità degli episodi fa perdere qui e là il filo del discorso. Tuttavia, e il finale lo conferma, la serata non ci lascia a mani vuote perché l’intento è encomiabile e potente: fare del teatro un atto di resistenza poetica e civile, un luogo in cui la fragilità umana si trasforma in forza collettiva.
Un teatro così vitale e vibrante richiede, oltre a un accurato lavoro d’insieme, interpreti capaci di emergere tanto nel canto quanto nella recitazione. E alla Scala, fortunatamente, ci sono. A cominciare da Alma Sadé che, nei ruoli di Anna I, Bessie e Mary, oltre a sfoggiare una voce luminosa, ben timbrata e sicura, mostra una spiccata naturalezza scenica. Si muove con disinvoltura tra registri espressivi diversi, passando dall’ironia al dramma, dal grottesco alla dolcezza, rendendo vivi e credibili personaggi pensati per disorientare. Lauren Michelle, che interpreta anche Anna II e Jane, conquista per sensualità e morbidezza vocale, in particolare nella celebre Alabama-Song del Mahagonny Songspiel, dove la sua Bessie si riveste di un velluto sonoro ammaliante. La famiglia dei Sette peccati capitali è ampia e ben assortita: Andrew Harris (basso, Mutter/Jimmy), Matthäus Schmidlechner (baritono, Vater/Charlie/Ein Mann), Elliott Carlton Hines (tenore, Bruder I/Bobby/Sam Worlitzer) e Michael Smallwood (tenore, Bruder II/Billy/Hanibal Jackson) brillano per carisma, duttilità e presenza scenica. Completano il cast l’attore Geoffrey Carey, Natascha Petrinsky (Die Fliege) e l’interessante Wallis Giunta (Lilian Holiday). In Happy End si aggiunge, dopo aver ricoperto un ruolo mimico in Mahagonny, il magnetico, affascinante, irresistibile Billy Cracker di Markus Werba: artista di rara statura, capace di infondere anche in questo repertorio straordinarie sfumature vocali e raffinatezza interpretativa.
Certo, se il palcoscenico si fa valere, è perché in buca Riccardo Chailly dirige gli eccellenti e ridotti complessi scaligeri con mano sicura, cogliendo, di volta in volta, il giusto potenziale del singolo e costruendo, in ciascuna sezione, un guanto orchestrale che calzasse a pennello per ciascun interprete. Non sempre, a onor del vero, c’è parso di ascoltare una concertazione che vibrasse tanto quanto il resto, ma nel complesso il suo lavoro si è rivelato solido, raffinato e coerente, capace di tenere insieme visione d’insieme e attenzione al dettaglio, valorizzando appieno la pluralità di stili e atmosfere che attraversano l’intero trittico.
Serata, in definitiva, di pregio, lungamente applaudita dal numeroso pubblico.
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