L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Abnegazione per Verdi

di Francesco Lora

In Attila al Teatro La Fenice, gli ottimi interpreti delle quattro parti principali – Michele Pertusi, Vladimir Stoyanov, Anastasia Bartoli e Antonio Poli – fanno il bello e il cattivo tempo sull’esiguo nuovo allestimento con regìa di Leo Muscato e sulla lettura musicale, appassionata ma non virtuosistica, di Sebastiano Rolli.

VENEZIA, 24 maggio 2025 – Felice quel decennio, tra il 1997 e il 2007 all’incirca, durante il quale ogni miglior Attila circolante in Italia si dava nell’allestimento in origine pensato da Pier Luigi Pizzi per il Ravenna Festival: una strada romana che veniva incontro alla platea dal fondo della scena, l’eleganza di una livida scala di grigi tagliata col rosso della regalità e del sangue, un’apparizione papale tra angeli fatta di ben poco e che però dava le vertigini. L’attacco nostalgico riemerge davanti all’esiguità del nuovo spettacolo con sfuggente regìa di Leo Muscato, generiche scene di Federica Parolini e oleografici costumi di Silvia Aymonino. Tra il legittimo spaesamento degli attori, compensato giusto da qualche loro buona iniziativa individuale, l’unico oggetto di meraviglia si ridurrebbe a essere – sai che roba – l’uso di fiamme vive in scena: un uso per la verità assai timido, radente l’inutilità, e nondimeno inquietante, visto che sede delle cinque recite, dal 16 al 24 maggio, è il Teatro La Fenice, lo stesso dove il capolavoro di Giuseppe Verdi vide la luce, a Venezia, nonché lo stesso cui converrebbe non resuscitare dalle proprie ceneri troppo spesso (e per così poco). Si va allora a cercare conforto nella lettura musicale presieduta da Sebastiano Rolli, un direttore col merito raro di meditare da una vita sulla poetica verdiana, e con l’aspirazione di emendare filologicamente la sciatteria passata in tradizione. Ne deriva il piacere d’ascolto della partitura integrale, ripulita in edizione critica e affrontata senza traccia veruna di pigro automatismo. Spiace però che la linea programmatica si limiti a un esito incompleto. Le maestranze della Fenice rispondono infatti più con disponibile curiosità che con innescata eccitazione, confermando cioè l’abnegazione ma non il virtuosismo della bacchetta. I cantanti, a loro volta, variano sì le riprese di cabaletta, ma con figurazioni elementari, concedendosi invece, senza che il podio li richiami all’ordine, l’odioso vezzo di tacere sui giri armonici conclusivi, nell’immaginabile preparazione di un acuto-siluro che alla fine, tuttavia, nemmeno viene sparato. Né convince l’idea direttoriale di proporre espressamente a modello di variazione, nella ripresa delle medesime cabalette, un’oltremodo esibita, talvolta vanitosa, comunque giusta flessione dell’agogica che mandi a farsi benedire l’inesorabilità del metronomo: in un mondo ideale del musicalmente alfabetizzato, infatti, ciò dovrebbe avvenire sempre, ossia fin dalla prima esposizione di quelle stesse frasi e non con l’excusatio non petita del volersi variare una ricorrenza testuale. A fare il bello e il cattivo tempo della produzione, così, s’impongono gli interpreti delle quattro parti principali. Michele Pertusi è da oltre un quarto di secolo, sull’esempio stilistico di Samuel Ramey, quello di riferimento per il protagonista: ne costituisce non l’immobile deposito bensì la declinazione vivente, anche ora che il registro centrale ha preso terreno su quelli esterni, il corpo sulla punta, il legato sullo smalto, un accento prepotente eppure rassegnato su quello un tempo imperioso e insinuante. Vladimir Stoyanov, come Ezio, ancora una volta dà lezione di misura: non sgomita per distinguersi rispetto ai colleghi, e lascia così sembrare ovvio il proprio conseguimento, ma sa fare tutto con duttilità, rifinitezza e gusto, e illustra in tal modo ciò che scontato non lo è affatto. Anastasia Bartoli dà luogo a un’Odabella – studiatissima – che non potrebbe essere più fieramente drammatica di calibro; appunto per questo rimonta la curiosità di chiarire se non sarebbe forse un guadagno cercare piuttosto l’alleggerimento vocale della virago malgré soi. All’ultima recita, qui recensita, un’indisposizione non annunciata ma evidente affliggeva Antonio Poli: affabile il timbro ed energico l’accento, come sempre, ma la tessitura di Foresto è più insidiosamente acuta di quanto possa sembrare, così da mettere a repentaglio la tenuta. Francesco Milanese, infine, provvede a un Leone tanto corretto quanto distante dall’ideale di chi debba ripetere, non meno «tuonante», lo stesso monito già raccontato da Attila: ma quante volte è capitato di arraffare un cameo come quello di Ramey, nel 2010, a New York?

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