L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dalla parte di Monteverdi

di Francesco Lora

Lo spettacolo inaugurale del Monteverdi Festival è Il ritorno d’Ulisse in patria, con una regìa-capolavoro di Davide Livermore e un’eccellente compagnia di canto capitanata da Mauro Borgioni e Margherita Sala. La concertazione di Michele Pasotti, alla testa della Fonte Musica, è non meno appassionata e accattivante, ma va discussa per via di qualche recidivo equivoco storico-filologico (non diversamente da quanto avvenuto la settimana precedente nel Vespro della Beata Vergine diretto da Jordi Savall).

CREMONA, 10 giugno 2025 – Prima di divenire quello di un famoso regista teatrale, il nome di Davide Livermore era quello di uno sveglio tenore lirico, che un trentennio fa ebbe anche la ventura di partecipare a pietre miliari della riscoperta di Claudio Monteverdi (il cofanettone di CD con la Selva morale e spirituale, sotto la direzione dell’arcispecialista Roberto Gini, rinnova tuttora la nostalgia delle cose fatte per bene). Appunto una regìa-capolavoro di Livermore, tra le scene di Eleonora Peronetti e D-WOK, i costumi di Anna Verde e le luci di Antonio Castro, impreziosisce quest’anno l’inaugurazione del Monteverdi Festival di Cremona, nel Teatro Ponchielli, con due recite del Ritorno d’Ulisse in patria il 13 e 14 giugno (si recensisce qui la prova generale del 10). Una regìa-capolavoro – si diceva – dal momento che fissa un modello di competenza, metodo e abnegazione, qualità rare che la poetica monteverdiana esige senza sconti. Nel programma di sala, Livermore afferma di aver scelto «una crasi geografica di memorie mediterranee», «un’Itaca sospesa nel dopoguerra, intrisa del profumo del mare e del ricordo di un mondo antico», «una realtà livida e polverosa che sembra uscita dal cinema neorealista». I fatti contano però più delle parole: l’evocazione di La terra trema di Luchino Visconti o di Stromboli di Roberto Rossellini si afferra anche senza essere stati prima imbeccati, e provvede un mitico colore locale più azzeccato, mordace e struggente che mai; soprattutto, essa rimane sul fondo di un lavoro teatrale ove ogni attore recita con immediata scioltezza cinematografica, in un divertito e commovente gioco di squadra grazie al quale il sesto grado barocco del libretto di Giacomo Badoaro – si è nella Venezia del 1640 – sembra per magia tradursi in un’odierna, liscia sceneggiatura. Per giungere a un tanto esito, Livermore non ha peraltro bisogno di violentare il testo a muoversi verso di lui, e fa anzi sfoggio di erudizione. Dai tre atti della partitura, per esempio, egli ricava una pratica suddivisione in due parti, che tuttavia non è arbitraria, come oggi normalmente accade: la prima corrisponde infatti alla sequenza degli atti I e II sui cinque contemplati, con differente suddivisione, nelle redazioni antiche del libretto. Preziosa è a sua volta la messa a punto delle controscene: valga per tutti l’esempio dei Proci, che nella loro consegna di doni a Penelope sono qui visti offrire, a conferma di avida brutalità, quegli stessi gioielli poco prima strappati a viva forza dalla personificazione della Fortuna.

Va da sé – come già detto – che solo la complicità di una squadra di cantanti-attori avrebbe potuto garantire a Livermore uno tra i suoi più istruttivi allestimenti: la compagnia annovera del resto un buon quarto tra i più esperti interpreti di questo repertorio oggi alle scene, con una provvidenziale prevalenza di italiani madrelingua a rendere infinita e mai forzata la gamma di sfumature della parola in seno al canto nonché del canto in seno alla parola. La parte protagonistica spetta al solito Mauro Borgioni, che ne ha attualmente il glorioso monopolio, ovunque si esegua un Monteverdi di qualità, e che vale come un’Anna Caterina Antonacci al maschile, con ciò esaurendosi la missilistica delle lodi. Bronzea, polposa, materica, capace di rabbia, compiaciuta d’accento, risonante in petto, potentemente matriarcale e dunque caratterialmente inedita è l’altrettanto eccellente Penelope di Margherita Maria Sala. Chi cerchi una declinazione più tradizionalmente affettuosa, vellutata e introversa del personaggio potrebbe invece riferirsi a Chiara Brunello, che qui tiene la parte di Ericlea. Altri lussi conclamati o buone affidabilità sono quelli di Luigi De Donato, come sarcastico Tempo e canagliesco Nettuno, di Giulia Bolcato, come sfottente Amore e radiosa Giunone, di Valentino Buzza, come scolpito Giove, di Arianna Vendittelli, come spigliata Minerva, di Chiara Osella, come lacerata Umana Fragilità, di Cristina Fanelli, come puntuale Fortuna, di Alberto Allegrezza come affabile Eurimaco, di Arnaud Gluck come flebile Pisandro, di Roberto Rilievi come vanesio Anfinomo e di Matteo Bellotto come dubitoso Antinoo. Un memorabile florilegio di caratteri e affetti. La parte di Melanto, tenuta dalla pur scaltra Alena Dantcheva, attira su di sé un po’ troppe scorciature, mentre il simpatico Eumete dello spagnolo Francisco Fernandez-Rueda e l’ingessato Telemaco dell’australiano Jacob Lawrence hanno la iella di dover duettare, nello stesso registro e in nome di uno studio onesto, con l’eloquio sovrano e l’innato genio dell’Ulisse di Borgioni. Infine, la sorpresa: Livermore che torna per qualche giorno a fare anche il cantante, nei ridicoli panni di Iro; c’è tuttavia poco da ridere: la voce finge di essere consunta ma nell’ultimo monologo torna a guizzare, mentre l’attorialità, nella reinvenzione artistica della rozzezza bestiale, è da primario mattatore.

Resta da dire dell’ensemble strumentale La Fonte Musica e del suo concertatore Michele Pasotti, gli stessi che nel marzo scorso hanno eseguito uno scrupoloso Orfeo a Pavia, Anversa, Bruges e Vienna. Proprio L’Orfeo è la causa innocente di molte sciagure odierne per la rinata opera secentesca veneziana: stampandolo nel 1609, Monteverdi consegnò non tanto una base sulla quale fondare improbabili riesecuzioni, quanto un trattato esplicito – il principio teorico del comporre illustrato direttamente nel suo atto pratico – di retorica musicale; si estese così anche a nozioni sulla diminuzione e sulla strumentazione: non registrò ciò che si faceva abitualmente nel mondo reale, ma additò ciò che si sarebbe fatto in un mondo ideale, possibile forse solo per qualche sera alla corte ducale dei Gonzaga di Mantova, e comunque secondo un gusto tardo-rinascimentale che poco ha da spartire col contesto impresariale veneziano di oltre trent’anni dopo (che effetto farebbe trattare alla stessa stregua Nilla Pizzi e Freddie Mercury?). Peccato che L’Orfeo-trattato serva oggi da cavallo di Troia per adulterare il più lungo ma più snello flusso delle opere del Monteverdi anziano, di Francesco Cavalli, di Antonio Cesti e così via, fino agli albori o ai meandri della letteratura musicale settecentesca. Per meglio capirsi: è uso corrente invocare i ‘fasti dell’opera veneziana’, eppure, ancora all’altezza storica di Agrippina di Georg Friedrich Händel, Alexandre de Rogissart, in una tra le prime guide turistiche sulla Serenissima, parlava di spettacoli sì adorabili, ma fatti con pochi strumenti musicali e alla luce di poche candele, attraverso i quali, dunque, si puntava a guadagnare molto spendendo poco – le liste di pagamento confermano – e dove la vera meraviglia doveva consistere nel talento scenico dei cantanti (quelli che in Italia erano detti attori punto e basta, con buona pace del compresente teatro di parola).

La sgradevole lezioncina è tirata fuori per due ragioni. La prima è che quello monteverdiano di Cremona è un festival con ineludibile vocazione musicologica, dal quale si devono dunque trarre modelli esecutivi che educhino a ciò che è scientificamente attendibile. La seconda ragione è che Pasotti svolge un lavoro parecchio preferibile a quello degli innumerevoli concertatori dilettanti che infestano l’attuale mercato tra il plauso dei non musicalmente alfabetizzati. Proprio per questa seconda ragione, spiacciono le occasioni nelle quali egli – artefice di un valido Orfeo e del più splendido Combattimento di Tancredi e Clorinda, ovviamente con Borgioni, ascoltatosi dagli anni dell’Antonacci – scopre il fianco a mode poco lecite dal punto di vista non solo filologico, ma anche funzionale.

Nell’unica fonte tramandata della partitura del Ritorno d’Ulisse in patria, oggi nella Biblioteca Nazionale di Vienna, sono più numerose le informazioni da seguire che le lacune da lamentare. Non c’è alcuna formidabile strumentazione perduta e da ricostruire, né alcuna miracolosa prassi improvvisativa polifonica da ripristinare, bensì il canonico quartetto, con un solo esecutore per ciascuna parte di Violino I e II, Alto e Tenore Viola, sostenuto dal minimo necessario di basso continuo, ossia uno o due altri archi, un clavicembalo e – in caso di gran scialo – una tiorba: sei-otto strumenti e l’opera è fatta, con suono sufficiente a una sala come quella del Ponchielli. La Fonte Musica, al contrario, vede estesi gli strumenti di concerto a cornetti, flauti e dulciana, e quelli del continuo a viola da gamba, lirone, arpa, organo e regale. Ne deriva un Monteverdi soggetto a pesante doping volumetrico, timbrico e contestuale (strumenti da chiesa applicati al teatro), mai ascoltato in un tale assetto da guerra all’epoca del Ritorno d’Ulisse in patria, accattivante senza dubbio ma nel contempo fuorviante e foriero di una poco sana dipendenza uditiva dal rialzo di decibel. A far le spese di questa capillare microstrumentazione sono, per paradosso, proprio i cantanti, poiché il loro primato e il loro impegno devono vedersela con un contesto orchestrale sovrastante e instabile, che, nel corso sia delle prove sia delle recite, richiama l’attenzione del direttore più sugli strumenti (sostegno e accompagnamento) che sulle voci (le indiscusse protagoniste).

Poi. In recite di pregio musicale e teatrale, come quella cremonese, il tempo vola senza rischio di noia. Peccato allora che l’occasione di un’esecuzione integrale vada perduta per via di una sola manciata di tagli (nell’atto II secondo la partitura manoscritta, per esempio, cadono le intere scene IV e X, e almeno tre passi della scena XII, che proprio in quanto articolatissima andrebbe invece tutelata come un bene raro). Peccato ancor maggiore se ai tagli si affiancano le aggiunte arbitrarie, come quella consistente in libere repliche di ritornelli strumentali e come quella di un coro finale, presente nel libretto ma mai dimostrabilmente posto in musica, qui inventato di sana pianta mediante una contraffazione del mottetto monteverdiano Exsultent caeli: è in tal modo vanificata, peraltro, la prassi di concludere le opere con un duetto d’amore (come si vede testimoniato anche nell’Incoronazione di Poppea, macroscopicamente, o nella Calisto di Cavalli, dove i duetti d’amore sono addirittura uno per ciascuna delle due complementari coppie). Meglio trattenersi dalle tentazioni di horror vacui, insomma, se si è già in grado di condurre un discorso sottile, storicamente fondato, aderente al prescritto, e tanto più se a saturare di significati l’ascolto s’impone già la varietà espressiva di un Borgioni, di una Sala e dei loro ferrati colleghi: il soffuso contributo di un lirone o il tintinnare di un’arpa farà loro ben magra competizione concettuale.

Qualche isolato, patetico, specifico malumore di chi scrive aveva del resto già avuto la scintilla il 7 giugno, nella chiesa di S. Marcellino, in occasione del primo antipasto servito dal Monteverdi Festival a un pubblico fin troppo estasiato: l’esecuzione del Vespro della Beata Vergine – l’esatto contraltare sacro dell’Orfeo – da parte di Jordi Savall, della sua Capella reial de Catalunya e del suo Concert des Nations. Genuini gli intenti, perfetta l’intonazione, serena l’intesa. Spicco del malioso soprano Anna Piroli, dominante sull’altro in Pulchra es, e del solito Borgioni, in un Audi caelum da vertigine. Lodevole anche il non cadere in tentazione circa l’inserire a tutti i costi le antifone gregoriane in questo opus magnum: esso non è infatti un prontuario per l’uso liturgico bensì un altro trattato esplicito, ove si mostra la fisionomia di un ideale vespro in musica, modulare a seconda che la festa mariana sia solenne o solennissima, mediante il progressivo incremento delle diavolerie tecniche e retoriche (nei salmi, nei mottetti e ovunque, fino all’opzione tra due Magnificat dei quali il secondo, altrettanto superbo benché meno appariscente, non si ascolta disgraziatamente mai). A contaminare l’ascolto – ecco il punto – giunge però lo sprovveduto ricorso a strumenti estranei all’uso canonico di chiesa: viola da gamba, arpa e clavicembalo, mentre l’organo, che dovrebbe risuonare copioso, si riduce a un lieve sfondo timbrico. Quanto ai passaggi tra battute in due e in tre tempi, nel Vespro del 1610 essi dovrebbero poi essere gestiti non seguendo un libero istinto agogico, come fa Savall, ma secondo un preciso rapporto matematico, con un risultato che non è vanvera di musicologo ma – provare per credere, per esempio ascoltando la lettura incisa dal già menzionato Roberto Gini – inattesa pelle d’oca per ognuno: l’istinto porterebbe a staccare il valzer spensierato che quasi sempre si ascolta, mentre la matematica detta il passo largo ove rimbombano Dio e la sua chiesa. Chi vuol stare dalla parte di Monteverdi?

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