Déjà vu
L'inaugurazione della stagione areniana replica con Nabucco l'iperbole visiva dell'Aida del 2023, sempre firmata da Stefano Poda. Il cast allinea nomi noti che non deludono e costituiscono il punto di forza dello spettacolo. Sul podio Pinchas Steinberg.
VERONA, 13 giugno 2025 - Si ha l’impressione che venerdì 13 giugno dell’anno in corso, accomodati nelle poltrone non proprio comode nel mitico anfiteatro veronese che dal 1913 accoglie uno dei festival lirici all’aperto più noti e frequentati del mondo, si assista a un déja vu. Qualcosa di simile si è già visto esattamente due anni nella stessa sede, l'Arena di Verona appunto, e si è ascoltata la musica dello stesso compositore, Giuseppe Verdi appunto, presenti alla première del nuovo allestimento firmato dallo stesso nome, il regista – e non solo - trentino Stefano Poda. Oggi la differenza sta nel fatto che lo spettacolo non è Aida, ma Nabucco. Tutti siamo in trepidante attesa: dopo tante versioni firmate da Gianfranco De Bosio, Hugo De Ana, Arnoud Bernart, ecco il nuovo allestimento creato di Stefano Poda, regista, scenografo, costumista, light designer e addirittura coreografo. Insomma, fa tutto lui.
A questo punto arriva il momento di andare indietro nel tempo e scovare nel computer le foto dell’Aida di due anni fa, comunemente nominata “di cristallo”. E dopo aver dato un’occhiata e rinfrescando la memoria, realizzare che a distanza di due anni si vede una produzione molto simile, con la differenza che in Nabucco la mania di grandezza risulta ancora più incontenibile, con elementi scenografici più numerosi e masse ancora più imponenti. In Aida al centro del palco immenso c’era una mano gigantesca che scendeva e risaliva, simboleggiando il potere; nell’attuale Nabucco il suo posto è preso da una clessidra trasparente composta da spranghe e con la scritta “Vanitas” incorporata in una scala che scende sul palco. A destra e a sinistra della clessidra due emisferi che nel finale formano un globo.
Il pensiero che gli allestimenti firmati Poda si limitano a pochi elementi di scenografia e a movimenti delle masse che somigliano alle parate delle truppe – una volta sovietiche e oggi russe – sulla Piazza Rossa (con la differenza che le ultime sanno muoversi con efficacia ed eleganza) e non si tratta mai della regia vera e propria, si è cristallizzato ormai; da questo punto di vista si può constatare che “se il regista c’era, dormiva”, o, ancor meglio, il regista non c’era proprio. C’è, però, tanta, troppa gente in scena col compito di cambiare posizione, marciare, formare figure geometriche.
Il cast che sembra scelto sulla base d’esperienza e affidabilità (non ci piove!) corrisponde sufficientemente alle aspettative. Nel ruolo del titolo il baritono Amartuvshin Enkbat, lo riconosciamo al volo, ammiriamo il suo timbro splendido, l'approccio energico al personaggio, la dizione chiara, la virilità affascinante, un insieme di qualità oggi più unico che raro. Fa l’impressione di non cantare e recitare il ruolo di Nabucco, ma realmente di trasformarsi nel re babilonese.
Lo stesso giudizio vale per il soprano Anna Pirozzi, che da anni non semplicemente indossa l’abito d’Abigaille, ma sembra averlo preso in prestito dalla figlia stessa di Nabucco. Vanitosa, imperiosa, innamorata e alla fine fragile, disegna verosimilmente la psiche complessa del personaggio e risulta una dominatrice sicura della vocalità impervia del Verdi giovane. Ciò nonostante, in questa première areniana, nella sua interpretazione si percepisce una certa insicurezza, dovuta, supponiamo, al tremendo ambaradan della messa in scena. Il canto rivela una certa ruvidità e l’inclinazione alle forzature.
Francesco Meli, che siamo abituati a sentire in ruoli ben più importanti di Ismaele, ricava il proprio spazio all’interno della recita grazie a un’alta cultura musicale e a una bellissima linea di canto. Mai una esagerazione o una sbavatura, si ascolta un canto carezzevole e si ammira la musicalità impeccabile.
Roberto Tagliavini è uno Zaccaria di autentica scuola italiana, autorevole, ieratico e capace di sfumare il canto con maestria.
Il mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya, già artista completa, poliedrica e affascinante, indossa con disinvoltura i panni di Fenena e riesce a rendere il personaggio più importante del solito. Sicurezza in scena, grazia e femminilità innate, preparazione vocale solida: una figura di solito secondaria acquista importanza maggiore. Un piccolo capolavoro risulta l’assolo nel finale, “Oh, dischiuso è il firmamento” cantato sul fiato, in modo morbido e vellutato e con molta espressività.
Gabriele Sagona e Carlo Bosi sono i collaudatissimi interpreti dei ruoli del Gran Sacerdote di Belo e Abdallo e la giovane Daniela Cappiello figura bene nella parte d’Anna.
Il coro dell'Arena istruito da Roberto Gabbiani è un'altra certezza in un'opera che è un simbolo delle sue qualità di forza drammatica e poetica.
Sul podio il direttore israeliano americano Pinchas Steinberg fa fatica di scacciare via il ricordo di Daniel Oren, per lunghi anni uno dei simboli dell’Arena: non sembra perfettamente adatto al compito a lui affidato. La direzione è, senz’altro, professionale e corretta, accurata e precisa, tuttavia non corrisponde pienamente allo spirito del primo Verdi, indomabile, iper energico, granitico. Strada facendo, però, Steinberg sembra trovare affinità maggiore con le maestranze areniane e rende le sonorità della partitura più vigorose e grandiose; il pubblico apprezza, riservando al maestro calorosi applausi all’uscita sul palco.
Alla fine, tante sensazioni contraddittorie. Gli applausi segnano davvero il vero successo di questo Nabucco con tanti, troppi difetti? O si applaude cortesemente, volendo nascondere la delusione? Le recite successive dovrebbero chiarire questi dubbi.
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