Parma 1769. No: Salisburgo 2023
Il Monteverdi Festival ha vantato un’ultima ripresa di un Orfeo ed Euridice, con Cecilia Bartoli e Gianluca Capuano, che promette una rara versione scorporata dalla mastodontica festa teatrale cui apparterrebbe, e che è invece un tacito e arbitrario riassemblaggio a partire da più versioni della partitura. Trionfo intorno alla diva, ma operazione diseducativa, a spese del lavoro di Gluck.
CREMONA, 11 giugno 2025 – Ci vuol del bel coraggio a dichiarare «Versione di Parma 1769». Il lavoro in questione è Orfeo ed Euridice di Christoph Gluck: dopo essere stato creato come «azione teatrale» a Vienna nel 1762 (per festeggiare l’onomastico dell’imperatore, Francesco I di Lorena), e prima di essere ricreato come Orphée et Eurydice e «tragédie» a Parigi nel 1774 (sotto il patrocinio della regina Maria Antonietta, figlia del predetto), esso fu anche revisionato dal compositore per divenire l’ultimo dei tre atti nelle Feste d’Apollo, mastodontica partitura onde celebrare le nozze di Ferdinando I di Borbone-Parma e Maria Amalia d’Asburgo-Lorena (figlia e sorella dei primi due: una partitura come patrimonio di famiglia). Versione di Parma 1769, quindi. La quale reca modifiche blande rispetto all’originale, mirate alle differenti qualità dei nuovi esecutori: la strumentazione fu ritoccata e la parte del protagonista maschile, concepita per Gaetano Guadagni (già soprano attivo con Händel a Londra, canonizzato come contralto, di fatto mezzosoprano non troppo acuto), fu voltata, con trasposizioni di tono e puntature melodiche, per Giuseppe Millico (futuro protagonista maschile in Paride ed Elena, canonizzato come soprano, di fatto mezzosoprano piuttosto acuto). Le più informative differenze, per chi voglia sfogliare la fresca edizione critica a cura di Gabriele Buschmeier e Isolde von Foerster, o recuperare la registrazione dell’esecuzione avvenuta ai Tage Alter Musik di Herne nel 2014, consistono forse nell’arioso «Che puro ciel! Che chiaro sol! …» e nella finale scena corale, ove i tre personaggi intervengono, in vaudeville, ciascuno cantando la propria strofa.
Ci vuol del bel coraggio, si diceva, poiché dal 2023, a Salisburgo, con una nichilista regìa di Christof Loy, e poi nel 2024, in una versione semiscenica, a Lussemburgo, Bruxelles, Amsterdam, Amburgo, Essen, Colonia, Baden Baden, Wiesbaden, Parigi e Zurigo (mezzo mondo), Orfeo ed Euridice circola in una contraffazione dichiarata come «Versione di Parma 1769» ma in verità consistente in una spudorata reinvenzione. In essa le linee melodiche finiscono talvolta – forse involontariamente – per ripigliare la strada di Vienna 1762; sono interpolati l’Air de Furies e il Ballet des Ombres heureuses come li si trova in Parigi 1774; le ultime due scene, sulle sette totali, sono tagliate (bye bye all’informativo vaudeville), mentre il lieto fine, soppresso, è rimpiazzato con repliche dell’«orribile sinfonia» infernale e del coro funebre d’esordio. Così si allevano gli innocenti polli che, uscendo dal teatro, cianciano poi di un Gluck pentito e intento a produrre un nuovo finale tragico, secondo il vero mito. A officiare lo scempio – presumibilmente apparecchiato da Loy, comunque condiviso dai musicisti e da loro non abiurato nella versione semiscenica, adespota e parecchio cringe – sono gli inseparabili Cecilia Bartoli e Gianluca Capuano: a Cremona, nel Teatro Ponchielli, l’11 giugno, il Monteverdi Festival ha vantato un’ultima – auspicabilmente ultima – ripresa di questa opinione su Orfeo ed Euridice. Una ripresa trionfalmente diseducativa, diretta com’è più alla pancia che al cuore o addirittura al cervello del pubblico. E altro che «Versione di Parma 1769», in un festival il quale trarrebbe credito dall’osare le intere Feste d’Apollo piuttosto che dal propagare un atto scorporato, manomesso e capitozzato.
Quanto alle pagelle, sono quelle tipiche dello studente intellettivamente molto dotato, e che tuttavia non si applica a dovere, o prova gusto a far precipitare la media col voto in condotta. La Bartoli rimane la solita campionessa d’espressività, che però è di quel suo astutissimo tipo pseudoitaliano, confezionato ad arte per il pubblico mitteleuropeo, dunque ad alto rischio di tradursi – tanto peggio se sotto un Torrazzo – in controproducente affettazione, semicomico iperespressionismo, gigionata, birignao, eccesso verista ampiamente sconfinante nel parlato o gesto attoriale talmente studiato da sofisticare la spontaneità e dunque annullarla nel momento stesso di praticarla. E la stupenda virtuosa? Mostra oggi qualche felatura nell’emissione, un assottigliamento dello smalto intorno al timbro, una proiezione sempre sagace ma più laboriosa, un’esibita disomogeneità nel passaggio tra registri; sventuratamente, la parte di Orfeo, per definizione, non predispone festoni di semicrome sedici a sedici, sicché, precluso il canto d’agilità, la Bartoli, che sarebbe pur sempre la Bartoli, ricorda qui a malincuore l’albatro, affrancato in cielo e impacciato sulla terra.
Poi c’è Capuano, al solito consacrato al calligrafismo, all’esagerazione, allo horror vacui, al famolo strano: sottopone la partitura a ogni possibile libero stresstest agogico, timbrico e metrico, tra più vie interpretative preferisce sempre quella altisonante o cervellotica e a ogni ripresa di brano o sezione – in Orfeo ed Euridice capita spesso – presenta una radicale alternativa. Va da sé che un simile indirizzo sia altamente divisivo, e nemmeno nel confronto tra spettatori diversi, ma persino tra i due orecchi di uno stesso ascoltatore: le soluzioni tirate per i capelli sono tante quante quelle intriganti o rivelatorie (anche là ove si giurerebbe il contrario: «Che farò senza Euridice?», attaccata a rotta di collo, non galante ma Sturm und Drang, è filologicamente più attendibile di quando la si trascini a morto). Dal momento che sono falciate via le ultime due scene – le sole ove i tre personaggi compaiono insieme – si fa economia affidando sia Amore sia Euridice alla diligente Mélissa Petit, altra fedelissima di quel milieu bartoliano completato dalle compagini: l’orchestra Les Musiciens du Prince, come sempre smagliante, e il coro Il Canto di Orfeo, ancora una volta flebilino.
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