La scena invisibile
Prosegue, e cresce, il Ring wagneriano diretto da Oksana Lyniv con i complessi del Comunale di Bologna. Se persiste qualche problema nella concezione originaria del ciclo, il Siegfried merita prolungati applausi che premiano anche una compagnia di canto assai ben assortita.
BOLOGNA, 15 giugno 2025 - Prosegue e cresce il Ring wagneriano del Comunale di Bologna, sebbene qualche peccato originale persista. Sono problemi connaturati proprio alla prima concezione del progetto e quindi difficili da emendare in corso d'opera, come la scelta di non realizzare un vero e proprio programma di sala come per la stagione lirica, ma di distribuire solo un esile fascicoletto con locandina, organico, curriculum della direttrice, sponsor e un contributo di Alberto Mattioli (niente sinossi, tuttavia). La collocazione nel calendario, poi, finisce facilmente per sacrificare i tempi di prove e compattare i turni di abbonamento in due sole recite che sortiscono un effetto paradossale: le date risultano esaurite e il botteghino è appagato benché ci siano davvero troppe poltrone vuote che appassionati avrebbero volentieri occupato rimanendo invece a bocca asciutta. I conti in tasca tornano, ma compito di un teatro non è solo fatturare (posto che, in prospettiva, anche per gli incassi i vuoti in sala non sono mai un bel segnale) e quindi qualche quesito è opportuno porselo: possibile che gli abbonati alla stagione lirica della prima città wagneriana d'Italia disertino un evento come questo? Possibile che non ci siano le risorse per aggiungere una recita fuori abbonamento? Che fare?
Altra questione che questo Ring pone sul piatto è quella della rinuncia alla forma scenica che fa venir meno quell'unità di arti proclamata dall'autore come principio fondamentale. Lo stesso Wagner, però, abbinava allo slancio ideale un vivo senso pratico e affaristico e qui la ragione pare evidente: il progetto nasce quando Oksana Lyniv (specialista di questo repertorio e prima donna nella storia a salire sul podio a Bayreuth) è direttrice musicale del Teatro, quindi l'idea di intraprendere il ciclo dei nibelunghi par quasi naturale, sebbene coincida con la chiusura della sala del Bibiena, l'esilio in Fiera e quindi la comprensibile necessità di scegliere come sede l'auditorium Manzoni. Alla fine, poi, la forma oratoriale si fa semiscenica, ora puntando su qualche gioco di luci, ora sull'iniziativa attoriale più o meno esplicita e coordinata degli interpreti. Magari si sarebbe potuto valorizzare maggiormente questa linea trovando una firma estetica più distintiva, ma alla fine il risultato non spiace affatto, anzi. Sebbene la visibilità non sia sempre perfetta da ogni posto, l'idea di proiettare non solo il testo cantato ma anche le didascalie del libretto favorisce l'immersione nel poema epico wagneriano e compensa con un'altra prospettiva, più intima e astratta, quel che si perde dall'assenza del teatro. Anzi, l'assenza pressoché totale di attrezzeria (abbiamo solo, per ovvie ragioni musicali, l'incudine e il martello di Mime) ha una sua suggestione e richiama alla mente quell'idea di “scena invisibile” che Wagner stesso aveva vagheggiato in una lettera a Cosima come passo successivo alla raggiunta invisibilità dell'orchestra. Perché no? Dopotutto abbiamo alla ribalta un cast che dimostra una gran vis teatrale, oltre a un'esuberanza vocale che è, senza dubbio, uno dei principali punti di forza di questo Ring.
L'emblema dell'efficacia di questa compagnia è il Wotan Thomas-Johannes Mayer, dal quale ci accomiatiamo non senza un pizzico di dispiacere. Ci ha dimostrato cosa significhi essere un artista che costruisce e fa evolvere il suo personaggio passo passo. Non possiamo dimenticare l'iniziale perplessità suscitata nel Rheingold, che forse l'aveva colto in una non perfetta forma vocale e ci aveva fatto alzare il sopracciglio al pensiero delle due giornate successive. Invece abbiamo visto la vitalità sardonica, divertita del giovane dio trionfante e beffardo del prologo trasformarsi sulla via del crepuscolo, mantenere un'ironia sempre più amara ma ancora guizzante, acquisire ombre, non accontentarsi dell'adesione ad archetipi di paternità e potere, divinità e umanità, ma costruire un proprio, affascinante, Wotan/Wanderer.
Granitico è per contro – ma felicemente – l'Alberich implacabile di Claudio Otelli, altra colonna portante di questo Ring: se Wotan accetta il mutamento e lo accompagna malinconico senza perdere l'ironia, il nibelungo coltiva senza requie, esacerbato, la sua ostinazione.
Ritroviamo anche il Fafner di Sorin Coliban, un tempo gaudente e ora fossilizzato nel suo avido sonno. Ritroviamo anche la Erda di Bernadett Fodor, imponente quanto impotente di fronte agli eventi.
Con piacere si ritrova, ma in una continua metamorfosi, Sonija Šarić, già luminosa Freia e Sieglinde dolce quanto forte, ora Brünnhilde di raggiante espansione vocale in quell'ultima, densissima, mezz'ora che Wagner le riserva (Puccini appuntò “Tristano” per il finale di Turandot, ma anche un parallelismo con il disgelo della walchiria non sembrerebbe peregrino).
Cambia, invece, rispetto al Rheingold dello scorso anno, l'interprete di Mime: Matthäus Schmidlechner si guadagna gli applausi più calorosi della serata con una caratterizzazione scevra da ogni piagnisteo e caricatura, basata su un buon canto e un fraseggio ben ponderato. Sebbene sia chiaro dove l'acredine di Wagner punti nel ritrarre suoi contemporanei nei panni di pavidi e livorosi artigiani o dell'arido critico Beckmesser (e quindi nel rappresentare sé stesso come eroe che fa risorgere l'arte), in Mime riecheggia anche l'eco più nobile dei mitologici Telchini additati da Callimaco.
Con il leggiadro uccellino di Julia Grueter, resta poi naturalmente proprio l'eroe eponimo, possibile alter ego dell'autore che deve polverizzare la spada (l'arte, l'opera) per riforgiarla incomparabile e necessaria. Siegfried è, però, a differenza del tormentato padre Siegmund, un giovanotto ingenuo, una sorta di proto - puro folle, di cui Michael Heim enfatizza gli aspetti giocosi, l'esuberante e incosciente spavalderia, la propensione allo scherzo e allo sberleffo; degno nipote di nonno Wotan/Wälse, non ne ha (ancora, né farà in tempo a maturarla) tutta la disincantata arguzia. È un bambinone che scopre la vita e le tempeste adolescenziali con una voce che sostiene bene l'impresa e si allinea dunque con la traccia interpretativa dettata da Oksana Lyniv.
La maestra ucraina, fino allo scorso anno direttrice musicale del Comunale, ha tratteggiato con questo Ring un percorso in crescendo che si è via via consolidato. Più che un racconto filosofico o una metafora socio politica, il suo sembra essere un grande percorso epico in cui la narrazione prende il sopravvento anche con i suoi aspetti fiabeschi, con l'impeto esuberante, travolgente della scena della forgia di Nothung e della passione di Siefried e Brünnhilde. Il Leitmotiv assume il ruolo dell'epiteto e della formula in Omero, degli archetipi del racconto orale fino (almeno) ai Grimm e a Afanas'ev. Magari non godremo di una visione illuminante e rivelatrice, ma il passo drammatico è vivo e avvincente, la conoscenza e il controllo della materia chiari anche quando l'orchestra, compiaciuta, su lancia a briglia sciolta. Insomma, complice la scena invisibile evocata alla lettera nelle didascalie, ce la si gode come bambini in un negozio di dolciumi, fra la fiaba della buona notte e l'adrenalina del kolossal fantasy, ma con la porta aperta pure a una riflessione personale e più matura.
Come esplode l'orchestra - lodevolissima nel suo impegno - sulla passione del ragazzetto e della walchiria che si scoprono uomo e donna, così esplode l'applauso del pubblico, con punte davvero al calor bianco. Da far riflettere sul potenziale da rivalorizzare in una città di secolari glorie musicali come Bologna.
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