L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vienna, o cara

di Antonino Trotta

Al Teatro Coccia di Novara, La traviata di Giuseppe Verdi si distingue per l’interessante apparato scenografico e la bella concertazione di Alessandro Cadario. Ben amalgamato, nel complesso, il cast.

Novara, 28 settembre 2025 – Sembra ambientata a Vienna, nel celeberrimo Secessionsgebäude, La Traviata andata in scena al Teatro Coccia di Novara: la bianca e geometrica essenzialità dell’apparato scenico, spezzata da ornamenti dorati e floreali che, grazie agli eleganti giochi illuminotecnici, sembrano fluttuare sulla superficie liscia delle pareti, restituisce un’atmosfera rarefatta e simbolica, dove il dramma di Violetta si trasfigura in un rituale quasi estetico, sospeso tra arte e vita, tra passione e dissoluzione. Il riferimento ai grandi artisti secessionisti, d’altro canto, è più che evidente: le grandi opere proiettate sullo sfondo fanno da contraltare visivo all’intera vicenda, tentando di instaurare così un dialogo tra pittura e musica, tra ornamento e tragedia, per trasformare il grande capolavoro verdiano in sogno dorato sull’inconsistenza del desiderio, una meditazione sull’estetica del decadere, dove la bellezza stessa si consuma insieme alla sua eroina. Non sempre, va detto, l’operazione sortisce l’effetto auspicato. Se da un lato lo spazio liberty ideato da Italo Grasso, efficacemente illuminato da Ivan Pastrovicchio, le proiezioni di Luca Attilii – in quest’occasione estese anche alla volta del Coccia – e i bei costumi di Anna Biagiotti assicurano ovunque un colpo d’occhio appagante e un’armonia d’insieme che impreziosisce la fattura dell’allestimento, dall’altro il repertorio iconografico s’impone più per valenza decorativa che drammaturgica, fatta eccezione forse solo per l’ultimo quadro, dove la contrapposizione tra Il bacio di Klimt e La morte e la fanciulla di Schiele crea una tensione emotiva più potente, capace di rispecchiare il dramma interiore di Violetta e di conferire all’ultima scena un’intensità che sa andare oltre l’aggraziata soluzione scenografica. In un contesto così ben realizzato la regia di Giorgio Pasotti, al suo debutto col teatro d’opera, s’inserisce con scarsa incisività e confidenza col linguaggio. Scolastica nella gestione di masse e personaggi, la regia fatica a creare tensione narrativa e a valorizzare pienamente le infinite potenzialità del testo; molte scene risultano statiche, prive di ritmo interno, e solo nei momenti più intimi, affidati ai solisti e alla loro esperienza, emerge qualche accenno di autentica profondità. Così, pur in un allestimento visivamente di pregio, la messa in scena appare spesso subordinata alla bellezza del contenitore, lascando spesso la narrazione orfana di pathos.

Quest’ultimo, per fortuna, non latita in buca, dove Alessandro Cadario, alla guida dell’Orchestra Antonio Vivaldi, concerta la partitura con spiccato senso teatrale e ottima finezza strumentale, ancor più evidente là dove la banda fuori scena è riarrangiata nel golfo mistico con squisito gusto cameristico. La bella tavolozza cromatica, il vivace evolvere ritmico, il fraseggio chiaro e vivo bilanciano con eleganza la vertiginosa altalena drammatica che si mette in moto con lo scorrere della vicenda, creando una narrazione musicale che ben sostiene il testo, conferendo ad esso mordente e nerbo. Solo alcune pronunciata dilatazioni agogiche lasciano un dubbio, dovuto più alla difficoltà del palcoscenico nel sostenere quei tempi che a un’errata scelta musicale.

Ben equilibrato il cast, che, pur senza slanci di particolare rilievo, garantisce una recita solita e piacevole. Francesca Sassu si disimpegna con onore nel complesso ruolo della protagonista e si fa particolarmente apprezzare nella cabaletta del primo atto dove si registrano buone agilità e ottima estensione. Fatica maggiormente nei momenti più infuocati, dove la linea vocale esige più spessore e sostegno, ma nel complesso la prova, comunque contraddistinta da un porgere misurato e puntuale che ben sorregge scene come la lettura della lettera, risulta coerente e non tradisce la natura tormentata del personaggio. L’Alfredo, scenicamente un po' impacciato, di Francesco Castoro piace per la franchezza di un timbro solare e luminoso, ma nell’emissione qui e là s’avvertono dell’eccessiva prudenza e talune esitazioni che annacquano alcuni momenti chiave come la scena del secondo atto. Mario Cassi, Germont, ha invece uno strumento solido e tonante che spesso alimenta un canto a favor di pubblico a discapito della sfaccettatura di un ruolo che richiederebbe forse maggiore introspezione e sfumature più marcate. Anna Malavasi è una Flora sicura e brillante, Omar Cepparolli un Dottor Grenvil dall’ottimo potenziale, Martina Malavolti un’Annina dall’interessante vocalità. Completano correttamente il cast Matteo Mollica (Barone Douphol), Simone Fenotti (Gastone), Ranyi Jiang (Marchese d’Obigny), Cherubino Boscolo (Giuseppe), Silvio Giorcielli (un domestico) e Luigi Cappelletti (un commissionario). Discreta questa volta la prova del Coro San Gregorio Magno, istruito dal maestro Alberto Sala.

Festosa l’accoglienza del pubblico, che premia con calorosi applausi tutti gli artisti.

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