L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ifigenie in Tirolo

di Francesco Lora

Al Festival di Musica antica di Innsbruck vanno in scena, una dopo l’altra, Ifigenia in Aulide di Antonio Caldara, diretta da Ottavio Dantone con l’Accademia Bizantina, e Ifigenia in Tauride di Tommaso Traetta, diretta da Christophe Rousset con Les Talens lyriques: allo speciale interesse musicologico corrispondono però problematici esiti interpretativi.

INNSBRUCK, 8 e 27 agosto 2025 – Un’opera settecentesca sul mito di Ifigenia, anzi due, così da averne la declinazione sia aulica sia taurica, ma senza scomodare Gluck, che si è notoriamente occupato di entrambe le Ifigenie, eppure cogliendo l’occasione di prefigurarlo e contestualizzarlo: il Festival di Musica antica di Innsbruck ha seguìto l’esile fil rouge del soggetto mitologico per tenderne in verità uno di speciale interesse musicologico. Ha infatti allestito prima Ifigenia in Aulide con libretto di Apostolo Zeno e musica di Antonio Caldara, creata a Vienna, 1718, per festeggiare l’onomastico dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, quindi Ifigenia in Tauride con libretto di Marco Coltellini e musica di Tommaso Traetta, creata a Schönbrunn, 1763, per festeggiare quelli dei successori Francesco di Lorena (il genero-imperatore) e Maria Teresa (la figlia-regina): tre applaudite recite dall’8 al 12 agosto e due il 27 e 29, rispettivamente, tutte nella sala grande del Landestheater. Lo speciale interesse musicologico consiste nel fatto che il Festival intensifica così una missione urgente e specifica: esplorare lo sterminato repertorio che nelle corti asburgiche d’Austria dettò gusto e legge in Europa, soprattutto nel Settecento, e che oggi sarebbe altrimenti più menzionato che studiato o tantomeno restituito all’ascolto. L’opera del 1718, del resto, documenta il periodo nel quale la corte imperiale aveva attratto a sé, dalla penisola italiana, il fior fiore del fare dramma (in modo avanguardistico) e musica (in modo conservatore), poco prima di reclamare anche la penna di Metastasio, mentre l’opera del 1763 è un’altra declinazione, successiva di un anno a Orfeo ed Euridice di Calzabigi e Gluck, di quei propositi di riforma del melodramma convintamente sostenuti da Giacomo Durazzo nel suo ruolo di direttore generale degli spettacoli nella capitale dell’Impero: tali esperienze ebbero poi effetto fino a Londra e Napoli, Lisbona e Pietroburgo, e hanno lasciato dietro di sé montagne di fonti manoscritte e a stampa, soprattutto sugli scaffali viennesi della Biblioteca Nazionale Austriaca. L’iniziativa tirolese è dunque in sé eccellente: le fanno però dispetto problematici esiti interpretativi, più incomprensibilmente preordinati che accidentalmente conseguiti.

Fuori discussione è che il presentare oggi un’opera di Zeno/Caldara o di Coltellini/Traetta debba avere la priorità di far conoscere il divenire della fisionomia autentica di un genere teatrale e musicale, insieme con la poetica – tanto meglio se subito confrontabile sul campo, come a Innsbruck – dei loro notevoli autori. Ifigenia in Aulide, però, benché la locandina la protesti spudoratamente in edizione critica, la si dà sfigurata in parole e musica, insomma nel testo e nel senso. Nei primi venti minuti di un’opera che rasenterebbe le quattro ore, si ascolta, per esempio e nell’ordine: 1) un rimbombante brano con trombe e timpani, il quale non figura nella partitura ed è stato pescato da chissà dove; 2) la licenza, traslata di peso dall’estremo fondo dell’opera – sarebbe appunto il contrario del prologo – nonostante i suoi stessi versi alludano all’azione già svolta (non bastasse, la coda dell’aria è modificata in un ritornello con archi inventato di sana pianta); 3) la sinfonia dell’opera e il primo recitativo dell’atto I (finalmente, dopo essersi fatti attendere per una decina di minuti); 4) la marcia per l’ingresso di Achille, che vede rispettata la ripresa nella sezione con trombe ma nel contempo omessa la seguente sezione con oboi e fagotti nonché il da capo della prima sezione; 5) la formidabile prima aria del protagonista maschile, concertata con trombe, la quale è però vergognosamente menomata della sezione centrale e della ripresa; 6) il secondo recitativo; 7) la seconda aria del primo uomo, con tagli interni a due ritornelli strumentali, con l’effetto di dar luogo a un maldestro arbitrio testuale oltre che a un falso storico strutturale. C’è bisogno di andare avanti per dar conto del livello di attendibilità filologica e credibilità professionale? E in vista di quale diabolico vantaggio – ammesso che uno ve ne sia – un musicista dotato, capace e famoso come Ottavio Dantone, ora anche direttore musicale del Festival, persevera ad associare simili nefandezze al proprio nome e al lavoro della sua morbida, colorita e duttile orchestra Accademia Bizantina? Va da sé che in questo orizzonte non ci si può attendere rimedio dal lavoro drammaturgico, e infatti, nell’allestimento con regìa, scene e costumi di Anna Fernández, Santi Arnal e Alexandra Semenova, si tirano in ballo il teatro delle ombre e le pupattole-doppio dei personaggi, si abbigliano gli interpreti maschili con impaccianti casacconi da gallinacei, si gioca forse a tentare qui e là dell’ironia senza però suscitare altro che imbarazzo: dove sono la nozione e la tecnica di base circa il fare teatro, e teatro d’opera? Male anche la compagnia di canto, soprattutto poiché primo uomo, come Achille, è Carlo Vistoli, un controtenore di impressionanti e oggi ineguagliabili qualifiche timbriche, volumetriche, virtuosistiche ed espressivo-prosodiche, il quale fissa così un’impietosa pietra di paragone per i colleghi. Marie Lys, come Ifigenia, risulta dunque spigolosa, fredda e scostante anziché virginale, tenera e affettuosa; Martin Vanberg e Neima Fischer, come Agamennone ed Elisena, s’impegnano ma non si affrancano da una certa meccanicità; Laurence Kilsby, come Ulisse, veristeggia scomposto in barba all’ortofonia canora, presumendo forse di sembrare, così, più italiano; Filippo Mineccia, come Teucro, cade in affanno e – a dispetto della madrelingua – arruffa la frase sia verbale sia melodica. Per uscirne a testa alta restano Shakèd Bar, la quale, come Clitennestra, sa trarre profitto dalla parte con la più raffinata serie d’arie, e Giacomo Nanni, il quale, come Arcade, fa con Vistoli da altro console dell’esattezza di pronuncia e della naturalezza di porgere.

La situazione si ripete simile nel caso di Traetta, col sollievo che l’assetto testuale Ifigenia in Tauride non offre come Caldara il destro a manomissioni. La moralità del concertatore Christophe Rousset nel leggere la partitura è del resto, oggi, una strana sopravvivenza culturale: alla testa dei suoi Talens lyriques e del coro Novo Canto, egli è tuttora maestro – fuori moda – di tornita, squisita, evocativa, essenziale misura anziché di eccessi gratuiti. Un suo limite consiste tuttavia nella preparazione dei cantanti: nessuna minuzia gli sfugge nel repertorio francese, mentre tende a lasciar correre in quello italiano. Rocío Pérez, nella parte protagonistica, sa cavarsela in autonomia sul fronte espressivo, che in un Traetta riformista chiama a spiccata responsabilità, mentre Suzanne Jerosme, come Pilade, si fa apprezzare soprattutto sul fronte virtuosistico; Alasdair Kent, dal canto suo, quale Toante, vanta sempre squillo, prestanza e buona vocalizzazione, così come a Karolina Bengtsson, quale Dori, non si può negare il merito della correttezza. Ma Rafał Tomkiewicz, nella deuteragonistica parte di Oreste composta per quel Gaetano Guadagni commovente proto-eroe dell’immedesimazione nel personaggio sulle scene operistiche, rade l’impresentabile: parola incomprensibile, gestualità goffa, tecnica rudimentale; e dire che lì a un passo ci sarebbe stato l’interprete ideale: Vistoli. I padri viennesi del teatro d’opera attendono, nondimeno, soprattutto le scuse di Nicola Raab e Madeleine Boyd, incaricate della regìa e di scene e costumi. Vorrebbero trasportare l’azione dietro le quinte di uno spazio teatrale – sai che idea nuova, il teatro nel teatro… – ma esse, donne di teatro, quel teatro non sanno poi nitidamente riprodurlo né popolarlo. Nella loro concezione drammaturgica non può nemmeno mancare la pretestuosa interpolazione di un lui che, in quanto lui, deve stuprare lei: peccato, però, che un’integrale adesione al politically correct – oppure una mancante tecnica di lavoro con gli attori – impedisca loro di descrivere l’atto di violenza in un’immagine chiara e forte. Capolavoro, insomma: il “violentatore” Toante, che dovrebbe violentare ma poi non violenta davvero poiché una violenza non è bella da vedere, è finito per fare tenerezza.

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