Ballo di stelle
di Luigi Raso
Anna Netrebko, Ludovic Tézier e Piero Pretti sostengono una produzione di Un ballo in maschera tutta focalizzata sulle loro qualità (e sul debutto del soprano come Amelia), ma assai meno stimolante per quanto concerne allestimento scenico e concertazione.
NAPOLI, 11 ottobre 2025 - Un ballo in maschera per il Teatro San Carlo è una sorta di figlio mai arrivato: a causa dei turbolenti rapporti tra Verdi e l’ottusa censura borbonica, perfino più zelante di quella papalina di Pio IX, Napoli perse la prima assoluta dell’opera a favore del Teatro Apollo di Roma, dove, seppur a seguito di molteplici interventi, andò in scena il 17 febbraio del 1859.
Com’è noto - la vicenda è esaurientemente ricostruita da Esther Basile nel saggio inserito nel programma di sala - il compositore aveva scelto il soggetto di Gustave III, incentrato sull’assassinio del re di Svezia durante un ballo; ma il 14 gennaio 1858 Felice Orsini attentò a Parigi alla vita dell’imperatore Napoleone III mentre questi si recava all’Opéra Le Peletier per ascoltarvi Guillaume Tell.
L’attentato, seppur fallito, scosse le case regnanti europee. Di fronte a un regicidio esibito in scena, dunque, le autorità napoletane dimostrarono zelo superiore al normale nel giudicare il libretto di Antonio Somma, imponendone la riscrittura quasi integrale. I divieti e le imposizioni di improbabili revisioni irritarono a tal punto Verdi che abbandonò Napoli; l’Impresa del San Carlo gli intentò una causa, successivamente definita con transazione; il Ballo, infine, debuttò a Roma mascherato, è il caso di dire, in ambientazione americana.
Questa breve parentesi sulla tormentata genesi dell’opera dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto fossero miopi le censure ottocentesche dello Stivale: quella napoletana non si accorse che, come acutamente notò Massimo Mila, il Ballo è l’unica opera politicamente reazionaria di Verdi, nella quale a giganteggiare moralmente è la figura di un sovrano illuminato amato dai suoi sudditi; Renato e i congiurati, al contrario, appaiono meschini e vili, risultando alla fine i reali sconfitti del dramma.
Tornando al nostro presente, il San Carlo, in mancanza del diritto di paternità sull’opera, può però vantarsi di un altro primato: questa produzione segna un debutto di lusso, quello di Anna Netrebko nei panni di Amelia.
Da quando fu annunciato, a giugno del 2024, è via via cresciuta l’attesa per la nuova parte che il soprano russo naturalizzato austriaco avrebbe affrontato. Risultato: teatro sold out da mesi per le tre recite che la vedono in locandina, teatro gremito di pubblico internazionale. Poi, ad affiancare Anna Netrebko sono stati schierati almeno due pezzi da novanta per le rispettive parti: Ludovic Tézier quale Renato e Piero Pretti quale Riccardo. Insomma, oggi, Anno Domini MMXXV, probabilmente il migliore - o, almeno, uno dei pochissimi - cast ipotizzabile, ovviamente senza poter scomodare ugole defunte o definitivamente ritiratesi in clausura.
Dal punto di vista musicale, infatti, questo Ballo in maschera, principalmente per le prove dei tre protagonisti, convince assai, malgrado la direzione poco fantasiosa, avara di colori e di fraseggi di Pinchas Steinberg, il quale, a dispetto delle aspettative, imprime all’opera una narrazione uniforme, dimenticando troppo spesso che il Ballo è un miracolo di equilibrio per la coesistenza di commedia, tragedia, riso, pianto e malinconia.
Direzione abbastanza corretta, quindi, ma che soprattutto nell’atto I appare troppo poco coinvolgente e rinunciataria; meglio nel secondo atto, benché il magnifico duetto d’amore appaia soltanto sbozzato nella resa orchestrale, povero com’è di nuance, rubati, trepida attesa, speranza. Prova ne è il poco rilievo riservato ai dettagli strumentali, come, ad esempio, al momento più intenso e significativo del duetto: alla frase, introdotta dai violoncelli, tra “Un sol detto” e “Ebbene, sì, t’amo”: qui evaporare, quasi senza lasciar traccia, l’accumulo di tensione erotica platonica. Qui il genio di Verdi legge nel cuore di Amelia il suo tormento e la titubanza ad ammettere che è innamorata di Riccardo, e lo esprime in musica prima ancora che ella stessa lo pronunci creando una suspense dalla incredibile potenza teatrale. Stasera il momento è purtroppo passato quasi inosservato.
Non manca qualche menda, in particolare nella scena finale del ballo, al sincrono tra buca e palcoscenico, nonché all’interno della stessa Orchestra del San Carlo, la quale nel complesso sfoggia un suono rotondo, robusto, alquanto monocolore, ma che è evidentemente quello richiesto dal concertatore con il suo gesto vigoroso e deciso. Molto incisiva per sonorità e accentazione il solo della spalla Gabriele Pieranunzi nel duettino “Ah! perché qui! Fuggite” nel finale dell’opera:l’assenza dell’orchestrina sul palcoscenico, tuttavia, quasi azzera l’effetto straniante che essa produce non appena esegue il minuetto foriero di morte.
Le sbavature della coesione generale dell’aspetto musicale, pur investendo anche il Coro, preparato con dovizia di colori e attenzione al fraseggio dal maestro Fabrizio Cassi, trovano un argine nella compattezza sonora e nella duttilità della compagine, che si distingue per incisività, tanto sul palcoscenico - suggestivo per l’intensità crescente il finale dell’opera - quanto negli interventi fuori scena.
Ed ora il cast vocale, la punta di diamante di questa produzione.
Quella di Riccardo è la parte più nobile, completa e sfaccettata che Verdi abbia scritto per tenore: la sua scrittura abbraccia uno spettro ampio di emozioni, di stili e pone problematiche di ordine tecnico non assimilabili tra loro.
Il fascino di Riccardo è lo specchio di quello del Ballo stesso: il volteggiare tra gioia e aristocratica rassegnazione, tra accensioni amorose e rinunce autoimposte. Piero Pretti è tenore che riesce a affrontare e dominare adeguatamente la scrittura grazie all’eccellente tecnica: il suo canto sempre corretto, preciso e sicuro gli consente di risolvere anche i momenti per i quali, per caratteristiche vocali, la parte possa apparire al di sopra della sua portata. Il suo è un Riccardo generoso, intenso, che canta abbandonandosi a una linea vigorosa, brillante e aristocratica, calibrando molto bene i propri mezzi, con un registro acuto squillante e timbrato.
“Ma se m'è forza perderti” è un esempio di bel fraseggio, incisivo e scultoreo; il successivo “Sì, rivederti, Amelia”risuona di ardore e con notevole squillo.
Trovare le parole per descrivere la prova di Ludovic Tézier è impresa difficile, soprattutto quando si è travolti dall’emozione per uno degli “Eri tu” più coinvolgenti e ben cantati ascoltati dal vivo. Nel caso del baritono francese a imporsi è la sintesi tra la bellezza del velluto del timbro, il legato sostenuto e intenso, l’attenzione alla parola, la capacità di delineare un Renato grand seigneur, benché pervaso da sentimenti di odio devastante e totalizzante. Geometrico nella sua pulizia formale e sontuoso nel cantabile “Alla vita che t'arride,”nella scena del terzo atto,nell’esprimere il caleidoscopio di affetti che lacerano Renato, Ludovic Tézier sigla una pagina da ricordare della storia recente del San Carlo: al termine dell’aria, prolungati applausi scroscianti, richieste di bis, una sonora esclamazione di approvazione (“Finalmente Verdi!”) gli impongono di restare immobile con il capo chinato per qualche minuto: approvazione del tutto meritata, al termine dello spettacolo estesa a una prestazione superlativa e coinvolgente.
Giunti ad Anna Netrebko, la star più attesa della serata, il giudizio si scinde e si necessariamente si fa più articolato: se quella di Amelia non rientra tra le parti di elezione naturale per la sua vocalità, sebbene il percorso artistico da anni si è indirizzato sempre più verso le terribili e temibili Lady Macbeth, Turandot, Donna Leonora, Gioconda, Abigaille, si resta stupiti per come l’artista riesca a venire a capo di scritture che non sono oggettivamente sovrapponibili alla pregiata e straordinaria organizzazione vocale della Netrebko.
Non ci sono soltanto la bellezza del suo timbro, il peso vocale, i suoi filati, le mezzevoci a consentirle di affrontare la parte di Amelia senza dare sentore di evidenti cenni di affaticamento: Anna Netrebko sa adattare la sua vocalità, così come si è evoluta e modificata nel corso degli anni, alle esigenze tecniche richieste. Indubbiamente certi suoni, soprattutto nel registro centrale e grave appaiono ispessiti, ma l’effetto resta suggestivo. Il registro acuto non ha quella luminosità che poteva vantare fino a qualche anno fa, ma resta molto ben proiettato. È un’artista che ha osato, che ha lanciato la sua voce oltre le colonne d’Ercole della sua natura, ma che ha vinto, anche questa volta in Amelia, convincendo non poco sin dal primo incontro con il personaggio così complesso anche dal punto di vista interpretativo. In ciò è aiutata da quella innata forza drammatica che la rende anche attrice autorevole, sempre scattante e immedesimata nel personaggio.
Grazie a un fraseggio vario, di immediata efficacia drammatica scolpisce “Ecco l'orrido campo”,facendovi risuonare tutta la paura e la desolazione che invade. È straziante, per il coinvolgimento che ne ottiene, l’aria “Morrò, ma prima in grazia”: qui la sua cavata dà filo da torcere, per potenza e calore, a quella del violoncello (del bravissimo Alberto Senatore) che l’accompagna. Qui Anna Netrebko fraseggia incisivamente, smussa, sospira, si commuove e piange.
A corredo di questo parterre di star si inserisce l’Ulrica di Elizabeth DeShong, mezzosoprano dai mezzi vocali sontuosi, dal timbro non tanto scuro e profondo come la parte richiede, ma sicuramente di buon peso vocale, artista precisa e di evidente musicalità. L’interprete, poi, delinea un’indovina tenebrosa rifugge da eccessive sottolineature del suo lato demoniaco: la linea di canto, quindi, non punta a gonfiare e a scurire il registro grave. Prova, quella della DeShong, che convince oggi e che convincerà ancor più in futuro a seguito di maggior approfondimento del personaggio.
Cassandre Berthon non possiede quella vocalità brillante e vulcanica che Verdi richiede per Oscar, refolo di leggerezza e sorriso che il genio teatrale e musicale fa apparire in scena quando le nubi più cupe prendono il sopravvento sul dramma, incrinando l’equilibrio tra commedia e tragedia del Ballo: il timbro accusa qualche aridità e forzatura di troppo, ma si apprezza l’artista per lo sforzo di centrare la psicologia del personaggio.
I ruoli secondari purtroppo si discostano eccessivamente dall’elevato livello artistico dei ruoli principali. Nel complesso equilibrate le prove del marinaio Silvano di Maurizio Bove, ex allievo dell’Accademia di canto, e del Giudice/Servo d’Amelia di Massimo Sirigu, artista del Coro del San Carlo. Ben poco convincenti, invece, quelle di Samuel di Romano Dal Zovo e Tom di Adriano Gramigni.
In ultimo, lo spettacolo: rielaborazione di Massimo Gasparon - in locandina indicato Massimo Pizzi Gasparon Contarini, il quale firma regia, luci, scene e costumi - dell’allestimento storico del Teatro Regio di Parma di Pierluigi Samaritani, ha scenografie e costumi “di tradizione”. Ambientazione, basata sulle tele dipinte, nel complesso didascalica, ben realizzata, costumi sontuosi dai colori (fin troppo) sgargianti, luci alquanto statiche: gli elementi visivi collocano il Ballo nel Massachusetts nel XVII secolo, così come prescrive il libretto.
Ma oltre a ciò - che risulta anche gradevole all’occhio - c’è poco altro. Lo spettacolo, infatti, brilla per povertà di idee registiche, per un immobilismo di fondo che inchioda il Coro in scena e che abbandona all’istinto teatrale dei protagonisti (e qui ce n’è molto, per fortuna!) la gestione dei movimenti. Se Netrebko e Tézier non fossero gli animali da palcoscenico che sono, lo spettacolo soffrirebbe ancor di più per l’assenza di una regia strutturata, fondata invece su innesti di trovate che talora suscitano ilarità (il Giudice che saltella quando Oscar intona “Volta la terrea fronte alle stelle” ricorda Despina mascherata nel finale dell’atto I di Così fan tutte.
Nessuna obiezione verso impianti scenografici e costumi improntati al rispetto didascalico del libretto, dei tempi e dei luoghi dell’azione, verso spettacoli che puntano a stupire per lo sfarzo dell’allestimento; ma qualsiasi opzione scenografica e di ambientazione dovrebbe essere sorretta, e valorizzata da una regia, e se questa poi risulta anche coerente e credibile, tanto meglio.
Anche le coreografie di Gino Potente appaiono poco incisive e non precise nella realizzazione ad opera della scuola di Ballo del Teatro San Carlo.
Al termine dell’ultima replica di questo Ballo in maschera si registrano ovazioni e trionfi - a giudicare dal personale e fallibile applausometro, ex aequo - per Anna Netrebko e Ludovic Tézier; successo convinto e caloroso per Piero Pretti; apprezzamenti per tutti gli altri artefici della serata.
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