L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

A. versus A.

di Giuseppe Guggino

La programmazione d’inizio ottobre all’Opéra de Paris nelle sue due sedi – il Palais Garnier e l’Opéra Bastille – consente di saggiare altrettante diversissime declinazioni del teatro di regia odierno, rispettivamente con Ariodante lussuosamente riletto da Robert Carsen e una meno luminosa Aida secondo la cineasta e fotografa Shirin Neshat. Sensibilmente più omogenea anche la parte musicale haendeliana, con un’entusiasmante Cecilia Molinari e l’Ensemble Pygmalion diretto da Raphaël Pichon, rispetto a quella verdiana, sotto la guida di Michele Mariotti, in cui spicca la prova di Piotr Beczała.

Paris, 3 e 4 ottobre 2025 -La ricchissima, opulenta saison 25/26 dell’Opéra National de Paris, come di consueto articolata nel tardo ottocentesco Palais Garnier e nella visivamente meno gratificante Opéra Bastille, propone un confronto – per la verità un poco impari – fra due diversissime declinazioni del teatro di regia odierno applicato all’opera. Si tratta in entrambi i casi di produzioni non nuove: il felicissimo Ariodante haendeliano firmato da Robert Carsen per l’Opéra nel 2023 e la meno convincente Aida di Verdi secondo la cineasta e fotografa Shirin Neshat, già tenuta a battesimo da Riccardo Muti a Salzburg nel 2017 e adesso annunciata come “nuova produzione” in quanto interamente ripensata e integrata da videoproiezioni. Pur accomunati dalla chiave attualizzante, gli esiti dei due spettacoli divergono molto in ordine al connubio teatro-musica che riescono a conseguire. Carsen sigla l’ennesimo capolavoro di teatro intimamente legato alle ragioni musicali, vario nel dipanarsi dei tre atti (per più di tre ore di musica, oltre i due intervalli, volati via in preda ad un rapimento d’estasi), ironico, geniale. Viceversa Shirin Neshat estrae dalla drammaturgia verdiana l’elemento della guerra fra popoli per farne un messaggio civile (quanto mai d’attualità) ricorrendo al forte linguaggio dell’immagine, senza che l’idea – di per sé potentissima – riesca a fare del fatto musicale un elemento catalizzatore. Addirittura la drammaturgia arriva talvolta ad essere contraddetta, come ad esempio nel caso della poco spiegabile violenta irruzione di militari nel boudoir di Amneris all’inizio del secondo atto; viceversa Carsen ricorre parimenti ad una scena di violenza come chiave risolutiva del balletto conclusivo del secondo atto, ma con ben altra attinenza drammaturgica, tanto che la soluzione risulta non solo non urticante ma addirittura felice. Di per sé l’idea di fondo dello spettacolo del celebrato regista canadese non è poi neanche originale: un’identificazione dei personaggi di Ariodante con i contemporanei componenti della famiglia Windsor, nella Scozia della residenza di estiva di Balmoral, fra battute di caccia, pic-nic e feste mondane, per poi scoprire nelle danze conclusive del terzo atto di aver assistito per tutto lo spettacolo ad una surreale azione di statue del museo delle cere che, animatesi per l’intera notte, ritornano al proprio posto alla riapertura ai visitatori. Ciò che lascia senza mezzi termini rapiti è l’altissimo livello tecnico con cui tutto è pensato e realizzato, a partire dalle imponenti scene e dai fantasiosi costumi di Luis F. Carvalho, alle luci di Peter Van Praet, fino alle geniali coreografie di Nicolas Paul nei finali dei tre atti, o al lavoro maniacale sulla gestualità e l’espressività di ogni solista. L’algida imperfettibile perfezione della cifra visiva guadagna palpitante umanità grazie ad cast molto omogeneo di primissimo valore. L’opzione del mezzosoprano è forse la migliore per la parte di Ariodante, scritta per castrato, ma se la solista risponde al nome di Cecilia Molinari si fa presto a rasentare l’idealità: non per nulla di recente fregiata del Premio Abbiati (proprio in virtù di un Ariodante a Martina Franca) la giovane trentina sbalordisce per l’eccezionale musicalità, l’intelligenza interpretativa, il timbro di grandissimo pregio e la una presenza scenica di grande personalità; gli ingredienti, sempre sapientemente dosati, le consentono una prova maiuscola nelle sette arie (o ariosi) scritte da Haendel per sondare tutto il ventaglio possibile di affetti ed effetti: inutile dire che al termine di un memorabile “Scherza, infida” sia venuto giù il teatro tutto. Altrettanto convincente è il resto del cast, eccezion fatta per la poco più che corretta e timbricamente ingrata Ginevra di Jacquelyn Stucker. Sabine Devieilhe è una magnifica Dalinda, non meno del Polinesso di Christophe Dumaux, controtenore in parte da contralto che riesce a far perdonare la scelta (certamente non inappuntabile) con una sbalorditiva amministrazione dei vari registri. Ru Charlesworth si rivela solidissimo tenore baritonale capace di bellissime agilità che, oltre a un ottimo Lurcanio, potrebbero far intravedere in prospettiva le possibilità per qualche Rossini serio, mentre nei panni del Re di Scozia si ritrova tutta l’eleganza, l’austerità e l’affidabilità che non da oggi si riconosce a Luca Tittoto. Tanto lusso si riverbera nell’unico comprimario della distribuzione, il notevole Enrico Casari, impegnato quale Odoardo.

Raphaël Pichon dal podio infonde energia a piene mani in un contesto fecondo, forte dell’affidabilità stilistica dell’ensemble Pygmalion (di cui lodare tutto, anche la realizzazione dei recitativi) nonché dell’eccellente apporto del Coro dell’Opéra istruito da Alessandro Di Stefano.

Al pari della parte visiva anche quella musicale di Aida non convince appieno, a partire da un cast assemblato con poca omogeneità. Sicuramente elemento trainante è il Radames di Piotr Beczała che si apprezza per lo squillo, il metallo, la baldanza; un po’ meno per la capacità di sfumare. Parimenti affidabile è l’Amonasro di Roman Burdenko, mentre le cose si fanno più problematicch sul versante protagonistico femminile, a partire da Ève-Maud Hubeaux la cui Amneris, a parte che per la bella presenza, può segnalarsi per poco altro, se al timbro asprigno, al legato poco curato si coniuga una dizione alquanto oscura. Saoia Hernández disegna un’Aida in crescita sebbene la voce, di buon peso specifico, risenta di un eccessivo vibrato nella tessitura più acuta. Al Ramfis di Alexander Köpeczi è preferibile il Re di Krzysztof Bączyk mentre Manase Latu e Margarita Polonskaya sono rispettivamente un messaggero e una sacerdotessa di lusso.

Michele Mariotti – che bene tiene insieme buca e palco – lavora apprezzabilmente di cesello sull’ottima orchestra dell’Opéra che suona bene, ma quasi mai grandoperistica, e perfino con un piccolo inconveniente nel secondo gruppo di trombe egizie durante il trionfo; ma ad adoprare troppo il cesello e nel voler risultare personali a tutti i costi il rischio è quello di un calligrafismo che perde di vista l’insieme, riscontrabile nelle differenziazioni agogiche non segnate in partitura (nell’episodio centrale della Danza dei piccoli schiavi mori, ad esempio) o in una spasmodica volontà di ampliare la paletta dinamica (nei vari interventi della tromba in do all’inizio del secondo atto, ad esempio). Buona la prova del Coro istruito da Ching-Lien Wu, nonostante la gestione impacciata all’interno del grande blocco prefabbricato in simil cemento armato che Christian Schmidt fa ruotare, scomporre in due e ricomporre attraverso i quattro atti. Più accattivanti risultano i costumi di Tatyana van Walsum che prediligono i colori fondamentali rosso, bianco e nero.

Per entrambe le serate le sale, gremite in ogni ordine di posto, hanno assicurato un successo convinto che nel caso di Ariodante è poi sconfinato in prolungati applausi ritmati a numerose chiamate alla ribalta; rimane ancora un’ultima recita il 12 ottobre, mentre per Aida si proseguirà fino al 4 novembre, sebbene con un diverso cast.

Leggi

Bruxelles, Falstaff, 02/10/2025

Martina Franca, Ariodante, 22 e 25/07/2024

Torino, Aida, 07/03/2023

Parigi, Giulio Cesare, 20/01/2024

Parigi, La traviata, 21/01/2024


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