Un torbido pensiero
Il celebre allestimento di Don Giovanni firmato Damiano Michieletto approda a Genova per inaugurare la stagione 2024/2025 del Teatro Carlo Felice: nonostante lo spettacolo, ripreso da Elisabetta Acella, continui a convincere, anche a distanza di quindici anni, per l’originalità del taglio, non poche criticità si registrano sul versante musicale.
Genova, 12 ottobre 2025 – Tra i miti moderni più complessi e inquieti, quello di Don Giovanni continua a interrogare per la sua natura contraddittoria: seduttore instancabile e insieme incapace di provare autentico piacere, figura di libertà assoluta e al tempo stesso di condanna. Fin dalle prime battute dell’opera, attraverso le celebri parole di Leporello – «Notte e giorno faticar per chi nulla sa gradir» – si delinea il ritratto di un uomo che non conosce la gratitudine né l’appagamento, destinato a inseguire un desiderio che non può mai essere soddisfatto. La sua vitalità è un eccesso sfrenato, un moto perpetuo che lo spinge oltre ogni limite, fino a condurlo alla completa autodistruzione. In questa prospettiva, la sua fine non appare come la punizione di un colpevole, ma come la conseguenza naturale di una forza che divora e consuma sé stessa. Don Giovanni muore per troppo vivere, divorato da un impulso che non ammette soste né riflessioni. Persino la libertà, da lui esaltata come supremo valore, rivela la sua ambiguità: è una libertà cieca, priva di alternative, che lo condanna a ripetere all’infinito il proprio destino. Intorno a lui, tutti gli altri personaggi restano prigionieri di questa energia distruttiva: Leporello, Elvira, Anna, Don Ottavio, Masetto e Zerlina non riescono mai a liberarsi dal suo influsso e anche dopo la sua caduta, la sua presenza continua a gravare su di loro, come un’ombra persistente che sopravvive al corpo. «Mille torbidi pensieri mi s'aggiran per la testa» cantano stremati ma il chiodo fisso, in verità, è solamente uno. Don Giovanni, così, non muore davvero: continua a esistere come ossessione, come forza che alimenta e corrompe il mondo che lo circonda. Sottratto da Michieletto al mito romantico, Don Giovanni acquista dunque una carica più mordace, luciferina, che in qualche modo sconvolge e riabilita la drammaturgia del testo, andando così a lucidare una corazza altrimenti impolverata dal tempo e dalla prassi. Lo spettacolo finito, poi, con la stupenda scenografia di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci di Fabio Berettin, qui a Genova ripreso da Elisabetta Acella come titolo d’apertura per la stagione 2024/2025, è capolavoro di arte registica e virtuosismo in senso stretto. Tutto sostiene al meglio l’idea di fondo, senza eccessi di retorica né cadute di stile, con un equilibrio raro tra intelligenza teatrale e profondità di lettura musicale, restituendo tutta la tensione che abita il personaggio: la leggerezza del gioco e l’abisso del dramma convivono senza mai annullarsi. Il risultato è dunque un Don Giovanni che non seduce soltanto per la sua energia scenica, ma per la lucidità con cui espone la potenza di una figura tanto mitologica quanto mitica.
È un peccato non ritrovare simili suggestioni in buca dove un pallido Constantin Trinks guida i complessi del Teatro Carlo Felice, in ottima forma, con passo spedito e generale noncuranza, sia delle esigenze del palcoscenico, non poche volte messo in difficoltà dai tempi staccati, sia della drammaturgia musicale, ricercata invano sul piano agogico senza porre attenzione alcuna alle sublimi raffinatezze di cui la partitura è piena. Certo, la brillantezza di una concertazione comunque, nel complesso, funzionale, paga là dove la vicenda si schiude a toni di popolare leggerezza, ma più di una volta il dramma rimane orfano di quella pulsione dionisiaca ne costituisce l’anima più profonda, quell’energia sotterranea che dovrebbe trascinare pubblico e interpreti in un vortice di desiderio e distruzione.
Neanche questi ultimi, in verità, soddisfano appieno. Simone Alberghini mette in campo la sua esperienza e la sua verve, ma il canto non seduce e il suo Don Giovanni non convince. Desirée Rancatore, invece, regala a Donna Anna una personalità viva e coerente: la linea vocale è tornita e assai carezzevole nelle sfumature che impreziosiscono i numeri d’assieme, l’accento scolpito con musicalità e contezza di stile, il ruolo vissuto con pathos e intensità. Checché se ne dica, brava. Al suo ingresso in scena, invece, Monica Zanettin – Donna Elvira – ricorda immediatamente Carmela Remigio; poi apre bocca e la magia svanisce: l’emissione problematica e la totale mancanza di confidenza con il testo sfociano in una resa inesorabilmente querula e monocorde. Ben proiettato e assai ben caratterizzato è il Leporello di Giulio Mastrototaro, al netto di qualche ruvidezza nel porgere emersa nell’attesissima aria del catalogo. Con bel timbro e bel legato, Chiara Maria Fiorani disegna una Zerlina languida e delicata – specie nella graziosissima aria del secondo atto –, anima gemella del Masetto di Alex Martini, piacevole nel colore e nel senso della misura che ne governa il fraseggio, assolutamente in linea con la semplicità rassicurante del personaggio. Ian Koziara dona a Don Ottavio uno strumento inusuale, sorretto da una tecnica non propriamente belcantistica e quasi più baritonale che tenorile; di fatto, il registro acuto è sempre opaco e spinto. L’interprete, però, è dottissimo: fraseggia con gusto e mordente arie e recitativi, colora, frase per frase, con una mira teatrale rara, e la pronuncia è perfetta pur non essendo madrelingua. Che peccato. Il Commendatore del solido Mattia Denti completa la locandina. Ottima, infine, la prova del Coro, istruito da Claudio Marino Moretti.
Il pubblico caloroso, a fine recita, decreta il successo della serata.
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