L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I Contes di Michael

di Giuseppe Guggino

L’Opéra-Comique di Parigi inaugura la nuova stagione con una felicissima produzione dei Contes d’Hoffmann di Offenbach nella versione con dialoghi parlati, con l’appassionata direzione di Pierre Dumoussaud e la un po’ cerebrale ma attenta regia di Lotte De Beer. Memorabile a tutto tondo la maiuscola prova di Michael Spyres.

Paris, 5 ottobre 2025 - Per una curiosa coincidenza l’ultima recita dei Contes d’Hoffmann inaugurali della nuova stagione dell’Opéra-Comique di Parigi – oggetto di questo resoconto – cade a 145 anni esatti dalla morte di Offenbach, occorsa nel pieno delle prove della medesima opera, allestita nel medesimo teatro (sebbene non nella stessa sala, distrutta da un incendio nel 1887), come scrupolosamente annotata nella pagina del Journal de régie che il programma di sala riproduce a corredo iconografico di un interessante saggio di Jean-Christophe Keck.

Come è noto la partitura non era ancora del tutto completa alla scomparsa del compositore, sebbene le prove si protraessero già da quasi un mese, vedendo la luce solamente il 10 febbraio dell’anno seguente (peraltro con la mutilazione dell’atto di Giulietta, disposta dopo la prova generale); le circostanze di gestazione lasciano non molte certezze sulla fisionomia che essa avrebbe assunto se il Offenbach fosse riuscito a tenere a battesimo la “prima”. Sappiamo infatti che era prassi comune del “Mozart degli Champs Elysées" scrivere molta musica in esubero in fase compositiva, destinata poi ad un lavoro di ragionata razionalizzazione (mediante tagli o riscritture) durante le prove, così come pure ritornare più volte su uno stesso titolo per successivi rimaneggiamenti, se è vero che di Orphée aux Enfers esistono due differenti versioni e de La Vie parisienne addirittura ben tre. Di certo alla prima assoluta i Contes furono presentati in forma di opéra-comique, quindi con dialoghi parlati tra un numero e l’altro, e con il completamento dell’orchestrazione a cura di Ernest Guiraud, che curò anche la stesura di récit musicati a quattro mani con Léo Delibes, al fine di poter assicurare al titolo una circuitazione al di fuori dell’Opéra-comique. Da allora grazie alle edizioni edite da Choudens e Peters, l’opera circolò in effetti nella versione con i récit musicati e qualche pezzo apocrifo fino al 1976 quando, grazie all’interessamento di Antonio De Almeida e al lavoro sulle fonti di Fritz Oeser, fu messo a punto un primo testo critico, che consente la declinazione del titolo in versione operistica o con i dialogues. Da allora ulteriori materiali autografi riemersi, prima a cura di Michael Kaye e poi di Jean-Christophe Keck, hanno costretto i due litigiosi studiosi ad un’edizione congiunta disponibile dal 2009 (sebbene solamente per il noleggio, a causa di veti incrociati) che è poi quella adottata in queste recite, percorsa secondo l’opzione dei dialogues parlati. Ma a tal proposito si compie una scelta non esente da rilievi, scartando i dialoghi originari di Jules Barbier e ricorrendo ad un nuovo testo confezionato dal drammaturgo Peter te Nuyl, affidato esclusivamente a Hoffmann e Nicklausse. L’operazione è però ben condotta, complice l’idea di fondo della regista Lotte de Beer – direttrice della Volksoper Wien che coproduce lo spettacolo (vi approderà a giugno prossimo), assieme all’Opéra du Rhin (dove lo spettacolo ha debuttato lo scorso febbraio) e all’Opéra de Reims (che ha ospitato la prima circuitazione) – che reinterpreta la Musa/Nicklausse come una sorta di psicanalista di Hoffmann, capace di osservane le romantiche infatuazioni con distacco, quandanche con ironico dileggio, divenendo una sorta di coscienza critica del poeta, un vero e proprio alter ego. Più in generale la cifra ambigua propria dell’opera fantastica, sospesa fra realtà e sogno, è ben assecondata da questa lettura in chiave psicanalitica che porta la megalomania di Hoffmann a ricorrenti giochi allo specchio con mimi, fino ad una moltiplicazione ossessiva del protagonista quando tutto il coro ne assume le fattezze, replicandone i movimenti. Lo spettacolo si articola su un semplice impianto scenico fisso disegnato da Christof Hetzer, costituito da una stanza prospetticamente molto enfatizzata; quando Hoffmann e Nicklausse si spostano in proscenio, impegnati nei dialoghi, cala il sipario nero per il pochissimo tempo necessario a che nella stanza retrostante si materializzi qualcosa di nuovo: i tavoli della taverna di Luther, una bambola gigante, ossessionanti replicazioni di cornici o di tende: il gioco di prestigio si disvela agli applausi finali, quando si scopre che le stanze sono in realtà due, identiche, montate su girevole, a consentire materializzazioni tanto rapide. I meno ingegnosi costumi di Jorine van Beek e il solidamente professionale il disegno luci di Alex Brok assicurano una scorrevolezza ai cinque atti (con un solo intervallo inframezzato), a cui l’opzione dei dialoghi consente di scontare una trentina di minuti rispetto alla durata dell’edizione Kaye-Keck con i récit musicati, senza però sacrificare musica importante quale quella della grande aria di Giulietta “L’amour lui dit” o del finale completo dell’atto di Venezia.

Affidabilissimo è tutto il comparto di comprimari a partire dalla limpida Mère di Sylvie Brunet-Gruppos, fino a Matthieu Walendzik (Hérmann/Schlémil) e Matthieu Justine (Nathanël/Spalanzani). Nicolas Cavallier è un Luther/Crespel di sicuro effetto. La distribuzione è ossequiosa alla realizzazione della prima assoluta di 145 anni fa anche nel voler ricorrere ad un unico secondo tenore per Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio ben impersonato dal Raphaël Brémard e per le parti malefiche di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dappertutto che trovano efficace realizzazione nel misurato Jean-Sébastien Bou. La medesima scelta risulta meno felice per le parti femminili di Olympia/Antonia/Giulietta/Stella, tutte sostenute dalla temperamentosa Amina Edris, dotata di indubbio buon carisma scenico, ma che si rende artefice di una realizzazione musicale poco rifinita e decisamente impari rispetto alla grande cura generale, complice un mezzo che non pare segnalarsi precipuamente per la duttilità a fronte di assai relativamente differenti fra loro per tessitura e per tipo di scrittura.

Il lavoro drammaturgico e registico carica sulle spalle di Nicklausse una funzione cardine in questo spettacolo e la bravissima Héloïse Mas bene regge il soverchio carico, sia grazie ad uno strumento forse non prim’ordine ma validamente amministrato, sia soprattutto grazie ad un’egregia presenza scenica e le consente di affrontare i dialoghi con l’allure della navigata attrice di prosa. L’altro personaggio eletto a chiave di volta dello spettacolo è Hoffmann, che trova nella maiuscola prova di Michael Spyres una realizzazione senza esagerazioni memorabile: la robustezza della linea di canto, il volume impressionante, il vigore mai in debito per oltre due ore e mezza nelle quali è costantemente in scena, l’estensione prodigiosa, la baldanza in “Amis l’amour tendre et rêveur”, la capacità di sfumare nei duetti, l’istinto teatrale da dominatore del palcoscenico, fanno di lui interprete ideale di un personaggio tanto ambiguo quanto vario. Il colore scuro dello strumento, ormai prossimo al debutto in Tristan und Isolde, allunga sulla realizzazione musicale un’intrigante proiezione nelle intenzioni di Offenbach, che pare avesse in mente per Hoffmann la corda baritonale, salvo poi rivedere le proprie urgenze creative alla contingenza del palcoscenico dell’Opéra-comique offertogli da Léon Carvalho.

Nella non grande buca della sala si ritrova l’Orchestre Philharmonique de Strasbourg, cui l’appassionato Pierre Dumoussaud – tanto giovane quanto già esperto frequentatore d’Offenbach – riesce a infondere omogeneità, varietà di dinamiche e sonorità suggestive. Queste ultime poi sono pieno appannaggio dell’eccellente Ensemble Aedes diretto da Mathieu Romano che, dislocato dei palchi durante l’apoteosi finale, suggella lo spettacolo con un momento di autentica commozione.

I prolungati gli applausi rivolti a tutti i singoli artefici diventano inevitabilmente festanti ovazioni all’indirizzo di Michael Spyres, nella speranza che i filtri d’amore della regina Isotta non ci privino di altri futuri Racconti.

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