Vale, te amabam, Œdipus
Dopo oltre mezzo secolo l'opera-oratorio di Stravinskij dalla tragedia si Sofocle torna fra gli applausi nella stagione del Comunale di Bologna con la regia di Gabriele Lavia (anche narratore) e la concertazione di Oksana Lyniv.
BOLOGNA 9 ottobre 2025 - Questa sera il Comunale Nouveau sembra più affollato del solito, forse per merito di una locandina che alletta i musicofili con Stravinskij e il popolo della prosa con Gabriele Lavia, tutti nel segno del mito di Edipo. Ci sarebbe da riflettere su quanto di rado i pubblici devoti a vari generi (anche opera vs sinfonico vs contemporanea vs antica etc) si intreccino in Italia; intanto speriamo che occasioni come questa servano a invogliare qualcuno a varcare più spesso gli steccati.
Edipo, dunque, per questa serata che vede anche il ritorno sul podio dell'ex direttrice musicale del Comunale, Oksana Lyniv, impegnata in apertura con i tre preludi alla tragedia di Sofocle composti da Ildebrando Pizzetti nel 1903. Attira la rarità, che precede di ventiquattro anni la prima dell'OŒdipus Rex di Stravinskij e aiuta a contestualizzare l'approccio al mito classico e al teatro antico nei primi decenni del XX secolo. L'esecuzione è assai lodevole: Lyniv e l'orchestra della fondazione bolognese dipanano un corpo sonoro plumbeo ma non monolitico, calibrando assai bene le ombre e le tensioni che scandiscono il presagio, la tensione dell'indagine, il dolore e l'esilio. Tuttavia una volta definita con indubbia erudizione l'atmosfera, è la partitura stessa a permanere in una sua propria marmorea monumentalità priva della scintilla geniale della successiva creazione di Stravinskij e Cocteau. L'idea di abbinare i preludi a immagini tratte dall'Edipo di Pasolini ravviva non poco l'ascolto e amplia l'arco narrativo dal solo Œdipus Tyrannos sofocleo (che si apre con la peste a Tebe) all'intero mito, partendo dall'esposizione del neonato e la sua adozione da parte di Polibo. L'esito convince, anche in virtù dell'espressività del cast pasoliniano (Citti, Mangano, Valli, Bene, Beck...), ma, pur essendo servito assai bene, Pizzetti in sé non pare uscirne comunque vincitore.
È di fronte alla maestà di Stravinskij che, invece, è impossibile non inchinarsi: il mito è assoluto, archetipico, granitico, ma pure visto con occhi contemporanei, partecipi e critici, analitici e coinvolti, perché davvero, in questo moderno straniamento si può individuare ciò che nella tragedia in eterno ci appartiene come esseri umani. La regia di Lavia (scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti, luci di Daniele Naldi) si muove con estrema discrezione, in un sito archeologico che è anche un set cinematografico (e ci rimanda quindi a Pasolini), ma senza trascurare i dettagli, come il rapporto gestuale fra Jocasta ed Œdipus nell'aria di lei “Nonn'erubescite, reges”, lasciando intendere che, inconsciamente, essi conoscono una verità che non vogliono ammettere. Nelle vesti di Narratore, Lavia stesso sembra volersi mantenere un passo indietro, non mattatore, non deuteragonista, ma osservatore sospeso fra distacco e umanità, impotente di fronte al male nascosto che permea il mondo.
Lyniv, pure, non punta a una monumentalità di facciata: fin dal coro “Caedit nos pestis” si percepisce un senso severo, solenne del mito. Nella struttura frammentaria dei singoli episodi la tensione rimane costante in una narrazione asciutta e pure capace di sfumarsi e far guizzare slanci vitali attraverso le ambiguità e gli enigmi insiti nella radice sofoclea così come nella rielaborazione di Cocteau e Stravinskij, nel loro unire una voce contemporanea in idioma familiare al latino arcaico (e si confessa che leggere pure il testo originale nei sovratitoli avrebbe dato maggior piacere), il parlato e il cantato, il distacco e la mimesi, il metateatro (“Ora scolterete il celebre monologo...”) e la compassione (“Addio Edipo: eri a noi caro.” del narratore che nell'anticipare sembra anche condividere il coro “Vale […] te amabam, Œdipus”)
Il cast mostra un'encomiabile concentrazione che fa passare in secondo piano, nell'impegno di Gianluca Terranova (Œdipus), qualche tensione per la scabrosissima e frastagliata scrittura acuta, o, nell'intensa Jocasta di Atala Schöck, un certo sforzo negli estremi della tessitura. Servono bene l'incedere dell'oratorio tragico pure il Creon/Messaggero di Anton Keremidtchiev, l'autorevole Tiresias di Sorin Coliban, il Pastore di Sven Hjörleifsson e naturalmente il coro, a tutti gli effetti ottimo deuteragonista, preparato da Gea Garatti Ansini.
Calorosa l'accoglienza finale, come si conviene a un capolavoro che mancava da Bologna dal 1968: tanti, troppi anni per un testo di questa importanza, che mette così bene in luce, per di più, le qualità dei complessi della Fondazione. Addio, Edipo, ma che il tuo esilio non sia, ora, troppo lungo.
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