La musica e le parole

di Roberta Pedrotti

 

Interessante la proposta intellettuale della Cassandra di Christa Wolf musicata da Michael Jarrell in stagione lirica al Comunale di Bologna in coproduzione con il Lugo Opera Festival. Le parole, il testo restano protagonisti della riflessione, mentre musica e immagini restano sullo sfondo.

Leggi la recensione della prima a Lugo, il 06/05/2014

BOLOGNA, 2 novembre 2014 - La guerra di Troia è il grande spartiacque fra il mondo degli dei e quello degli uomini, segna la fine di un mondo in cui gli Olimpi scendevano in battaglia con gli uomini, in cui le forme del sovrannaturale, del fiabesco vanno di pari passo con la tragedia e perfino il più terribile delitto, quello di Medea, ha i contorni del racconto popolare, di streghe, magie e carri trainati da draghi. Non parliamo di filologia, non c'importa se Euripide e Apollonio Rodio son vissuti dopo l'età di Omero; parliamo del passaggio dal Mito alla Storia vissuto nei nostoi, nei ritorni dei sopravvissuti a Troia dopo il conflitto, del cammino iniziatico e favoloso, tortuoso e malinconico, di Odisseo verso un mondo nuovo, o delle fini precipitose e violente delle case di Atreo e di Peleo. Della fuga dei profughi troiani verso l'Italia, delle sorti delle prigioniere, spartite fra i condottieri achei: Andromaca a Neottolemo, Ecuba a Odisseo, Cassandra ad Agamennone, destinata a condividerne la sorte, macellata da Clitennestra per vendicare la morte di Ifigenia, sacrificata dal padre. Onore, vendette, sangue in una catena che di lì a poco si chiuderà istituendo con il processo a Oreste per matricidio lo stato di diritto. Lo stato della parola, che Cassandra aveva pronunciato per anni, eroina veggente, ostinata, condannata a vedere oltre rispetto ai suoi concittadini e per questo mai creduta. Le masse, si sa, seguono volentieri chi sa dire con veemenza le menzogne che vogliono sentire. Anche Antigone è un'eroina della parola, afferma con coraggio il suo pensiero, ma il suo sguardo è rivolto indietro, all'ethos del clan, non alla legge dello Stato.

Christa Wolf nel trattare la figura di Cassandra sembra pensare proprio a questo, a un'eroina della parola che vede oltre, vede la Storia, matura una coscienza politica, di sé e della comunità. Per questo la trova affine a Enea, l'eroe che sfugge all'ideale eroico, sceglie di evitare la battaglia, la morte gloriosa, per votarsi al futuro, a servire una comunità di uomini in cerca di una patria, di uno stato. Enea che abbandona Cassandra, amata, come abbandonerà Didone: per un dovere nei confronti della Storia, non del sangue e dell'onore.

Cassandra vede la trappola mortale della guerra, la sua pretestuosità, il movente ideale (“combattere per la bellezza”) che non è altro che un'illusione. E, dunque, si abbraccia la versione del mito già sviluppata da Stesicoro ed Euripide (da cui anche Die ägyptische Helena di Strauss e Hofmannsthal) secondo cui Elena non sarebbe mai giunta a Troia, dove Paride avrebbe condotto un fantasma.

Con la cultura dell'erudito alessandrino e la sensibilità del poeta la Wolf ha dato un'altra voce al mito, ha fatto parlare la sopravvissuta di Troia nella storia di ogni tempo.

Dal racconto concepito nell'arco degli anni '80, pubblicato all'indomani della caduta del Muro, quanto tutto s'era compiuto e tutto doveva ancora compiersi, adattato a monologo dal marito e pure scrittore Gerhard Wolf, nel 1994 Michael Jarrell trasse un'opera. Quasi un'opera. Una non opera. Perché il potere della parola di Cassandra ha avuto la meglio anche sulla musica nell'annosa querelle fra testo e note e, infine, Jarrell si è reso conto che la sua protagonista non avrebbe potuto cantare, nemmeno in forma di Sprechgesang, ma solo recitare, declamare, dire. Così il suo melodramma diventa monodramma e l'orchestra – ventuno elementi appena – incontra un'attrice, s'intreccia al suo narrare, al suo ragionare. Lo fa con una scrittura che è indubbiamente di qualità nella declinazione drammatica dei linguaggi d'avanguardia, come si evince dal breve interludio che segue la morte di Troilo, ma senza mai innalzarsi al di là di un'atmosfera morale che accompagna con discrezione il monologo, anche (e forse soprattutto) a causa della posizione piuttosto arretrata sul palcoscenico e chiusa dallo schermo per le proiezioni. La resa acustica, così e nonostante la presenza di una regia del suono (Francesco Giomi) e di un intervento informatico in tempo reale (Francesco Canavese), è naturale ma non delle migliori, lasciando il suono strumentale per lo più in secondo piano, invece che a creare un vivo rapporto di evocazione e suggestione con la parola di Cassandra. L'esecuzione è buona, a riprova che (benché talvolta tendano a dimenticarsene forse loro stessi e a concedersi qualche distrazione di troppo) vi siano ottimi musicisti nell'orchestra del Comunale, così come convincente è parsa la direzione di Rossen Gergov, tuttavia la sensazione è sovente quella di ascoltare musiche di scena, un monologo con un sottofondo orchestrale, più che una partitura articolata come un tutto unitario.

L'attenzione si concentra dunque tutta sul testo (nella versione italiana di Anita Raja), sulla prova d'attrice di Anna Clementi (che forse non sarà toccata dalle stimmate del carisma superiore ma sostiene sola il palcoscenico per un'ora con intensità, energia, passione) e sulla regia di Pamela Hunter, che si affida sostanzialmente al lavoro del fido film-maker Dalibor Pyš, con il mix di Michaela Pysova. Scene d'amore, di sesso – sempre vestito – cercato o subito, immagini di guerre e violenze d'ogni tempo, soprattutto recente, volti,opere pittoriche di Paul Delvaux. Ed ecco che la parola veggente di Cassandra prende corpo in un perpetuo movimento, intreccia i tempi, le sensazioni, ma manca di persuasione, di eloquenza. Queste immagini sono la parola di Cassandra a cui la maledizione d'Apollo impedisce di credere: il dio della forma poetica non le benedice e l'energia dionisiaca pare, a sua volta, un po' irrigidita. Né sufficientemente narrative né sufficientemente visionarie, per un'ora s'alternano accostandosi alla parola, che dovrebbe materializzarsi in esse, dissolversi in esse (“La fine sarà un'immagine, non una parola. Davanti alle immagini le parole muoiono”). Ancora, non un una relazione dialettica, non un intreccio drammaturgico, ma un sottofondo alla parola di Cassandra, che resta unica, sola protagonista.

E viene applaudita, da un pubblico attratto soprattutto, infatti, dal testo della Wolf. Il teatro non è esaurito, ma attento. Certo, trattandosi di uno spettacolo di soli sessanta minuti, vien da chiedersi se non avrebbe giovato la forma di dittico, non necessariamente con un titolo di grande impatto popolare, ma con un un capolavoro comunque giù riconosciuto e attraente, come per esempio il Pierrot lunaire di Schönberg, che avrebbe avuto anche organico e necessità teatrali simillimi.