In quali eccessi, o Numi!

di Roberta Pedrotti

Graham Vick allestisce Don Giovanni con i giovani dell'AsLiCo: per gli interpreti un'occasione straordinaria di formazione teatrale, per il pubblico uno spettacolo di qualità superiore, realizzato con la maestria di uno dei più grandi registi del mondo (e di tutti i suoi collaboratori, coreografo Ron Howell in testa) per consegnarci una visione ferocemente attuale del capolavoro mozartiano, senza compromessi né provocazioni fini a se stesse.

leggi l'intervista al protagonista, Gezim Myshketa

BRESCIA, 7 novembre 2014 - Molti cantanti e aspiranti tali, agli albori della loro vocazione, avranno nutrito legittime fantasticherie di splendidi abiti di cavalieri e principesse, di manti, spade e diademi. Quel che farà, però, il vero artista sarà poi l'ambizione a mettersi in gioco teatralmente, la disponibilità a ricercare, sperimentare, studiare, non rimanere semplicemente innamorati di un'aura di divismo e di un libro illustrato. Vivere il testo anima e corpo sul palco e non rimanere fermi alla copertina.

Così, per giovani pressoché debuttanti, lavorare con un regista del calibro di Graham Vick e un coreografo come Ron Howell è una fortuna e un tesoro inestimabile. Significa lavorare in profondità sull'interpretazione, scavare il recitativo con cura maniacale, trovare la via per interiorizzare ogni gesto, ogni accento, la storia, il carattere e la psicologia del personaggio, per dare corpo e anima ai conflitti e alle relazioni, per far sì che ogni dettaglio abbia senso, significato e coerente sviluppo.

Significa imparare a far veramente teatro.

Una sola auto è accesso ed elemento fondamentale della scena nella prima parte del primo atto: è l'alcova di Don Giovanni, è il mezzo delle forze dell'ordine, l'auto degli sposi, il casinetto del Burlador, il carro funebre. Massima sintesi, pochi dettagli, recitazione e puro teatro: la capacità magica di convincere che un oggetto sul palco è quello che in quel momento ci dicono che sia. Stuart Nunn, scenografo e costumista, lavora con una semplicità solo apparente, infondendo forza proteiforme e potente carica simbolica a ogni elemento: un cerchio rosso potrebbe essere la pedana di un circo come un richiamo al Globe Theater; sipario e fondali sono leggerissime sete iridescenti, a seconda delle luci (di Giuseppe di Iorio, magnifiche) addobbo funebre, arredo di boudoir, tende di attrazioni itineranti; uno immenso manichino, replica amplificata degli innumerevoli corpi femminili – reali o artificiali – gettati fra i rifiuti, apparirà sullo sfondo del festino di Don Giovanni, sarà coperto di teli neri a simulare la statua del Commendatore o legato con il nastro adesivo a dominare la cena fatale. Ogni oggetto è uno e molteplice, neutro nel suo mutare e significativo nel trapassare da un'identità all'altra: il cassonetto colmo di corpi umani potrebbe essere anche un deposito dei cantieri edili del Commendatore, l'intecambiabilità dei proprietari e delle funzioni dell'auto nera è comunque coerente con un microcosmo moralmente devastato in pari misura e nel quale si distinguono solo diversi gradi di ipocrisia, censo e ignoranza.

La versione è quella della prima Praga del 1789, quindi senza “Dalla sua pace” e “Mi tradì quell'alma ingrata”, ma anche se manca il recitativo che denuncia “eccessi” e “misfatti orribili, tremendi”, la condotta di Don Giovanni è sotto gli occhi e la riprovazione di tutti. Che sia un'opera in cui si tratta di sesso, violenza e sfrenatezze è un dato di fatto incontrovertibile. Che fra i personaggi non spicchino virtù morali e intellettuali, ma miserie e ipocrisie è un altro dato ormai comunemente riconosciuto e accettato (e se Mozart pose una cadenza d'inganno proprio là dove Donna Anna afferma di essersi liberata in tempo dall'abbraccio del seduttore una ragione ci sarà...).

Qual è, però, oggi il confine di un eccesso, di un misfatto orribile tremendo? Il comportamento di Don Giovanni ci appare oggi quello di un rivoluzionario, o, viceversa, di un uomo nostro contemporaneo, una perversa normalità, una banalità del male che non cessa di esser tale, comunque, fra abusi e omicidi senza rimpianti? E così se vediamo, come da libretto, Donna Anna inseguire Don Giovanni, vediamo intervenire e morire il Commendatore, quel che più sconvolge è l'indifferenza delle forze dell'ordine corrotte o dei passanti, che però poi ricopriranno di fiori e perfino di peluche (per un anziano imprenditore!) il luogo del delitto. Perché non si interviene per impedire un crimine, ma non si può non partecipare al rito collettivo dell'omaggio funebre, comunque e per chiunque, allo stesso modo.

Se desideriamo chiudere gli occhi e immaginare che i misfatti orribili tremendi siano solo quelli cristallizzati in una porcellana rococò, se non ammettiamo che il teatro è un rispecchiamento della realtà, allora non saremo meno ipocriti di Donna Anna e avremo negato anima e profondità alla musica di Mozart e al libretto di Da Ponte. Ciò non vuol dire, naturalmente, dover apprezzare incondizionatamente la lettura di Vick, ma comprendere la qualità del suo lavoro, la coerenza e la cura di una costruzione che non è mai fine a se stessa, provocatoria, ma profonda, pensata in ogni sua piega, anche nelle scelte più audaci, perché se i personaggi “nobili”, Ottavio compreso, si camuffano da prostitute e transessuali perchè Don Giovanni li coinvolga quali “maschere galanti” questo è semplicemente una logica conseguenza dei caratteri e delle situazioni. Mai nulla appare fuori posto o gratuito e Don Giovanni è un mito che si presta per sua natura a molteplici chiavi di lettura, purché condotte con intelligenza.

Il colpo da maestro è nel finale, che raccoglie tutta la tensione accumulata fino a quel momento mantenendoci sul filo del rasoio in attesa non di cosa succederà, ma di come teatralmente succederà e acquisterà significato. Abbiamo visto morire il Commendatore, non vi sono dubbi, ma è sempre lui a presentarsi: non è una statua, ma cammina spedito, senza più bisogno del deambulatore, e non è un fantasma, perché se così fosse non avrebbe bisogno di un guanto di lattice per simulare il tocco gelido. Il Commendatore è una creatura teatrale, la porta fra reale e irreale nella rappresentazione e fra rappresentazione e il mondo concreto. Progressivamente la quarta parete si era incrinata, ora, quando Don Giovanni rifiuta di pentirsi dichiarandolo in favor di telecamera, è infranta. È chiaro che lui è uno di noi, che il suo posto è in platea, che il dito puntato dal coro nel momento della condanna è rivolto con lui a tutti i suoi, anche insospettabili, simili nostri contemporanei, a tutti coloro che passano loro accanto con indifferenza. Per questo il Commendatore non è morto, non è quel morto nel racconto circa tre ore prima, non solo: è questo ed altro, condividendo l'ambiguità di ogni elemento, umano o inanimato, dello spettacolo. Avremo visto mille volte utilizzare la platea per l'azione, ma pochi sanno farlo con la cura di Vick per la visibilità da ogni angolo del teatro, ancor meno con la sua capacità di usare lo spazio con un preciso fine, in un discorso logico che rende ogni scelta così naturale e irrinunciabile.

Sopraggiungono i sopravvissuti, altre maschere dello squallore quotidiano, e cantando la morale (che, in fondo, equiparando vita e morte “dei perfidi” traccia anche un legame fra l'effimera vita sul palcoscenico e la cruda realtà nel mondo, con il Don reso al di qua del sipario) abbandonano i costumi e si dissolvono nell'ombra sul fondo. La sala si illumina, ma non delle sue luci: sono, bensì, i riflettori del palcoscenico puntati verso di noi, è il teatro che ci mostra chi siamo, mentre il suo racconto si dissolve e il suo eroe si svela uno di noi.

Brividi, angoscia, applausi.

Uno scandalo? Nessuno scandalo. L'immagine di un mondo che in realtà ci circonda ogni giorno, che entra nelle nostre case continuamente attraverso internet e tv e che non è una forzatura ritrovare e denunciare nelle note e nelle parole di Mozart e Da Ponte la contemporaneità, anzi, è la, pur amara, affermazione della grandezza di due geni in grado di parlare dell'umanità all'umanità di ogni tempo. E, anzi, è più unico che raro, anche in allestimenti cosiddetti tradizionali, vedere realizzato esattamente ciò che la partitura prescrive per il finale del terzo atto, con le tre orchestre a suonare via via diverse danze che vanno a sovrapporsi con tre gruppi di ospiti che ballano ciascuno su un tema e uno stile diverso. Chi parla di reato di “leso Mozart” evidentemente pensa che il Salisburghese si identifichi con parrucche e redingote, non con la sua musica.

Musica che, purtroppo, costituiva il vero problema di questo Don Giovanni, poiché José Luis Gomez-Rios non si è mostrato assolutamente all'altezza della situazione, trascinando l'opera in una costante imprecisione strumentale, davvero esiziale in un'opera come questa, tanto perfetta quanto sofferente per le continue sbavature di chiuse, attacchi, rapporti fra le diverse sezioni strumentali. Già i primi accordi dell'ouverture non fanno ben sperare per il prosieguo, che, al contrario della regia, non costituisce certo un sostegno per un cast composto per lo più da giovanissimi debuttanti o quasi.

I più esperti sono Gezim Myshketa, che tornava a Brescia dove aveva debuttato nel ruolo eponimo otto anni fa, e Andrea Concetti, Leporello al Grande anche nel 1999. Il giovane baritono albanese sposa a meraviglia lo spirito dello spettacolo e ci regala un Don Giovanni violento, spudorato, strafottente, inarrestabile, dal timbro brunito piegato ove necessario in un fraseggio anche ruvido, ma capace anche di sussurrarre e modulare in diverse gradazioni dinamiche, tutte scenicamente ben motivate, la serenata del secondo atto.

Concetti, invece, se è sempre un ottimo attore e dicitore, vocalmente sembra aver ormai passato i suoi giorni migliori e appare l'ombra di se stesso.

Tutti gli altri sono teatralmente straordinari, ma alterni nella resa vocale. Valentina Mastrangelo colpisce nel segno tratteggiando Donna Anna come un'ipocrita, viziata ragazza di buona famiglia, con una probabile doppia vita da (quasi) baby squillo, abituata a usare il sesso come arma di affermazione, concedendosi a sconosciuti nei parcheggi, o di persuasione e dominio, coinvolgendo Ottavio in giochi erotici che sembrano destinati a interrompersi sempre sul più bello. Purtroppo il canto è debole: frasi come “Rammenta la piaga | nel misero seno” mancano d'incisività, gli acuti sono esili e vetrosi, la vocalità appare fragile, il ruolo, semplicemente, troppo al di sopra delle sue possibilità. Federica Lombardi si mostra ben più salda come Donna Elvira, di cui incarna con slancio e disinvoltura anche il percorso da novizia sedotta decisa a redimere il seduttore anche per risolvere un'attrazione mai sopita, a donna illusa al punto da esibire tutta la sua sensualità rasentando il grottesco per venire crudelmente ingannata, ma che non si arrende e si intrufola fra le studentesse invitate dal libertino per un estremo tentativo di redenzione, prima di tornare sui suoi passi sulla via del convento (“io men vado in un ritiro...”). Convincente anche Alessia Nadin, Zerlina efficace e splendidamente coatta senza esser caricaturale: una ragazza di borgata con l'unica aspirazione di una comparsata televisiva e amicizie vip. Fra i mille dettagli preziosi, la disinvoltura con cui i personaggi “nobili”, evidentemente avvezzi a quel tipo di feste, si accostano al vassoio della cocaina nel finale primo, mentre lei rimane esterrefatta come una bambina a tracciare minuziosamente strisce bianche sul pavimento. Degno compagno le è il buon Masetto di Riccardo Fassi, canto pulito, ben calibrato, presenza impeccabile nel microcosmo di questa gioventù sbandata di periferia.

Giovanni Sebastiano Sala ha colore gradevole, ma “Il mio tesoro intanto” esige una saldezza tecnica e una maturità che devono ancora essere pienamente raggiunte. Ma, viceversa, quale maturità teatrale nel dar vita a uno scialbo bravo ragazzo di buona famiglia che s'infila la maschera usata da Don Giovanni per suggellare il giuramento di vendetta con un gioco erotico e nasconde, evidentemente, mille frustrazioni e perversioni.

Il Commendatore, anch'egli impressionante nel suo aderire alla complessità del disegno di Vick, è Mariano Buccino. Il coro Aslico fa meraviglie con una partecipazione attoriale e tersicorea di primissimo ordine (e sia sempre lodato Ron Howell).

Qualcuno avrà borbottato, fra i più tradizionalisti, ma spettacoli di questa qualità teatrale forse a Brescia non se n'erano mai visti, o se n'erano visti ben pochi. Il successo c'è, alla fine, e anche vivace, considerando per di più che il turno A al teatro Grande non è certo il più espansivo.

 

foto Ilaria Sormani