Carne, ultima dea

di Roberta Pedrotti

 

Torna a Bologna, dopo la prima e unica messa in scena al Comunale nel 1968 e a ottant'anni dalla prima assoluta a Leningrado, il capolavoro di Dmitrij Šostakovič in una produzione del teatro Helikon di Mosca.

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BOLOGNA, 4 dicembre 2014 - Non dovrebbe stupirci, è cosa nota, ma la celebre stroncatura (anonima) che lo stesso Stalin avrebbe imposto sulle pagine della Pravda contro Una lady Macbeth del distretto di Mzensk desta sempre un certo sgomento, soprattutto se letta e riletta a ridosso di un rappresentazione teatrale. Da un lato pare ovvio e naturalissimo, quasi fatale, che un regime si scagli contro un testo come questo, che, pur ambientato all'epoca degli zar e spietato nei confronti della borghesia agricolo mercantile e del clero, lascia ben trasparire una satira pungente (e attualissima, anche in altri contesti) verso la Russia sovietica. E fa indubbiamente riflettere l'invettiva contro gli artisti “sinistreggianti”, mentre un certo morboso moralismo ci ricorda quanto il Partito sapesse rivaleggiare su questo terreno con la Chiesa, come abbiamo avuto modo di riscontrare in Italia ai tempi dell'amore fra Togliatti e Nilde Iotti. D'altro canto se tanto veleno è proporzionato allo spirito caustico dell'opera mette ancora un certo disagio leggere di tanto disprezzo per una partitura che è, senza meno, un capolavoro.

Un capolavoro innanzitutto di straordinaria fisicità, plasticità del suono, evidente – come non potrebbe esserlo? – soprattutto in quelle scene di sesso tanto acusticamente esplicite (quel glissando finale del primo amplesso!) da rendere, al di là delle risibili riserve morali, alla fine inevitabile la definizione di pornografia musicale. E sarebbe anche incontestabile, per lo meno, se si trattasse solo di sessualità esplicita, che però non è mai né gratuita né volgare, ché la maestria di Šostakovič consiste proprio nel sovrano equilibrio fra ogni elemento, senza eludere perfino una profonda vena lirica di solitudine e disperazione, un vibrante senso d'ingiustizia che sottende il precipitare della tragedia, il grottesco surreale e il simbolo, la satira e il naturalismo scientifico, la pietà e il distacco oggettivo. Nel fallimento d'ogni rapporto umano, nel naufragio della famiglia borghese, nell'abrutimento incosciente delle classi lavoratrici, nella soperchieria grottesca delle forze dell'ordine, l'unico valore resta quello del senso, l'unico legame con la natura. L'unica legge è quella del sesso.

Madame Bovary langue in provincia vedendo frustrate le sue ambizioni mondane e romantiche; Katerina Ismailova langue senza ambizione, e l'ebrezza della carne è l'unica risposta al suo vuoto interiore di donna senza individualità, spirito, mente, desideri, strumento di piacere e procreazione in un mondo patriarcale che metafora di ogni società e ogni potere, in cui ciascuno è vittima. Perché vittima è sicuramente il povero Zinovij, forse costretto a nascondere con questo matrimonio un'inammissibile omosessualità, forse semplicemente inibito nella sua personalità e nei rapporti con la moglie dalla figura autoritaria e castrante del padre Boris. Vittime, foss'anche di se stessi e del sistema che rappresentano e perpetuano, son tutti, o spietate caricature senz'anima. Sergej, perfino, sembra essere condannato a un'esistenza ciclica, amorale motore dell'istinto.

Giustamente l'allestimento del Teatro Helikon di Mosca, con la regia di Dmitrij Bertman, le scene di Igor Neznij e i costumi di Tat'jana Tulub'eva, colloca l'azione in una struttura industriale fissa, di gabbie e tubi di rame, con l'azione scandita dal moto feroce e implacabile delle ventole. Aksin'ja non è violentata dai lavoratori, ma si concede volentieri in un gioco erotico stilizzatissimo che sembra lo spettro dei sogni proibiti di Katerina, spettatrice dell'intera scena. Il cammino verso la Siberia è una resa dei conti interiore, la materializzazione di una follia collettiva, dove forzati e forzate sono ancora Boris, Zinovij, Aksin'ja, il pope, i poliziotti e i lavoratori. Stordita, al centro, Katerina osserva gli spettri della sua grottesca tragedia, rivive quella maternità che le era stata negata, nella sterilità di un matrimonio bianco per il quale lei sola veniva colpevolizzata, rivede se stessa in Sonetka, sosia, doppio della ricca, annoiata e insoddisfatta Katerina della prima scena. Il ciclo non si esaurirà mai, il presente le rinfaccia il passato, l'istinto dirompente e distruttivo della carne continua implacabile a determinare le sorti di uomini e donne che sono sempre, infine, gli stessi.

Tutto è curato nel dettaglio, chiaro, semplice, fluido, anche nell'astrazione onirica che trasforma la zuppa d'avena e funghi in un cocktail alcolico. Le scene di sesso alluse sulla poltrona e seminascoste dallo schienale non hanno, per forza di cose, l'esuberante violenza della musica, e forse sarebbe stato più efficace lasciar tutto lo spazio all'orchestra, ma si tratta di considerazioni veramente marginali. Anche il balordo (Michail Seryšev) trasformato in cantante rock sballato fuori tempo massimo funziona benissimo, anche se avremo decisamente preferito se si fosse evitato l'effetto sgradevole dell'amplificazione: un microfono spento poteva essere egualmente efficace. Tutti i cantanti dimostrano di avere questo repertorio e quest'opera nel sangue con un'adesione anche fisica encomiabile. Dal punto di vista strettamente vocale chi si apprezza maggiormente è il Boris di Aleksej Tichomirov, che evita laide sottolineature per rendere invece il machismo e il maschilismo del patriarca con una prestanza gagliarda ancor più incisiva. Elena Michailenko sostiene con onore e viva partecipazione un ruolo esigente come quello della protagonista, cui si accompagna il Sergej di Vadim Zaplecnij, vocalità non delle più rifinite e vigorose, ma comunque complessivamente convincente. Come convincente è, ad onta di uno strumento non privilegiato, lo Zinovij di Dmitrij Ponomarev, sospeso fra le timide carezze con ricambiate con il lavorante del mulino (Valeri Kirjanov) e l'esigenza di dimostrare la propria virilità abbandonando la moglie sola per darsi a festini con il probabile amante e un gruppo di allegre entraîneuse. Maja Barkovskaja è la sfrontata, maliziosa Aksin'ja; Larisa Kostjuk presta robuste note contraltili a un'imponente Sonetka. Aleksandr Miminosvili è un dinoccolato, febbrile e surreale capo della polizia, Stanislav Svets rende bene, e ancora senza inutili caricature, il pope. Completano il cast Andrej Orekhov, Andrej Palamarchuk, Artem Davjdov e Aleksej Vertogradov.

Nessuna voce eccezionale ma un meccanismo perfettamente oliato sotto la guida musicale di Vladimir Ponkin, che non solo garantisce una lettura chiara, tesa e versatile, cogliendo tutti i vari aspetti della partitura, ma soprattutto ha il merito di coinvolgere i complessi del Comunale in una prova all'altezza dell'impegno imposto dal testo. L'orchestra chiude la stagione 2014 con uno dei suoi migliori risultati in campo lirico (anche se la palma resta sempre attribuita alla Tosca dello scorso febbraio); il coro offre anche una convinta partecipazione scenica.

Il pubblico, purtroppo, non accorre in gran numero come per i più celebri titoli italiani. La prima è salutata da applausi, ma sarebbe bello sapere della sala piena, per le repliche, a scoprire, o ribadire, che le critiche della Pravda non avevano ragion d'essere e che Una lady Macbeth del distretto di Mzensck è uno dei più straordinari, irresistibili e coinvolgenti capolavori del XX secolo.

foto Rocco Casaluci