Trovatore al tempo del Trovatore

di Francesco Bertini

 

Un altro Trovatore si alterna sulle scene venete con quello visto recentemente a Zurigo. Questa volta l'ambientazione, con la regia di Paolo Panizza, è classica. Sotto l'appassionata concertazione di Balàzs Kocsàr si esibiscono, con diverse fortune, Luis Chapa, Aris Argiris, Rachele Stanischi e Anna Maria Chiuri

ROVIGO, 30 novembre 2014 - A una settimana di distanza dalla produzione trevigiana di Il trovatore, dal Sociale di Rovigo giunge la risposta con un allestimento differente della medesima opera. La messinscena è curata per intero da Paolo Panizza che tralascia unicamente i costumi, affidati a Valerio Maggioni. Lo spettacolo gioca intelligentemente con i cambi scena a vista che diventano motivo di curiosità per il pubblico, attento alle formule ideate con il procedere della recita. Panizza cerca di rispettare i dettami della vicenda raccontando il più fedelmente possibile una storia dall’intreccio di non immediata comprensione. La comunanza simbolica tra le varie scene rende ideale una narrazione fluida, fatta di pochi elementi convertibili e sempre funzionali. La torre di forma cilindrica, imperante sul palcoscenico, è per metà aperta così da lasciar vedere il convento e l’interno della prigione. Gli astanti sono proiettati nell’epoca precisata dal libretto (principio del secolo XV) e sembrano quasi rassicurati nel vedere una ricostruzione in grado di guidarli alla scoperta dell’opera.

Anche la direzione di Balàzs Kocsàr, subentrato, all’ultimo, all’annunciato Toufic Maatouk, appare vivida, mai sovrastante, e intenta a raccontare, senza troppi dettagli, con tempra e vigore. L’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta rispetta i dettami di Kocsàr e si affida pienamente alla sua vibrante interpretazione. Non ineccepibile il Coro lirico veneto preparato da Giorgio Mazzucato. Sono però i cantanti a rendere scarsa giustizia alla partitura.

In particolar modo le voci maschili paiono in difetto per poter affrontare la scrittura verdiana. Il messicano Luis Chapa è un Manrico dal timbro poco efficace. Oltre alla scarsa espressività scenica, la sua prestazione è trasandata per intonazione, emissione, sovente indietro, e, nonostante qualche fugace impennata, giunge al termine con difficoltà. L’interessante timbro di Aris Argiris, Conte di Luna, si scontra con l’asperità e la nasalità della zona acuta che toglie l’incanto di uno strumento altrimenti interessante. Il basso coreano Seung Pil Choi affronta con limitata grazia il ruolo di Ferrando il quale perde rilievo, specie a causa della lettura non sempre rispettosa dei dettami del compositore. Anche Rachele Stanisci, Leonora, si avvale di alcune astuzie per mascherare dissesti tecnici palesati da disomogeneità udibili, fraseggio distorto e presenza scenica artefatta. Al contrario la collega Anna Maria Chiuri, Azucena, sfodera una tempra attoriale invidiabile. Il mezzosoprano, pur non brillando per correttezza e ortodossia d’emissione, cattura il pubblico con il suo magnetismo espressivo, accresciuto dall’attenta incisività riservata alla parola. L’Ines di Luciana Pansa è inefficace, mentre Nicola Pamio è un valido Ruiz.

La coproduzione, tra il Teatro Sociale di Rovigo e l’Opera Giocosa O.N.L.U.S. di Savona, riscuote ampi apprezzamenti finali, all’indirizzo di tutti gli artisti.

foto Leonardo Battaglini