Qui!... Circondatemi, l’inno diffondasi del vincitor

 di Giuseppe Guggino

 

E vincitore può dichiararsi a pieno titolo Carlo Colombara nei panni di Attila per la chiusura della stagione d’opera 2014 del Teatro Bellini di Catania. Purtroppo il valoroso basso, a parte il coro e l’orchestra parimenti agguerriti, non è circondato da un drappello di cantanti altrettanto vincenti.

Catania, 7 dicembre 2014 - Giunge al termine con molti affanni la stagione d’opera 2014 del Bellini di Catania, tra proteste e ormai croniche ristrettezze economiche (con bilancio consuntivo dell’esercizio 2013 ancora da approvare), determinate da contributi regionali e comunali inferiori al costo fisso delle masse stabili la cui entità (in assenza di un consistente contributo aggiuntivo da parte dello Stato, assodata l’esiguità dell’aliquota FUS per i teatri di tradizione) pregiudica l’operatività stessa del teatro nonché la possibilità di scritturare solisti con i margini di tranquillità nei quali si muovono altre istituzioni musicali.

Onore quindi a Carlo Colombara che, chiamato in un contesto simile, ha accettato la sfida e l’ha portata a termine con esiti che rimarranno a lungo negli annali del Bellini: tutta la linea di canto del suo Attila è saldissima, l’emissione sempre morbida sicché la prova complessiva, eccettuata qualche caratterizzazione forse troppo rude nelle frasi declamate, può riconoscersi come autorevolissima realizzazione del ruolo eponimo; con queste premesse è facile prevedere come il “sogno” del primo atto sia stato il momento più entusiasmante della recita ché spiace troppo l’omissione del da capo nella cabaletta seguente (peraltro l’unico taglio della serata assieme a una manciata di pochissime battute nel duetto del prologo con Ezio).

Sebbene di fronte a cotanto Attila sarebbe stato difficile non sfigurare, occorre dire, invece, che il resto del cast si situa a distanza siderale dal ruolo eponimo. Non si può dire che Sung Kyu Park canti male, anzi, amministra tutto sommato bene il suo materiale tenorile, puntando molto su un’articolazione verdiana della parola per sopperire ad uno strumento che verdiano non è né lo potrà mai diventare. Anche Carmelo Corrado Caruso, ancorché corretto, non soddisfa appieno come Ezio, per via di una forma forse non ottimale che lo spinge verso un’emissione nasaleggiante.

Il punto veramente basso della serata si tocca con Dimitra Theodossiou, che fu un’Odabella di battaglia una decina d’anni addietro, ma che oggi si presenta in condizioni vocali decisamente troppo impari per il temibile ruolo; finché c’è da cantare la romanza del primo atto ci si può rifugiare in emissioni falsettanti visto il carattere elegiaco del pezzo, ma quando c’è da correre su e giù nel pentagramma sfoggiando agilità di forza, risonanza dei gravi e saldatura dei vari registri, va da sé che il temperamento non basta. E, con tutto quello che c’è da fare nel ruolo, incaponirsi sulle corone a fine del concertato che chiude il secondo atto e a fine dell’opera (quest’ultimo con presa di fiato intermedia) possono essere velleità che Verdi vede e castiga.

A completare il cast Giuseppe Costanzo come inaffidabile Uldino e Concetto Rametta come senescente Papa Leone.

Quando si deve fare di necessità virtù non è detto che i risultati siano poi modesti, ecco quindi che Vincenzo Pirrotta, prestato al teatro d’opera dal teatro dei pupi, sa confezionare uno spettacolo efficace, brutale e a suo modo coerente con appena quattro quinte, due colline, una selva di corde che cala dall’alto e qualche elemento d’attrezzeria ben realizzato. La mancanza di mestiere si palesa appena nella gestione delle masse; infine passino le donne stuprate nel prologo dagli unni ma forse una donna gravida con la levatrice in azione durante “Cara patria, già madre e reìna” (che diviene puerpera in tempo per far consegnare il fanciullo a Foresto nel da capo della cabaletta) è una sottolineatura un po’ eccessivamente didascalica.

Sul podio Sergio Alapont si rivela già tecnicamente padrone nonostante la giovane età; sa imprimere un disegno interpretativo che rifugge dall’abusata visione quarantottesca scegliendo tempi in genere appropriati e talvolta dilatati (come nel caso del prologo) volti ad avvalorare un taglio tragico della lettura, peraltro perfettamente coerente con la parte visiva dello spettacolo. Gli manca ancora la capacità di gestire le sonorità specie con particolare riferimento agli equilibri tra buca e palco, giacché tende a elevare un muro difficilmente sfondabile da cantanti umani, ma si è certi che l’intuito teatrale dimostrato gli consentirà di fare carriera migliorando questo aspetto.

L’impegno profuso da coro (ben guidato da Gaetano Costa dopo la perdita della storica Tiziana Carlini) e orchestra sono encomiabili, come sovente accade al Bellini; gli esiti artistici mantenuti dai complessi in questi anni, nonostante si navighi a vista mese dopo mese con il perenne rischio di arenarsi, rappresentano un valore prezioso da preservare negli anni a venire, per cui non rimane che concludere con un arrivederci al prossimo 16 gennaio per l’Anna Bolena che inaugurerà la stagione 2015 annunciata in questi giorni.