di Fernando Peregrín Gutiérrez
Nabucco a Firenze e Aida alla Scala, prima della nuova chiusura a causa dell'emergenza sanitaria, sono l'occasione per un confronto e una riflessione sull'ascesa e sul tramonto di due artisti nati a Madrid, il soprano Saioa Hernández e il tenore - ché tale è e inesorabilmente resterà - Plácido Domingo.
Madrid ha visto nascere rinomati cantanti lirici, anche se Barcellona è stata senza dubbio una città più sfarzosa quanto a natali di stelle dell'opera. Un breve elenco di celebrità di Madrid potrebbe iniziare con Isabel Colbran (1784). Nel 1805 nacque a Madrid Manuel García, figlio di Manuel del Pópulo Vicente García (Siviglia, 1775), uno dei personaggi più influenti dell'opera del XIX secolo. Ancora nell'Ottocento, seppure per caso - la madre cantava nella capitale spagnola - nacque nella stessa città la celebre Adelina Patti (1843), prototipo della moderna primadonna, della diva dell'opera.
Nel Novecento incontriamo Consuelo Rubio (1927) e, pochi anni dopo, il 1933, con una delle più grandi glorie della lirica della seconda metà di quel secolo: Teresa Berganza. E, naturalmente, uno dei madrileni più universali degli ultimi tempi: Plácido Domingo.
Cercare di scrivere qualcosa di nuovo su questo grande tenore a questo punto è una vana pretesa. Ci sono più di una dozzina di libri sulla sua vita e carriera, scritti da lui o da rinomati critici musicali e cronisti. Una breve lista: la sua parziale e precoce autobiografia, I miei primi quarant'anni (1983), i tre libri scritti da Helena Matheopoulos, con lui come protagonista (2001) o come parte di un piccolo gruppo di grandi divi maschili (1987 e 1999); l’ insieme di conversazioni con David Leventi (2015); le biografie di Daniel Snowman (1985), Cornelius Schnauber e Susan H. Ray (1997); Fernando Fraga (1996) e Rubén Amón (2011), il suo biografo più apologetico e intimo.
È stato molto lodato da maestri come Carlos Kleiber (che provava un grande affetto personale per lui e, secondo i gossip, era particolarmente indulgente nei suoi confronti), Herbert von Karajan (come racconta la vedova Eliett Mouret nella sua biografia del direttore Mein Leben an seiner seite, 2007), Claudio Abbado e James Levine; da registi come Franco Zeffirelli e Otto Schenk; e soprattutto da grandi protagonisti della scena operistica. Senza voler essere esaustivi, ad esempio, Maria Callas, Mirella Freni, Katia Ricciarelli e Ileana Cotrubas, tra le dame, e Rolando Panerai, Piero Cappuccilli e Nicolai Ghiaurov, tra gli uomini.
Non è questo il luogo né il momento per discutere dello scandalo delle molestie sessuali emerso a metà agosto e inizio settembre 2019 e che ha comportato la cancellazione di molti impegni previsti. E incerto, d'altro canto, è il futuro del concorso Operalia fondato da Plácido Domingo nel 1993 e che ha avviato le carriere artistiche, ad esempio, di Ainhoa Arteta, Joyce DiDonato, Virginia Tola, Rolando Villazón, Erwin Schrott e Aida Garifullina. Sarebbe un errore e una grave perdita, penso, se scomparisse o si dissociasse dal nome del suo creatore.
Il Teatro alla Scala, invece, nonostante le polemiche, ha celebrato in grande stile, il 15 dicembre 2019, il cinquantesimo anniversario del suo debutto nel tempio della lirica italiana, con un Gala d'Opera al quale, tra gli altro, ha partecipato una sua concittadina, un soprano in piena crescita artistica, Saioa Hernández. Il pubblico scaligero ha accolto con calore e intensità un artista che ha avuto tanti momenti di gloria nel teatro milanese, serate che sono parte indelebile della leggenda moderna della Scala.
Lo hanno accolto a porte aperte anche al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dove è apparso in quattro rappresentazioni, dal 4 al 13 ottobre, di Nabucco.
Entriamo così nella domanda fondamentale, per quanto mi riguarda. Ammetto di non essere sicuro di come raccontare lo sfortunato e triste declino artistico di un grande cantante che ha avuto una delle carriere più brillanti e di successo dell'ultimo terzo del secolo scorso. Plácido Domingo è un tenore per natura. E la perdita del registro acuto non fa di lui un baritono. Questa è una realtà indiscutibile, che si può esprimere (con una piccola licenza) con un proverbio latino: "Quod natura non dat, fama non prᴂstat". Prendo anche in prestito da Cervantes il suo lamento per non essere nato poeta e, mutatis mutandis, vorrei consigliare a Plácido Domingo di dire a se stesso: "Io, che mi arrabatto e fingo per sembrare di possedere il crisma del baritono che non ha voluto darmi il cielo” e poi lasciare la scena a testa alta.
Forse basterà un dettaglio personale sull'ultimo stato rovinoso della voce di Domingo. Ho provato molte volte a descrivere quella voce, il suo timbro unico e il suo suono inconfondibile, e non sono riuscito a spiegarlo con mia soddisfazione. Ora sì, era inconfondibile: non appena sentivo le sue prime note, la riconoscevo senza esitazione. Di quell'esperienza non resta nulla. Solo in poche e parziali eccezioni ho potuto riconoscere l'inconfondibile e unica voce del tenore madrileno la sera del 13 ottobre.
È stato detto che Plácido Domingo non si è ritirato perché aveva bisogno di molti soldi per mantenere la sua famiglia. Può essere. È stato anche accusato di essere un divo affamato di applausi e incapace di digerire la vecchiaia e di perdere il favore e il fervore del pubblico nei teatri d'opera di tutto il mondo. Può anche essere. Ma ritengo, in ogni caso, che si tratti delle conseguenze del suo rifiuto di allontanarsi silenziosamente: per lui, al di fuori un palcoscenico, la vita non ha senso. Domingo è un animale scenico, di una specie in via di estinzione a cui appartenevano Richard Burbage, Sara Bernhardt, Enrico Caruso, Maria Callas, John Gielgud e Vittorio Gassman.
E per gratitudine per le grandi serate d'opera a cui ho avuto la fortuna di assistere, gli auguro che il destino gli permetta di morire letteralmente sul palco, come alcuni dei grandi personaggi che ha interpretato con grande successo: Radames, Andrea Chénier, Mario Cavaradosi, Otello.
A causa della vicinanza nel tempo (13 e 12 ottobre 2020) e nello spazio (Milano e Firenze), ho avuto l'opportunità di vedere e confrontare le ultime esibizioni di Plácido Domingo e del soprano madrileno Saioa Hernández, una all'alba di una grande carriera internazionale e l'altro nel triste crepuscolo di una vita artistica piena di fama e gloria. E questo mi ha suggerito un parallelo.
Nella Bibbia si attribuisce a Gesù il detto che nessun profeta è accettato nel suo paese. Saioa Hernández è un esempio, sebbene fortunatamente già smentito, di questa massima evangelica. In Spagna ha fatto ufficialmente il suo esordio a Sabadell nel 2009, ma ha dovuto aspettare fino al 2012 per debuttare nella sua città natale, al Teatro de la Zarzuela. Dopo quella prima rappresentazione a Madrid, è iniziata una lunga e scioccante pausa di dieci anni, poiché il suo debutto al Teatro Real era fissato per l'anno 2022 nella parte di Abigaille in Nabucco.
Forse per questioni legate ai tempi del coronavirus, il suo debutto ufficiale è però avvenuto al massimo teatro lirico di Madrid il 25 settembre nel ruolo di Amelia (Un ballo in maschera). In realtà, è apparsa per la prima volta sul palcoscenico del Real nelle prove generali aperte a un pubblico sotto i trentacinque anni come anteprima, il 16. E quando il suo debutto ufficiale avrebbe dovuto avvenire, il 20, la recita è stato cancellata per la rumorosa e furiosa rivolta di alcuni spettatori che lamentavano la mancanza di misure di sicurezza per la prevenzione dei contagi. Se fosse nata a Parma, per esempio, sicuramente avrebbe debuttato al mitico Teatro Regio all'inizio nella sua carriera artistica.
Dopo aver interpretato tanti importanti personaggi (Norma, Gioconda, Wally...) in teatri e festival italiani, Saioa Hernández ha debuttato al Teatro alla Scala di Milano il 7 dicembre 2018 cantando Odabella nella nuova messa in scena di Attila che ha aperto la stagione, la tradizionale e mitica prima di Sant'Ambrogio. Prendo in prestito da uno degli ospiti famosi di quella serata di gala, il soprano Laura Giordano, la definizione che di Saioa Hernández diede a una reporter della RAI: “La Hernández non è un soprano; è una cooperativa di soprani ”. Da quel momento in poi, è uno dei soprani preferiti dal pubblico scaligero.
Non credo sia azzardato predire un grande futuro per lei come grande star dell'opera internazionale, come profetizzò ai suoi tempi Montserrat Caballé, che vedeva in lei il miglior soprano della sua generazione per il grande repertorio del melodramma romantico italiano.