Voci dall'Averno

di Andrea R. G. Pedrotti Carrara 

Dopo il confronto fra Polissena e Liù e in continuazione a esso, un'altra analisi del pensiero degli antichi, che, fra letteratura, storia e archeologia, vuole essere un invito a tornare a leggere e riflettere sui classici.

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Scrive Ovidio nelle Metamoforsi (X, 61-63): “Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d’essere troppo amata? Porse al marito l’estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s’era mossa“.

Al museo archeologico di Napoli è conservato un bassorielievo - ritrovato nei pressi di una villa di Contrada Sora a Torre del Greco, copia di un orginale greco della fine del V secolo a.c. e databile fra il I secolo a.c. e il I secolo d.C. - raffigurante Euridice sul confine del regno dei morti che carezza Orfeo, il quale ricambia affettuosamente, sapendo che quello sarebbe stato l'ultimo saluto. Ella è sulla soglia ed Hermes la afferra per la mano, in basso, discreto, ma inesorabile, a leggera distanza dai due amanti, preludio al gesto con cui il messaggero degli dei avrebbe ricondotto la fanciulla al mondo dei morti. Il nome Euridice in greco è connesso all'idea di giustizia (composto da εὐρύς, eurys "largo, vasto", e δίκη, dike "giustizia"), una giustizia che colpisce Orfeo, macchiatosi di ὕβϱις (hybris, tracotanza) per aver infranto la regola di non voltarsi prima d'esser uscito dal regno dei morti, sulla soglia: è costretto ad abbandonarla e finire la sua esistenza squartato vivo dalle donne Tracie, ormai abbandonato alla disperazione.

Questo istante, però, nel bassorilievo non si vede, noi vediamo lo stessa cosa che possiamo scorgere nei calchi dei morti pompeiani, la fossa del mundus cereris viene richiusa e resta la pace, la purificazione che era lo scopo del rituale. Infatti “mundus”, in latino sta anche per “puro”.

Pochi giorni fa, esattamente l'8 novembre, si teneva il rituale del mundus patet, ossia l'apertura della fossa sita nel santuario di Cerere, il mundus cereris, dischiusa solo tre volte all'anno, il 24 agosto, il 5 ottobre e, appunto, l'8 novembre. Il santuario era consacrato ai Mani, ossia alle anime dei defunti, che, nel momento stesso in cui la fossa veniva dischiusa, avevano diritto di vagare nel regno dei vivi.

Tale ritualità era di derivazione prettamente italiaca e rappresentava una delle più antiche tradizioni giunte sino ai romani. Tale pozzo aveva la forma di un utero rovesciato - non scordiamo che Cerere era anche dea delle messi, guardiana della fecondità umana, dei fenomeni tellurgici e del regno degli inferi. Il legame fra morte e di fertilità non era prerogativa dei soli popoli italici, ma anche di altre genti nell'antichità. Non possiamo scordarci di Osiride, sovente associato a una figura della mitologia siriaca, Adone, che tornerà utile nel prosieguo dell'analisi.

Restando nell'area greco-romana, il pensiero corre ora alla Teogonia di Esiodo e a come Urano (ossia il cielo stellato) gettasse i figli - i Titani - nel Tartaro, ossia nelle viscere della terra, salvo Crono (il tempo) che lo ucciderà e salirà sul trono, spinto dalla madre Gea (la terra). È così, dunque, che ogni percorso, apparentemente immutabile, viene reciso da una falce impugnata dal tempo.

Com'è noto Crono, per evitare di essere spodestato a sua volta, è aduso a divorare i propri figli, ma uno di questi, Zeus, sfuggì alla sorte dei fratelli e cresce in una grotta grazie alle cure della capra, Amaltea, che egli stesso uccide  una volta giunto all'età adulta.

Ultimo atto della Titanomachia, affinché Zeus e due fratelli vomitati da Crono (Ade e Poseidone) si possano dividere il regno dei cieli, degli inferi e delle acque, è la lotta fra il padre degli dei e Tifeo. Tale scontro avviene dopo che gli dei hanno sconfitto i Titani (i figli di Urano risaliti dal Tartaro, ossia dagli inferi, che per gli intichi indicava il sottosuolo, non necessariamente la nostra concezione di inferno) e Gea (la terra) decide di partorire con l'aiuto di Tartaro (quindi rinchiudendosi nelle viscere della terra), Tifeo (Τυφῶν, Typhon, ossia “fumo stupefacente”, in greco, da τύφειν, typhein, "fare fumo"), un essere talmente spaventoso da costringere tutte le divinità a trasformarsi in animali e a fuggire in Egitto, dando origine al culto di idoli zoomorfi nella valle del Nilo.

Zeus sconfigge Tifeo, quando quest'ultimo fugge dalla Cilicia verso occidente e tentòadi sopraffarre Zeus lanciandogli contro la Sicilia intera, ma il padre degli dei riesce a farlo crollare e a schiacciarlo sotto il peso dell'isola, con l'unico sfogo alla sua rabbia dalla bocca d'un vulcano, l'Etna.

Pinio il giovane indicò l'eruzione del Vesuvio in due lettere all'amico Tacito, datando l'eruzione al 24 agosto (nonum kal septembres cioè nove giorni prima delle Calende di settembre), facendo pensare a molti che si riferisse ai Volcanalia, che cadevano tuttavia il 23 agosto. Perciò, trattandosi di un romano, perché non pensare che Plinio potesse riferirsi al mundus patet in quella lettera, senza contare che le successive aperture della fossa del Mundus cereris erano in un momento dell'anno che i resti archeologici confermerebbero come compatibile con l'eruzione? Perché non pensare che abbia semplicemente sbagliato in occasione di quale apertura fosse avvenuta la distruzione di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis e si fosse riferito genericamente alla prima?

Secondo gli antichi, l'accesso agli inferi si trovava nei pressi di Cuma, nell'attuale parco archeologico dei Campi Flegrei, dove, caso strano, Plinio il giovane si trovava con la sua famiglia al tempo dell'eruzione, per la precisione a capo Miseno.

Al museo archeologico di Napoli è conservato un affresco pompeiano, denominato Bacco e il Vesuvio, capace di fornire un'immagine visiva (geologicamente attendibile) di quale fosse la forma del vulcano all'epoca: un monte con una sola cima, coltivato con filari d'uva. Un monte piuttosto ripido, ma invero anonimo, che, per la sua forma, fu la fortuna dei ribelli di Spartaco nella vittoriosa battaglia del Vesuvio del 73 a.c., durante la quale i gladiatori fuggiaschi fecero un bagno di sangue delle improvvisate legioni romane guidate da Marco Glabro.

L'area godeva di grande fama presso l'aristocrazia romana, tanto che molte personalità decisero di porvi residenza: Tiberio, Ottaviano Augusto o Lucio Cornelio Silla solo per citarne alcuni. Pompei, al contempo, era città famosa, rinomata località di villeggiatura e di svaghi, tanto da poter essere paragonata ai maggiori centri turistici della contemporaneità.

Pensiamo ora al rituale di cui s'è detto in principio di questo testo, un antico rituale dedicato a Cerere, guardiana del regno sotteraneo dei morti, dei movimenti tellurgici e nel cui tempio avveniva la comunicazione fra inferno e superno. L'eruzione del Vesuvio, nei pressi del tradizionale accesso all'Ade, non fu altro che la più violenta fra le manifestazioni della natura. Gea generò Tifeo nelle viscere della terra e Tifeo, tanto spaventoso da terrorizzare persino gli dei, dalle viscere della terra esplose il suo “fumo stupefacente”, sotterrò sotto una spessa coltre di cenere città intere, lasciando la testimonianza di ciò che restava degli abitanti dell'area pompeiana congelati eternamente nell'istante del passaggio fra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Tale connessione potrebbe apparire arbitraria, se non fosse che la concezione di un dio vulcanico di natura inesorabile e vendicatrice era assai diffusa fra e popolazione antiche, non solo politeiste, poiché anche Yahweh, il dio degi Ebrei, ha probabilmente origine vulcanica. A riprova di questo, potrebbe essere un'analisi comparata, riguardo la quale non è il caso di dilungarsi, fra ciò che viene raccontato in principio della Genesi e il concetto di Caos della Cosmogonia.

Sempre una punizione, un giudizio, una guida accomuna il concetto di connessione fra mondo dei vivi e dei morti. I Lari, le anime dei morti probi, sono posti nei pressi del focolare, a difesa della famiglia, primo nucleo di società già secondo Aristotele. Ogni mutamento è derivato da una pena inflitta dalla natura. Adone aveva il permesso di recarsi alcuni mesi all'anno nell'oltretomba in visita a Persefone, ma, come Eva nella Genesi, si nutre d'un frutto proibito e l'eterna primavera che baciava i popoli in un Eden collettivo vede la nascita delle stagioni fredde. Non fu mela, ma melograno, il frutto dei morti, un frutto assai comune ove gli antichi immaginavano, a Cuma, la discesa agli inferi.

Che fossero Sodoma e Gomorra o Pompei, poco cambia, poiché si trattava di una punizione della natura nei confronti dei popoli disubbidienti. A questo proposito non bisogna scordare che Roma, nel 79 d.C., aveva quasi competamente perso gli antichi valori repubblicani, che furono le fondamenta della sua grandezza nei secoli a venire. Silla tradì il cosiddetto Mos maiorum in vita, ma lo rispettò in morte, riconsegnando il potere al Senato. Cesare, invece, fece l'opposto: magnifico interprete dei valori romani -sebbene non fosse affatto un conservatore- li manifestò appieno immaginando i sentimenti dei barbari di Vercingetorige stretti nell'assedio di Alesia e li seppe raccontare addirittura criticando il suo stesso assedio nel De bello gallico, ma perde coerenza coi valori di Roma nella guerra civile, cercando di accentrare il potere su di sé, tradendo i mores e, quindi, cadendo sotto i colpi delle ventiré pugnalate inferte dai senatori, i depositari dei valori dela Repubbica, quei valori che l'opera di Ottaviano Augusto portò a irrimediabile corruzione.

Caso quasi unico fra i romani Catone Uticense seppe resistere a qualsiasi tentazione di corruzione del mos maiorum, straordinario seguace dello stoicismo, fu incarnazione del mos maiorum, osservando e onorando i valori di Roma, valori di pace, tolleranza, giustizia, obbedienza, dignità, anche nel trapasso, resistendo all'umiliazione di ottenere pietà da Cesare, ormai traditore delle leggi di Roma, ricercando l'ambitiosa morte, ma senza incoscienza o stolida mancanza di paura. Egli, infatti, passò la notte precedente alla fatale decisione di cadere sotto il suo stesso ferro, leggendo il Fedone di Platone, ricercando una salvezza per la sua anima. Catone seguì i valori dettati da Romolo, discendente di Enea, legato da vincolo di sangue con Polissena. Polissena e Liù, ancora loro due icone dell'onore degli antichi.

Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.

(Sesto Pompeo Festo)