Ritrovare il tempo

di Roberta Pedrotti

Oltre cento giorni di chiusura al pubblico e spettacoli in streaming, una crisi di governo, la luce in fondo al tunnel della campagna vaccinale faticosamente intrapresa. Una riflessione sul giro di boa dello spettacolo dal vivo in pandemia.

Il 3 febbraio sono trascorsi centouno giorni dalla chiusura dei teatri. Centouno. Per di più coincidenti con una crisi di governo e, comunque la si pensi in merito, l'impasse istituzionale non è mai la condizione migliore per fronteggiare emergenze e risolvere problemi. 

L'ultima sera prima della serrata al pubblico, a Bologna ci si trovava ancora in un Paladozza pieno quanto possibile, con Jonas Kaufmann generosissimo per mezz'ora di bis senz'ombra di risparmio, come se noi tutti facessimo provviste di musica e applausi dal vivo [Bologna, Galà Kaufmann, 25/10/2020]. A dire il vero, però, l’ebbrezza commovente di quella serata piombava in un clima già spettrale. Solo un paio di giorni prima, ad applaudire Anna Caterina Antonacci al Teatro Grande di Brescia [Brescia, #2021 DestinazioneTauride, 23/10/2020] eravamo poche decine, poi si ripartiva rapidi per evitare il coprifuoco, mentre sulle scene non si evitava l’ombra del virus, fioccavano cambi di cast e programma, con cori, orchestre, compagnie in quarantena al manifestarsi di un caso. La Scala è costretta a trasformare una recita di Aida in un galà con tutt’altri interpreti mentre La bohème e Lucia di Lammermoor sono cancellate, il coro femminile del Comunale di Bologna non può prender parte al Galà con Kaufmann e ad altri eventi, di lì a poco, quando l’attività prosegue in streaming ma senza pubblico, Un ballo in maschera a Verona risulta infattibile, così come costa sospensioni e quarantene ai complessi della Fenice una Nona di Beethoven, solo per citare alcuni episodi (e parliamo solo dell’Italia: ancora pochi giorni fa la Staatsoper di Vienna deve cancellare Carmen e Le nozze di Figaro previste in streaming a porte chiuse per i troppi casi nella compagnia, per non dire della situazione del Metropolitan). Cantare in coro (anche se qualcuno continua a strepitare contro le mascherine) è purtroppo fra le attività più pericolose. Insomma, per quanto ci si possa impegnare, spesso, troppo spesso, l’attività musicale e teatrale diventa una rischiosa corsa a ostacoli. Basta poco, pochissimo e la precarietà congenita nello spettacolo dal vivo si trasforma in una danza bendati sul filo e senza rete. 

Il nemico in prima linea è il virus e questo non guarda in faccia a nessuno, non sente ragioni. E nei momenti d’apertura ha imposto uno stress notevole a maschere e personale di sala, costretti obtorto collo a farsi guardiani sanitari: misurare la temperatura, controllare le autocertificazioni, l’igienizzazione, la distanza, redarguire gli indisciplinati della mascherina (e ce ne sono di ostentatamente ribelli perfino fra gli addetti ai lavori) o coloro i quali all’invito a rimanere al proprio posto fino a precisa indicazione per evitare assembramenti all’uscita ben pensano, invece, di accalcarsi subito in ingorghi a ogni porta. 

Ho goduto delle aperture come di una sorgente pura nel deserto, ho ammirato la dedizione di tante istituzioni per poter aprire in sicurezza (e nella maggior parte dei casi risulta essere andato tutto bene), ma non mi ha stupito la chiusura con la seconda ondata di contagi. Dopotutto, bisogna anche considerare che se in sala siamo controllatissimi, fermi, con mascherina, distanziati, la natura mobile e sociale del pubblico comporta uscite, mezzi pubblici, magari un caffé o un aperitivo quando uno un pasto (foss’anche tutto da asporto). Insomma, comporta, fra la casa e il teatro movimenti incompatibili con altre norme necessarie. L’indotto umano ed economico che è la forza dello spettacolo dal vivo in tempi normali di fronte al contagio diventa il suo tallone d’Achille.

Ciò non vuol dire, naturalmente, che ci si debba arrendere e abbandonare passivi al flusso degli eventi. Né vuol dire, tantomeno, strepitare come se il virus stesse a sentire altre ragioni che non siano quelle del vaccino e della prevenzione. Possiamo urlare finché vogliamo di volere una vita normale (certo che la vogliamo!), ma pretenderla facendo finta di nulla fa solo il gioco del nemico in prima linea e allontana proprio il nostro obiettivo. La saggezza di Da Ponte come sempre ci soccorre e al momento valga il motto "non può quel che vuole, vorrà quel che può", tenendoci pronti a potere di nuovo in salute e sicurezza senza restrizioni.

Forse, anziché piangere bisogna pensare, in maniera costruttiva. Lasciamo la lotta al virus alla scienza e occupiamoci di altre questioni: non a ripartire a tutti i costi il prima possibile, ma a ripartire davvero nel miglior modo possibile, magari affrontando e risolvendo problemi strutturali indipendenti dall’emergenza.

Parliamoci chiaro, c'è una pandemia in atto. Non possiamo far finta di niente, che centinaia di persone non continuino a morire ogni giorno e che altre, se anche guariscono, possono subire danni a lungo termine. Abbiamo i vaccini, sappiamo che la campagna vaccinale non è una passeggiata per forniture e organizzazione, ma la luce in fondo al tunnel c'è. Stupido è voler ignorare l'emergenza, stupido sarebbe lasciarsi andare alla disperazione e non pensare a riaprire e ricostruire.

Per cominciare e ricominciare, è utile fermarsi a riflettere. Elaborare l'assenza significa anche creare e progettare, lasciare una testimonianza che sia anche un punto di partenza, uno stimolo.

Per non arrendersi, un livello di base ma di importanza non secondaria è lo streaming dello spettacolo sic et simpliciter, l'opera o il concerto registrato in teatro o trasmesso in diretta su una qualsiasi piattaforma. È, oggi, un modo per permettere soprattutto ai lavoratori di non fermarsi del tutto, per una ragione economica (non secondaria: con la cultura mangiano molte persone) ma non solo: per quanto si possa continuare a studiare in casa propria, il mestiere del palcoscenico è fatto di esperienza, esercizio, confronto e uno stop troppo prolungato non giova alla pratica delle arti. È naturalmente un modo per mantenere anche il legame con il pubblico, per continuare a offrirgli – seppure in maniera indiretta – l'esperienza immanente dell'interpretazione che si rinnova. Il più delle volte, a dire il vero, un palliativo. Un testimoniare la nostra partecipazione alimentando il contatore delle visualizzazioni, perché chi canta, suona, recita, dirige, chi ha lavorato dietro le quinte di un teatro vuoto sappia che nello spirito quella sala era piena, che qualcuno, al di là dello schermo lo seguiva. Ma che sofferenza (e insofferenza) all'ennesima piattaforma lanciata, all'ennesima programmazione web, all'ennesimo coitus interruptus del concerto stiracchiato attraverso microfoni, connessioni e casse. senza nemmeno poter applaudire!

Tuttavia, anche lo streaming puro e semplice non è una novità e non è solo la scialuppa d'emergenza. Già prima del 2020 molti teatri trasmettevano le loro produzioni e spesso si trattava non solo di un'operazione culturale, ma anche di un efficace sistema di promozione: se lo spettacolo è di valore e raggiunge chi non è presente in sala, sarà la miglior pubblicità per farsi conoscere e per ispirare potenziale pubblico in carne e ossa. Lo dovrà essere, a maggior ragione, anche dopo l'emergenza, quando l'imperativo sarà riportare le persone in sala.

Poi c'è la nuova creazione, la musica e il teatro pensati per la fruizione online o televisiva, il dialogo costruttivo con la tecnologia con cui molte istituzioni hanno cercato di reagire all'emergenza e di elaborarla. Gli esempi migliori sono venuti da Roma e Palermo. Il barbiere di Siviglia diretto da Daniele Gatti con la regia di Mario Martone [Rai da Roma, Il barbiere di Siviglia, 05/12/2020] resterà nella memoria facilmente come la miglior produzione operistica in pandemia e non perché non si siano viste e sentite altre recite eccellenti, ma perché questo Rossini ha saputo andare oltre il far di necessità virtù e - fra mascherine, cavi che letteralmente legano il teatro, corse in moto per la città in quarantena, costumi cambiati a vista mostrando il dietro le quinte - ha esposto in linguaggio televisivo un meraviglioso inno al teatro, immerso nell'attualità e legato alla tradizione. Il crepuscolo dei sogni [Streaming da Palermo, Il crepuscolo dei sogni, 26/01/2021] ideato da Omer Meir Wellber (direttore, pianista, fisarmonicista, cantante e anche ballerino) e Johannes Erath è, invece, un'invenzione originale in cui lo spazio vissuto e frammenti di musica compongono una drammaturgia tutta psicologica, immediata e profonda, compatta e molteplice, in piena continuità con una programmazione (basti pensare al concerto di capodanno sempre trasmesso dal Massimo) che sfrutta il medium come parte integrante di un messaggio di inclusione e confronto.

D'altro canto, la Scala aveva pure detto la sua seguendo la via della grandiosità nei quadri di A riveder le stelle [Milano, A riveder le stelle - versione integrale, 07/12/2020], mentre chi ha meno mezzi ma non meno entusiasmo lo ha espresso in altre vesti: Novara ha scelto la commedia surreale e interattiva per un'opera nuova in smart working [On line da Novara, Alienati, 02/06/2020], la rete Lirica Marche ha affidato a Cecilia Ligorio e Benedetto Sicca un "video poema musicale", Il tempo ritrovato, che invece si concentra sul senso dell'assenza e delle vite interrotte.

Per me, le Marche rappresentano un simbolo di questo tempo sospeso. Poco meno di un anno fa l'inizio dell'incubo (non è retorica, per chi ricorda bene la scorsa primavera) corrispondeva all'attesa incerta di una trasferta, irrealizzata, per il compleanno di Rossini a Pesaro, per L'italiana in Algeri prevista a Fano. Poi, il ritorno all'opera allo Sferisterio [Macerata, Don Giovanni, 18/07/2020] e a Pesaro [Pesaro, Giovanna d'Arco e La cambiale di matrimonio, 08/08/2020]. Poi, in piena chiusura autunnale, un'appendice del Rof [Streaming da Pesaro, Il barbiere di Siviglia, 25/11/2020] nata come riscatto e, invece, ancora costretta in streaming - mentre in Lombardia, a Bergamo, la presenza era insperata ma anche straziante per quell'essere gli unici spettatori ammessi [Bergamo, Belisario, 19/11/2020]. Le Marche sono anche una regione particolare: una densità altissima di teatri storici, Rossini e Pergolesi, il castrato Cusanino e Franco Corelli, il Rof e lo Sferisterio in un territorio che non ha mai avuto la centralità politica di Roma, Firenze, Milano, Napoli o Venezia. Questa strana condizione di provincia da un lato (non sia detto in senso dispregiativo, ma per la prevalenza netta di centri medio piccoli) e di culla fertilissima di talenti e realtà presenta pro e contro inevitabili, inviti alla cooperazione, tentazioni di competizione, quantomeno. Anche per questo, fra tanti dibattiti, risulta particolarmente interessante quello intitolato La lirica nella rete: novità, déjà-vu e prospettive e moderato da Angelo Foletto con Igor Giostra (presidente della Rete Lirica delle Marche), Carlo Fontana (presidente dell’Agis), con Fabio Vittorini, Sicca, Ligorio e Luciano Messi (sovrintendente del Macerata Opera Festival). Interessante in primo luogo perché non si impone ma vuole essere realisticamente propositivo e così facendo mette a fuoco questioni nodali ben più di tanti attacchi frontali alle misure d’emergenza.

Diciamocelo, invece: dall’emergenza dovremmo cercare di imparare. Per esempio, è un dato di fatto positivo che si siano attivate tante soluzioni di cui si sentiva parlare senza che nessuno si decidesse a concretizzarle, come le ricette mediche digitali. In un mondo come quello della musica e del teatro in cui problemi strutturali atavici si scontravano con un non meno atavico individualismo, fa piacere notare che associazioni di settore (come recentemente hanno dimostrato Assolirica, OMAI, Ariacs e AEAA) abbiano saputo far fronte comune per i diritti dei lavoratori, esattamente come con Anfols si sia arrivati a protocolli utili alla riapertura estiva delle attività per il pubblico. Speriamo che sia un punto di partenza per rinnovamenti seri che non cedano a sirene ipocrite e opportunistiche che gridando allo scandalo cercano nuove strade per i propri interessi. Perché, diciamocelo, di fuffa in giro ce n’è tanta, ma proprio per questo è importante partire dai contenuti e dai valori, senza temere che non facciano audience, o credere che sia meglio avere un personaggio da salotto tv di un musicista preparato, o che osare con intelligenza possa allontanare il pubblico abituato all’eterno ritorno dell’eguale o agli slogan pubblicitari. Come ha evidenziato Angelo Foletto, in questi giorni i riflettori si sono comunque accesi, Amazon ha perfino creato per i libri una categoria specifica "Opera", segno di un interesse crescente per la materia: la voce degli artisti si è levata, ora non resta che far buon uso dell'attenzione giustamente reclamata, per riaprire e per rimanere aperti, vivi, creativi.

Né bisogna temere la tecnologia, che deve invece essere compresa e utilizzata per quello che è, uno strumento che come tale può e deve potenziare, non anestetizzare l’espressione artistica. Su un punto gli interlocutori marchigiano sono chiarissimi e pensiamo che nessuno possa dissentire: ben vengano piattaforme sul tipo di ARTE, che trasmettono spettacoli ma producono anche contenuti originali. Rai5 e Raiplay potrebbero seguire questo modello, mentre del tutto inutile pare la scatola ItsArt, detta anche “Netflix della cultura”, inutile e dannosa se è vero che potrebbe succhiare parte del già insufficiente Fondo Unico per lo Spettacolo. Chiunque sia il nuovo ministro della Cultura, speriamo che accantoni definitivamente ItsArt e crei un tavolo di confronto e progettazione serio per il comparto dello spettacolo dal vivo. Allora, in un settore sano, attivo, propositivo, anche gli streaming potranno essere un'arma in più: di diffusione e divulgazione, ma anche di creazione originale. 

C'è bisogno, drammaticamente bisogno di cultura: cultura del dialogo e della competenza, cultura della logica e del senso critico. Ma perché lo spettacolo dal vivo ne sia il fuoco, come sarebbe nella sua natura, c'è bisogno non di riempire bocca e tastiere di proclami autoreferenziali, ma di rimboccarci le maniche. Bisogna dare il buon esempio, fare proposte, non ingaggiare una guerra fra poveri, ma essere un collante di solidarietà. 

C'è bisogno anche di cultura della responsabilità: non dobbiamo sfondare a tutti i costi la porta sbarrata ma ingegnarci per riaprirla senza danni e per essere pronti una volta eliminate le barriere, perché c'è molto da costruire, da comunicare, da recuperare e proseguire.

Il dibattito non è che all'inizio.