di Roberta Pedrotti
Il passaggio televisivo del film di Damiano Michieletto dall'opera di Puccini riapre il discorso sull'identità e l'estetica del genere cinemelodrammatico con un risultato per molti versi eccellente e alcuni elementi interlocutori.
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I film opera nascono prima del cinema sonoro. Sembra un controsenso, ma la settima arte è subito melodrammatica per soggetti e modalità espressive, le trame operistiche più note sono perfette anche sul piano pubblicitario: basta che pianisti o ensemble che accompagnano la proiezione elaborino i temi di arie, duetti, sinfonie e il gioco è fatto. Con il sonoro tutto sembra poter diventare più semplice, si girano film opera per le sale e per la televisione, cambiano gusti e tecnologie, ma soprattutto ormai il cinema ha preso la sua strada autonoma (o le sue strade) e non sempre i due linguaggi riescono a combinarsi bene. L'opera è spettacolo dal vivo, il film opera è altra cosa che cerca di continuo la propria identità per non essere un ibrido claudicante.
La chiusura dei teatri per la pandemia ha, ovviamente, imposto di ripensare al rapporto fra opera e telecamere. Riprese in sala pure e semplici, produzioni più elaborate in rapporto al medium, veri e propri film. Abbiamo avuto quel meraviglioso testamento artistico che è stata la Zaide a porte chiuse firmata da Graham Vick a Como dalla stessa produzione presentata al pubblico poche settimane prima a Roma. Abbiamo avuto la commovente creazione multimediale del Crepuscolo dei sogni a Palermo grazie a Omer Meir Wellber e Johannes Erath. Abbiamo avuto il meraviglioso Barbiere di Siviglia nel teatro legato con Mario Martone e Daniele Gatti, cui ha fatto seguito La traviata, sempre film girato interamente in teatro. Abbiamo ora un film vero e proprio, Gianni Schicchi di Damiano Michieletto dall'opera di Puccini.
Il tempo non mancava per dedicarsi a progetti poco compatibili con la normale attività teatrale, così si è tornati al film opera vero e proprio e ci si è concesso anche qualche lusso nell'assortimento del parentado di Buoso Donati. Gli artisti non sanno star fermi. L'opera, checché se ne dica, mantiene da quattrocento anni la sua indomita vitalità, che trabocca anche in rivoli laterali, com'è questo cinematografico.
Da dove si comincia a parlare di un film opera? Già l'opera vera e propria in teatro è un insieme di elementi inscindibili fra i quali, di volta in volta, può emergere un aspetto; sul grande e piccolo schermo le cose si complicano ulteriormente. Il regista assume in toto il ruolo di demiurgo e bisogna dire che Damiano Michieletto lo sa fare assai bene con le sue qualità teatrali: tutti recitano al meglio, senza mai un gesto gratuito (se qualcosa è sopra le righe è chiaro che è così perchè lo deve essere nell'equilibrio generale), lo fanno come sul palco, reggendo perfettamente il primo piano e la parcellizzazione del dettaglio nell'inquadratura. I personaggi sono ben definiti e sviluppano con naturalezza i ritrattini ben tratteggiati da Buoso Donati nel prologo. Infatti, la sceneggiatura dà spazio all'antefatto, con Giancarlo Giannini nei panni del defunto che parla di sé e della sua bella famiglia: ci sta, nel film, e aiuta a destreggiarci in quella che non deve essere una massa indistinta di petulanti avvoltoi intorno a una salma inerme. La drammaturgia, poi, regge benissimo, senza trascurar nulla del testo (vediamo perfino da una finestra i paramedici che trasportano in barella il “moro battezzato del signor capitano”), concentrata nella villa in campagna di Buoso, arricchitosi come collezionista e mercante d'arte, tutto l'opposto per cultura e anticonformismo rispetto al parentado. Unità teatrale di luogo, movimento cinematografico di ambienti, che amplificano con dettagli altrimenti difficili da mostrare un'idea che sul palcoscenico funzionerebbe comunque benissimo. Soprattutto nelle prime scene, però, il movimento della camera, la fotografia sembrano indulgere in ricercatezze al limite del manierismo, come un'evoluzione moderna della linea tracciata dal dinamismo (a volte estremo) di inquadrature, primi piani e soggettive dei film di Ponnelle. Michieletto è un grande regista, ma come cineasta è ancora alle prime armi, o comunque in un ambito diverso dal suo d'elezione. Poi, tutto acquista fluidità, si prende confidenza con la cifra estetica del film, si associano alle scelte visive – cambi repentini di scena e di luce – i contrasti propri della partitura, che la bacchetta di Stefano Montanari non porta mai in primo piano. L'orchestra del Comunale di Bologna suona bene (e lo si sente più dalla piattaforma Raiplay che dalla trasmissione di Rai1, solito problema della compressione audio televisiva), ma resta sullo sfondo più che motore drammaturgico. D'altra parte, in un film opera i parametri sono diversi rispetto a una recita teatrale perché diversi sono i rapporti. Come nelle colonne sonore (e chi ricorda, agli esordi, i patemi di Mascagni alle prese son la novità? O la condizione di chi deve dirigere accompagnando una proiezione?) si devono tener presenti riferimenti diversi e diverse necessità. Maggiore libertà visiva condiziona facilmente tempi e respiri musicali, sicché, per esempio, il gioco di sguardi e il frugare curioso nella ricerca del testamento prendono il posto di quell'ansia compulsiva (e un po' grottesca) che in teatro ci aspettiamo montare dalla buca. La parola d'ordine sembra, insomma, accompagnare con garbo e misura dalla seconda linea. Questo, in fondo, è il punto: comprendere e maturare i codici di un genere che è sia cinema (o tv) sia opera, ma non è esattamente né l'uno né l'altra e non deve, quindi,essere giudicato con il metro esatto dell'uno o dell'altra. D'altra parte, in questa comprensione e maturazione rientra anche il nodo fondamentale di una “colonna sonora” che, come nel florido e consolidato musical cinematografico è molto più di una colonna sonora. Il film di Michieletto funziona benissimo e offre un'ottima risposta agli interrogativi sull'identità del genere cine operistico alle soglie del 2022. Domande ancora aperte, però, per un filone complesso e quantomai soggetto a evoluzioni di tecnica (ottima cosa, qui, il canto in presa diretta), di gusto e prospettive. L'annoso quesito "prima la musica o le parole" si ripropone in questo caso come "prima la musica o le immagini", sebbene la sostanza resti un pretesto per un gioco eterno di relazioni in cui non c'è una reale predominanza dell'una o delle altre, solo un'espressione, un equilibrio mutevole secondo estetiche differenti.
Il discorso, ovvio, vale anche per i cantanti, che sono sempre attori, ma in modo diverso. Recitare sulla scena o davanti a una macchina da presa è lo stesso mestiere, tuttavia è differente, si canti o meno, anche se pure nel canto alcuni aspetti (intenzione, accento) acquistano un peso maggiore rispetto ad altri (proiezione, colore, dinamiche). Bisogna dire che tutti si adattano benissimo alla situazione e sfoderano mimica azzeccatissima – bravi loro e bravo Michieletto – e recitar cantando ben calibrato, tanto che dispiace un po' che si vogliano inserire i sottotitoli quando, se si presta attenzione, non si perde una parola. Per il grande pubblico, però, è rassicurante, quindi va bene così. All'orecchio del melomane balzerà senz'altro qualche limite, ed essendo film ma anche opera una certa qual tensione nell'emissione di Vincenzo Costanzo (Rinuccio) si nota, così come il fatto che la Lauretta di Federica Guida risulti un po' palliduccia, mentre le rughe vocali di Giacomo Prestia non disdicono al vecchio Simone già podestà di Fucecchio, scafato uomo di potere. D'altra parte, chi è avvezzo a tanti Schicchi non potrà non apprezzare che Spinelloccio e Amantio siano lontani mille miglia dalla macchietta o che Gherardino sia un vero personaggio, bimbetto grassoccio cresciuto a videogame, osservatore distaccato dell'ipocrisia e del cinismo degli adulti. Le donne di casa Donati sono assortite benissimo, con la bulimica, ansiosa Nella di Caterina di Tonno, la Zita sofisticata, acida, snob di una favolosa Manuela Custer, la Ciesca di gran classe di Veronica Simeoni, ambigua, ambiziosa, tutta silenzi e sibili sibillini. Bruno Taddia esalta Betto – troppe volte il parente più opaco – come un personaggio che sembra uscito da Amici miei, spiantato frequentatore di bar in attesa della svolta per fare la bella vita. Marcello Nardis è lo sgargiante Gherardo, degno complemento di una famiglia allegramente disagiata, Roberto Maietta un Marco tontolone oscurato dalla determinata consorte. E poi, ovvio, c'è Roberto Frontali, un Gianni Schicchi che verrà anche dal contado, ma ha una signorilità borghese che i riccastri fiorentini si sognano. D'altra parte, se deve essere così bravo a farla franca, deve avere dignità e rispettabilità, non essere solo un simpatico istrione. Nessun fiorentinismo piacione, nessun accento sopra le righe: sa farsi rispettare, recita da grande, con parrucca e trucco che lo rendono sosia quasi perfetto di Giannini/Buoso, mentre al resto pensa l'aerosol per coprire il volto e avvolgerlo in una nebbiolina.
Alla fine, l'unica licenza sembra essere il congedo declamato proprio da Buoso. La cosa ha senso perché chiude il cerchio aperto con il prologo parlato: il caro estinto dall'aldilà ci ha mostrato la disputa sul suo testamento dopo averne illustrato l'antefatto e si dichiara soddisfatto dell'epilogo. Resta, però, un piccolo dubbio: cambiando interlocutore, si aggiusta con "i miei quattrini" e “per questa bizzarria m'han gettato all'inferno", tuttavia par di intendere "concedetemi voi l'attenuante". Che attenuante eventuali potremmo concedere al vecchio Buoso? Forse non si riferisce al giudizio ultraterreno, ma alla rabbia dei diseredati? Chissà... però il fantasma del vecchio padrone di casa a osservare nonno Schicchi con figlia, genero e nipotina è senz'altro una chiusa efficace.
I titoli di coda ci riportano alla realtà: cantanti, direttore, regista, dietro le quinte allegri e frenetici come in teatro, ma con operatori, tecnici e tutto l'armamentario della settima arte. Con gesto meta-cine-teatrale Buoso aveva subito fatto notare che nella sua villa stavano “girando un film”. Il teatro, il cinema, la vita, non son la stessa cosa, o forse un po' lo sono, ciascuno con il suo codice e il suo linguaggio che non è detto non possano mescolarsi.