A cento anni dalla nascita, un ricordo dell'artista, tanto straordinaria nel talento quanto sfortunata nella vita. E di quella volta in cui, sole in una stanza a casa di Rock Hudson, si mise a cantare con Marilyn Horne.
"In qualche luogo, dove non ci sono problemi, lontano lontano, dietro la luna, oltre la pioggia…Da qualche parte, oltre l’arcobaleno, lassù in alto, c’è un paese di cui ho sentito parlare una volta, in una ninna-nanna. Da qualche parte, oltre l’arcobaleno,i cieli sono azzurri, e i sogni che osi sognare si realizzano davvero…".Una ragazzina (in realtà una sedicenne) sogna che da qualche parte la felicità ci sia; e intanto guarda il cielo con i suoi bellissimi occhi scuri, incredibilmente ricchi di pensiero. La canzone Over the Rainbow, di Harold Arlen e E. YipHartburg, è il momento musicale più bello del film Il mago di Oz, tratto da una favola pubblicata nel 1900 e popolarissima negli Stati Uniti. A rendere Judy Garland nota al pubblico americano non è però questo celeberrimo film; già altri otto l’hanno vista impegnata a ballare, cantare, provare, girare, rigirare, presenziare alle prime. Tutta la sua vita viene dominata dalle esigenze dello show business.
Frances Ethel Gumm nasce a Grand Rapids nel Minnesota, terza delle tre figlie femmine di Ethel Milne – aspirante diva – e di Frank Gumm, tenore, il 10 giugno 1922. La coppia canta e balla in continue tournée nel vaudeville di provincia e “Baby Frances” o “Baby Gumm” (che diventerà Judy Garland nel ’34) si unisce occasionalmente a loro da quando ha solo due anni. Terribile esempio di “madre da palcoscenico”, Ethel non tarda a concentrare tutta la sua furiosa ambizione sulla figlia minore, spesso sottraendola al padre e alle sorelline per spingerla a esibirsi in caffè, teatrini, squallidi palcoscenici di burlesque. Se la bambina disobbedisce, Ethel finge di abbandonarla e la lascia sola per ore a piangere e disperarsi nella stanza d’albergo. Davanti alla isterica determinazione con cui Ethel vuole il successo per sua figlia poco può fare il rispettivo marito e padre. “Ero sempre sola”, ricorda Judy in quasi tutte le interviste. “le sole occasioni in cui mi sentivo accettata o voluta erano quando mi esibivo in scena. Il palcoscenico era il mio solo amico, il solo posto dove mi sentivo a mio agio; dove diventavo come tutti gli altri e mi sentivo sicura”. Ha solo dodici anni ma canta e balla con tanta verve che un agente di Hollywood intuisce il suo talento e riesce a presentarla a Louis B. Mayer, il megagalattico fondatore e presidente della Metro-Goldwyn-Meyer. Meyer si vanta di essere padre e amico dei suoi “sottoposti” e a tutti presenta Judy come “la mia gobbetta”, per sottolineare il processo di creazione al quale ha sottoposto la piccola e goffa entertainer a partire dalla firma del contratto.
Nel 1958 la giovane Oriana Fallaci pubblica il suo primo libro, I sette peccati di Hollywood, in cui svela alcuni inconfessabili segreti dello star system e racconta la dura galera dell’attrice bambina Garland. Tutto il tempo di Judy è preso dalle esigenze dello show business: lezioni di canto, di danza, sedute di trucco e parrucchiere interminabili, audizioni, prove, ancora prove, riprese. Il sonno e la veglia sono scanditi da farmaci – benzedrina, dexedrina, seconal; il corpo preadolescenziale, paffutello, è messo a feroce dieta, solo minestra di pollo e caffè nero, con anfetamine per controllare l’appetito. Né sua madre, né il personale degli studios hanno una parola di complicità o di compassione.
Otto film e poi, si è detto, il trionfo nella favola arcinota in America, Il mago di Oz – in cui un cagnolino minacciato di morte, un tornado, una strega malvagia, due scarpette rosse e simpatici personaggi “pinocchieschi” circondano la protagonista. Semplice, ingenua, coraggiosa, Dorothy entra nel gotha delle fantasie infantili, accanto alla Biancaneve disneyana che è di due anni prima. Con quel film Judy diventa per Mayer una proprietà che “scotta”, su cui capitalizzare, e la scelta di ogni nuovo lavoro sarà sempre una violenza alla volontà della giovane interprete, che vuole crescere e sperimentare; mentre il suo dittatore, e mamma Ethel dietro di lui, vogliono preservare l’immagine rural-infantile della ragazzina. Ecco dunque una serie di sette film girati accanto a Mickey Rooney – anche lui incastrato in un personaggio adolescenziale e buonista. E se il cinema presenta bellezze indiscutibili come Hedy Lamarr e Lana Turner, a Judy viene fatto dolorosamente sentire di non essere una maggiorata. È infatti bruttina, secondo i canoni hollywoodiani. Ma il suo primo amore è con Artie Shaw, il clarinettista e musicista jazz più glamorous dell’epoca; nel 1940 ha una love story più importante, addirittura con Tyrone Power. Mayer mette subito fine a questi incontri con tutti i suoi potenti mezzi. L’anno seguente Judy sposa il band leader David Rose; ma non è una soluzione che possa renderla felice; anche perché, quando scopre di aspettare un bambino è sua madre la prima a convincerla a sottoporsi a un’interruzione di gravidanza. Deve lavorare, la aspettano successi come For me and myGal, Girl Crazy, Meet me in St. Louis, in cui i suoi talenti e la sua personalità risplendono; se è stremata, se è depressa, ci sono le pasticche adatte. Anche Vincente Minnelli, il regista di origini italiane che sembra l’uomo ideale per lei, si rivela egoista, privo di comprensione per le crisi e l’infelicità di Judy. Si sposano nel 1945, ed è Louis B. Mayer ad accompagnare la sposa alla cerimonia civile. Nel ’46 nasce la figlia Liza, un parto difficile che stronca il fisico già cagionevole della nostra artista.
Presto lei si imbarca in diverse relazioni con altri uomini. La più importante è quella con Orson Welles, che per lei tradisce Rita Hayworth. Resteranno amici per sempre. Un film recente racconta di un progetto cinematografico Welles-Garland del 1945 che non riesce a concretarsi per l’opposizione degli studios e forse per la vastità della sua ambizione - una sorta di “madre di tutti i musicals”. Sarà vero? La tempestosa vita sentimentale di Judy includerà interludi travolgenti con il regista Joe Mankiewicz, con Yul Brinner, con Frank Sinatra. Ma va dato atto al marito Minnelli di avere contribuito all’evoluzione del “topolino” irrequieto in una donna affascinante, con tutti i mezzi di cui Hollywood dispone. Soprattutto incoraggia un’ulteriore trasformazione della Garland: da eccellente cantante e ballerina, che tiene testa a Fred Astaire e a Gene Kelly, ad attrice intensa, a partire dal film The Clock, in cui non canta. Torna a cantare in The Harvey Girls, The Pirate, Easter Parade (strepitosa, irresistibile), Summer Stock: titoli che costituiscono il gotha di quell’americanissimo genere che è il film musicale. Gershwin, Irving Berlin, Kurt Weill, Rodgers and Hammerstein, Arlen & Mercer firmano musiche che hanno in Judy Garland un’interprete iconica, forse insuperata.
Oggi è agevole valutare la grande voce, oltre che nei film, in una vasta discografia, tutta ristampata e accessibile. Fino dalla prima adolescenza il suo strumento si estende per due ottave e una terza, la tessitura va dal MI3 al SIbem 4; il registro grave è scuro e maturo (in Old Man River tocca il RE3); il registro centrale sembra onnipotente, anche negli ultimi anni; quando satireggia il canto operistico toccail SOL 5, con abile uso del registro di testa (si ascolti il finale di On the Sunny Side of the Street). L’interprete sa utilizzare con intelligenza e maturità vibrato e glissandi. È mezzosoprano, è contralto? Se ne discute con passione in molti testi biografici e sul web. All’ingresso nella MGM ha la fortuna di incontrare un ottimo coach vocale, Roger Edens, che la addestra contemporaneamente all’autocontrollo e allo scavo emotivo. “È lui che mi ha insegnato a ‘sentire’ una canzone”, dirà Judy. Negli anni di guerra viene presa sotto l’ala da Kay Thompson, grande cantante swing e jazz, che le farà anche da madre al posto della ingestibile Ethel Gumm. In Meet me in St. Louis Judy canta “Have Yourself a Merry Little Christmas” in chiaro stile Thompson.
Nel ’51 parte la grande carriera concertistica, nei teatri e negli auditorium radiofonici. La organizza l’agente Sidney Luft, che diventa terzo marito di Judy e padre dei suoi altri figli Lorna e Joey. Con il ritorno alle esibizioni in palcoscenico nasce il “culto Garland”: ammiratori superdevoti, fanatici, che nelle sue interpretazioni sentono una disperata richiesta di affetto e di amore. La seguono ovunque possono, trasformano i loro appartamenti in “Musei Garland”. Quando a fine gennaio ’51 Judy si trascina a fatica agli studi CBS di Los Angeles, dove si sta per svolgere il Bing Crosby Show, tra gli spettatori c’è anche James Dean ventenne, entrato senza pagare il biglietto; resta folgorato, e anche ispirato a diventare “qualcuno”. È da quell’anno che inizia la love story di Judy Garland con il pubblico londinese. La salute della nostra artista, che da anni avrebbe bisogno di drastiche disintossicazioni, prende un andamento ciclicamente disastroso: anoressia, bulimia, epatite, problemi renali e del colon, depressioni, astenia grave.
Giunge così l’ora del film È nata una stella, girato nel 1953, che già dal titolo segna il punto di non ritorno della grande carriera. Per qualche miracolo l’abuso costante di sigarette, caffè, alcool, anfetamine e pesanti sonniferi non ha danneggiato la sua straordinaria voce. Si butta sui numeri del suo personaggio con incredibile energia e “canna vocale”. Al timone della regìa c’è George Cukor che la filma in The One that Got Away in un’unica ripresa senza tagli. Sa che Judy può farcela. Al vertice dei suoi trionfi in teatro c’è lo storico concerto alla Carnegie Hall di New York dell’aprile ’61. Eli Wallach, Anthony Perkins, Lauren Bacall, Henry Fonda ne parleranno a lungo come di un’esperienza indimenticabile. Alla fine Leonard Bernstein urla a squarciagola con le lacrime giù per le guance; tutto il pubblico, in massa, tenta di salire sul palcoscenico; Rock Hudson solleva Lorna e Joey e li affida alle braccia della madre.
In quell’anno Judy ha una piccola parte nel film Judgementat Nuremberg/ Vincitori e Vinti, con la regia di Stanley Kramer. Il suo personaggio è una vinta che esige giustizia; quindici anni prima del processo di Norimberga il governo nazista l’ha imprigionata e deportata con l’accusa di avere avuto rapporti intimi con un ebreo, di avere “profanato la razza”. Viene informata che ci sono le prove che i rapporti non sono stati platonici, e deve ritirarsi dal tribunale umiliata e sconfitta. L’episodio denuncia il puritanesimo degli sceneggiatori e dei pubblici dell’epoca, a Hollywood e altrove; e curiosamente viene riportato sempre da redattori e critici del cinema in termini inesatti. Più importante la sua partecipazione alla struggente storia di A Child is waiting, in cui è insegnante di un gruppo di bambini con handicap mentali. Qualche anno prima, in una clinica in cui aveva dovuto ricoverarsi per un grave esaurimento nervoso, cantare canzoni e leggere storie a bambini disabili, consolando la loro paura di essere abbandonati, era stata la “cura” escogitatada uno psichiatria lungimirante. Nel film lei ritrova quei sentimenti e la sua performance è straordinaria.
C’è la testimonianza, non credo mai tradotta in italiano, di un’altra grande cantante, Marilyn Horne, che nella prima metà degli anni ’60 abita a Los Angeles con il marito, il direttore Henry Lewis. La coppia entra per breve tempo nel giro dei party hollywoodiani. A una festadata da Rock Hudson in onore di Grace e Ranieri di Monaco, Marilyn ammira i due Grimaldi, Henry Fonda, George Peppard. “Ma chi mi ha emozionato di più è stata Judy Garland, come comprenderanno tutti gli appartenenti alla mia generazione di cinefili. Era lei il motivo principale per cui, in Pennsylvania, avevo passato i pomeriggi di sabato al cinema! Mi addolora quando la Judy degli ultimi anni, piena di pasticche e alcool, viene identificata con quella bella e vivace ragazza che vedevo sullo schermo. Judy Garland è stata una grandissima entertainer, inavvicinabile nello spettacolo popolare quanto il soprano tedesco Lotte Lehmann lo è stata nel classico. Come la Lehmann, Judy cantava le parole con tale significato e colorito che ti commuovevi e in più era una straordinaria attrice. Judy ti toccava il cuore; e la sua vulnerabilità l’ha resa cara al pubblico prima di renderla ingovernabile. L’ho adorata. A quella festa me la trovo davanti, stupenda in un vestito di velluto rosso con guarnizioni di visone all’ampia scollatura e ai polsi. Aveva avuto così tanti “alti e bassi” di peso, di stato d’animo e di carriera che non si sapeva mai come sarebbe stata fisicamente, ma quella sera è raggiante. Gli altri ospiti insinuano che ha saccheggiato l’armadietto dei medicinali in bagno, come ha la reputazione di fare. In quella particolare serata mi trovo spesso con un bicchiere in mano; finchè non mi accoccolo sul pavimento della stanza degli ospiti, dondolandomi e canticchiando. Si apre la porta, entra Judy Garland e viene a sedersi accanto a me. 'Ciao', dice con voce strascicata - o forse sono io che ho l’udito sfocato? 'Tu sei la cantante d’opera, vero? Be’, anch’io sono cantante, e allora cantiamo!' E così facciamo. Abbracciate una all’altra, Judy Garland e Marilyn Horne intonano medley dopo medley di canzoni celebri, non per un pubblico ma per se stesse. Gershwin, Porter, Kern, Youmans, li cantiamo tutti, e Judy non si sorprende affatto che io conosca tutte le parole. Ogni tanto fa cenno di tacere e snocciola un ritornello di insulti a Louis B. Mayer…Cantiamo insieme per qualche ora, e, incredibile ma vero, in chiave di basso! Quando Henry mi ritrova, ho il mascara sgocciolante già per le guance e ho perso una delle mie ciglia finte da qualche parte nella casa di Rock Hudson. Io e Judy ci giuriamo eterna amicizia e mio marito mi riporta a casa. Ripensando il giorno dopo a come ho bevuto e cosa accade a una persona piena di talento e fascino come Judy Garland, mi sento male. Una artista deve essere in controllo di se stessa, per cui quel giorno giuro lì per lì di stare lontana dai liquori, e quel voto l’ho mantenuto”.
Ma negli anni ’60 è il pubblico di Londra e del Regno Unito che la accoglie più frequentemente. Ora gonfia, ora scheletrica, ora confusa, ora estroversa nel dialogo con gli ascoltatori: molte Judy sfilano davanti a quel pubblico che quasi sempre la adora. Allo sfacelo fisico, al quale altri mariti e altri compagni non sanno o non vogliono portare soccorso, si contrappone miracolosamente una forma vocale se non intatta ancora personale e affascinante. Fissa lo sguardo – quei magnetici occhi scurissimi che hanno sempre l’appello pensoso di Dorothy – su uno spettatore e dà l’impressione di cantare solo per lui; poi gli chiede il suo parere su come ha cantato, scherza sul proprio aspetto fisico, ricorda momenti del passato.
Sarebbe da prevedere che, nel girare il suo ultimo film, tutte le canzoni debbano essere registrate in studio, onde correggere ogni tipo di défaillance mentale e vocale. Ma inI Could Go on Singing, che è del ’63, Judy Garland canta"It Never Was You" di Kurt Weill dal vivo sul set. Le tournées continuano, con grande sforzo e molte inadempienze dovute a collassi totali. Abbiamo la registrazione su nastro del suo ultimo Over the Rainbow, pochi mesi prima della sua morte – a quarantasette anni, in un albergo di Londra - che ci dà interamente “l’effetto Garland”. Lei diceva: “Cerco di portare ai miei ascoltatori le loro emozioni – le lacrime e le risate che conoscono bene”.