Amaro, ipocrita, tragico

di Luca Fialdini

Mozart e Da Ponte sembrano farla da padrone nell'autunno dei teatri italiani, fra Don Giovanni a Pisa, nel circuito lombardo e a Torino e l'intera trilogia a Ravenna. È l'occasione per riflettere sui finali delle tre opere.

Le opere della trilogia italiana firmata dal binomio Mozart/Da Ponte – Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte – sono ricche di ambiguità, sottili sentieri tracciati ora dall’umorismo ora dall’intenzione di infondere nella scena la possibilità di livelli di lettura sovrapposti: è un gesto elegante, in cui nulla è nascosto ma appena messo in ombra da un leggerissimo velo. Per quanto minima questa azione comporta che a volte si perdano sfumature se non addirittura effettivi messaggi volti a esplicitare le intenzioni degli autori.

Un caso interessante è costituito dai finali delle tre opere, momenti particolarmente ingannevoli: Mozart non solo non rinuncia al «finale lieto» di tradizione comica ma lo piega alle proprie esigenze fino a trasfigurarne il significato in uno di segno opposto alle aspettative. Nel teatro di Mozart regnano ambiguità e giochi di specchi, geometrie non euclidee dal forte significato drammaturgico che per essere comprese non hanno bisogno di altro all’infuori degli indizi così accortamente confezionati da librettista e compositore.

Le nozze di Figaro, il finale amaro

Il finale delle Nozze di Figaro è quello più sottile e dall’interpretazione meno immediata rispetto agli altri due, il carattere di festosa travolgenza con tanto di fuochi d’artificio (negli archi, terzine di sedicesimi seguite da due semiminime) dissimula ammirevolmente l’effettivo significato della pagina. Anche il testo sembra puntare in una direzione univoca: «Questo giorno di tormenti,/di capricci e di follia,/ in contenti e in allegria/solo Amor può terminar./Sposi, amici, al ballo! al gioco!/Alle mine date fuoco,/ed al suon di lieta marcia/corriam tutti a festeggiar». Ebbene, in questo frangente Mozart tesse una serie di gesti orchestrali che mettono seriamente in dubbio la veridicità di quanto viene cantato e per comprenderne la portata è necessario fare un passo indietro alla conclusione di Contessa, perdono: scena di sublime perdono che fa commuovere anche le pietre, ma che viene di fatto smentita dal commento corale «Ah! Tutti contenti/saremo così» in cui ci si aspetterebbe che l’orchestra affermasse qualcosa mentre si limita a un vagare di arpeggi dei violini mentre gli altri strumenti non combinano nulla di solido in un ambito di sol maggiore. Concluso questo – splendido – momento, ancora una volta Mozart nega una qualsivoglia formula affermativa che possa assomigliare a “e vissero per sempre felici e contenti” preferendo proporre una serie di diadi degli archi, poi armonizzate da oboi e flauto, in cui misteriosamente modula da sol maggiore a re maggiore (ed è misterioso davvero, dato che la settima di dominante non ha la fondamentale) in un procedere sommesso e ambiguo, come se l’orchestra stessa domandasse: «Ma sarà vero?». La risposta è no e arriva insieme alla tonalità di re maggiore, il cui ingresso si fa attendere: dopo un pedale di dominante e un inatteso passaggio a re minore (quante ambiguità!), in corrispondenza della parola «contenti» si arriva finalmente al luminoso re maggiore che sembra confermare il lieto fine… se non fosse che proprio re maggiore è la tonalità d’impianto dell’Overture, il cui carattere viene ripreso dai brillanti passaggi di crome in piano dopo «foco». Il significato di questa conclusione ciclica dell’opera è evidente: la folle giornata non è finita, Amore non regna in tutti i cuori. Peraltro nell’ultimo capitolo della Trilogia di Figaro di Beaumarchais, La madre colpevole, scopriamo che effettivamente il Conte non ha cambiato vita e ha una figlia illegittima di nome Florestina, la Contessa ha avuto a sua volta avuto un figlio da Cherubino e che quest’ultimo, vedendosi respinto dalla Contessa d’Almaviva, ha scelto la morte in guerra: il lieto fine è un’illusione.

Don Giovanni, il finale ipocrita

I due brani successivi, vale a dire i finali di Don Giovanni e di Così fan tutte, sono assai più espliciti e il libretto stesso è sufficiente per farsi un’idea abbastanza precisa di dove si vuole andare a parare. Saltando a piè pari la querelle sul taglio viennese, che esula nettamente dagli interessi di queste pagine, è interessante concentrarsi sull’effettivo finale del Dissoluto punito, il vituperato «Ah, dov’è il perfido» e in particolare su «Questo è il fin di chi fa mal». È pacifico che questo finale non sia particolarmente amato, anche perché qualunque cosa venga dopo la scena del Commendatore si trova coinvolta in un confronto impari, tuttavia il “problema” di questo numero non è musicale ma drammaturgico: non ci appare convincente non tanto perché preceduto da una scena straordinaria ma perché manca Don Giovanni. È questo uno di quei rari titoli, come Madama Butterfly, il cui tutta la situazione si regge solo ed esclusivamente sul protagonista; i personaggi di contorno sono sì importanti ma non fondamentali nell’economia dell’opera tanto che la storia non perderebbe il suo significato se si parlasse solo del libertino (come in effetti avveniva nelle primissime versioni del mito, quando Don Giovanni Tenorio si chiamava ancora Leonzio).

In breve, quel che si percepisce è la vacuità di un tessuto drammaturgico che ha perso il proprio elemento unificante, un accurato calcolo di Mozart e Da Ponte che impiegano questo frangente per scoprire le carte. Nel corso dell’opera non manca un approfondimento psicologico dei vari personaggi, ma la figura di Don Giovanni permea il melodramma a tal punto che tutti gli altri devono accontentarsi di spazi limitati e di scavi sulla propria personalità relativamente superficiali e quel che lo spettatore può dedurre va poco oltre l’impressione o il dubbio, anche per il trattamento che lo stesso Mozart riserva a ciascun personaggio: ad esempio non sembra avere particolare stima di Don Ottavio, ma a questi affida alcuni momenti di grande intensità patetica. Ogni dubbio viene dissipato proprio dal finale in cui i sei personaggi restanti gettano la maschera e, sempre con la raffinatezza di Da Ponte, mostrano la propria natura: il crudele controllo di Donn’Anna e la debolezza di Don Ottavio, l’anima spenta di Donna Elvira, il mercenarismo senza ritegno di Leporello (che comunque serviva l’ex padrone prima per giovare della sua protezione e poi per solo timore) e la piattezza sconfortante di Masetto e Zerlina che dopo tutto quello cui hanno assistito non trovano di meglio da fare di andare a casa «a cenar in compagnia». Il taglio prescelto è chiaro, quello di dipingere i personaggi se non in modo negativo per lo meno come distanti dall’essere un modello di virtù morale. Da qui l’ossimoro del finale, cioè che proprio costoro siano coloro che cantano la morale dell’opera: «Questo è il fin di chi fa mal:/ e de’ perfidi la morte/ alla vita è sempre ugual!». Va da sé che una morale del genere non è inadatta per un personaggio come quello di Don Giovanni, e resta comunque in linea con la tradizione del burlador de Sevilla, ma il contrasto fra il messaggio moralistico e chi si arroga il diritto di giudicare è notevole.

Tuttavia ci sono alcune strategie nel libretto e nella partitura che di fatto smontano il sestetto sentenzioso: il testo affidato loro è davvero esiguo, appena tre versi, e questo implica che siano costretti a ripetere stolidamente la solita manciata di parole, inoltre Mozart sceglie di comporre un finale di certo vivace e accattivante, ma compositivamente poco interesse, cosa che contribuisce a svuotare di significato il testo. A questo proposito, ritengo che il compositore abbia giocato un ulteriore tiro: il tema del sestetto nel modo in cui viene intonato inizialmente da Donn’Anna e Donna Elvira assomiglia davvero molto a un soggetto di fuga (graficamente l’incipit nelle due parti di violino ricorda da vicino quello del Fac ut areat dello Stabat Mater di Pergolesi, in cui si presentano simultaneamente soggetto e controsoggetto), tanto più che quando passa a Zerlina si comporta come una risposta passando al tono della dominante, senza però giungere ad alcun esito contrappuntistico. Mozart fa intravedere la possibilità della più grandiosa architettura dello stile severo per poi dissolverla in un finalino vuoto e ridondante. Un modo intelligente di ricompensare l’ipocrisia.

Così fan tutte, il finale tragico

Il meno popolare della trilogia dapontiana e quello di fattura artistica più elevata, Così fan tutte è il titolo in cui emerge il più cinico pessimismo. L’intera opera gioca su una virtuale sospensione (ma solo virtuale, dato che verso la conclusione del secondo atto mentre Fiordiligi, Dorabella e Ferrando intonano «E non resti più memoria/del passato ai nostri cor» Guglielmo ripete fra sé «Ah, bevessero del tossico,/queste volpi senza onor!») del sentimento alla base di un calcolatissimo scambio di coppia, dimostrazione del teorema del vecchio filosofo Don Alfonso che non esiste fede della donna verso l’uomo – così fan tutte, appunto – e che di conseguenza il sentimento amoroso sia illusorio. Così le coppie Guglielmo-Fiordiligi e Ferrando-Dorabella si invertono e in questa occasione Mozart ha un notevole asso nella manica per intorbidire ancor di più le acque: vocalmente ci vengono presentate due coppie male assortite composte rispettivamente da baritono-soprano e tenore-mezzosoprano; lo scambio di coppia sembra rimettere le cose a posto accoppiando convenientemente il tenore al soprano e il baritono al mezzo, una fortissima sottolineatura dell’estremismo razionale di Don Alfonso. Nonostante la stoica resistenza delle sorelle ferraresi e qualche titubanza dei due «soldati d’onore» ogni baluardo è destinato al crollo sancito dalla firma di un contratto nuziale, ça va sans dire assolutamente nullo ma il suo peso ricade ben oltre la sfera giuridica. L’inganno ha avuto buon esito e il basso può incassare i suoi cento zecchini, lasciando gli altri personaggi preda di smarrimento e desolazione dell’anima.

Ecco che, dopo un finale ingannatore e uno ipocrita, arriva un finale in cui si afferma effettivamente quello che viene detto in scena: «Fortunato l’uom che prende/ogni cosa per buon verso,/e tra i casi e le vicende/da ragion guidar si fa». Si canta la desolante razionalità – estremizzata, come detto – dei Lumi, si invita a considerare di sopprimere ogni forma di sentimento in favore degli indubbi benefici del puro calcolo e dei risvolti utilitaristici. Tra le acrobazie dei fiati che in questo titolo hanno un ruolo tanto centrale, il sipario si chiude su un finale dal colore tragico, intriso di cinismo, che conclude la discesa nelle ambiguità dell’essere umano tratteggiate da Wolfgang Amadé Mozart e Lorenzo Da Ponte certamente con eleganza magistrale, ma senza indorare la pillola fornendo un ritratto crudo di varia umanità.