di Roberta Pedrotti
A Martina Franca si recupera il dominio del tempo e si passano le ore in un'apparente indolenza che invece è dialogo, è riscoperta del senso in un mndo frenetico e virtuale. Si riflette allora su alcune scelte che hanno destato perplessità, ma si saluta anche con gioia un'altra dimensione del tempo nel ritrovarsi nel presente del passato (la premiazione di Grace Bumbry) e del futuro (una serie di artisti emblematici dei valori della nuova generazione).
Martina Franca, Le joueur, 24/07/2022
Martina Franca, Beatrice di Tenda, 26/07/2022
Martina Franca, Xerse – Selva morale e spirituale, 25-28/07/2022
Martina Franca, 23-25 luglio - Se ogni teatro dovrebbe avere un'anima, ciò è ancor più vero per un festival. Se un cartellone standard richiede una certa varietà, il festival esige un filo conduttore, un'identità riconoscibile, sia nel programma sia in quel che lo circonda. Insomma, non si tratta solo degli spettacoli a cui si assiste, ma anche delle persone che si ritrovano, dei quel che si mangia e si beve, dei luoghi e dei piccoli riti che “fanno” il Festival. In qualche caso dell'ombra protettrice o minacciosa, spesso evocata, dei fondatori: a Pesaro Gianfranco Mariotti (felicemente fra noi) con Bruno Cagli, Philip Gossett e Alberto Zedda (che tanto ci mancano), a Montepulciano Hans Werner Henze, a Martina Franca Rodolfo Celletti.
Poi, le cose cambiano nel tempo, si avvicendano i successori, ma quel filo deve restare, magari rinnovarsi, ma non spezzarsi.
Quando si mette per la prima volta piede a Martina Franca, si capisce che quel che raccontano gli habitué è vero. Ritagliato in un cielo azzurro perfetto, lo stesso bianco sagoma le facciate barocche, le strade, le case, ricama le luminarie salentine: fin qui, si direbbe, la cartolina, animata pure dalla confraternita che porta in processione una sacra effige. Oltre la cartolina, c'è il tempo. Il tempo passato intorno agli spettacoli, colazioni interminabili, pranzi, cene, aperitivi, conversazioni al riparo dalla canicola; non è indolenza o gola: è, finalmente, un prendersi del tempo per parlare, per scambiarsi idee, divagare, per concentrarsi sui sensi reali (con l'udito, il gusto trionfa) fra frenesie e contatti virtuali. Il Festival della Valle d'Itria è il trionfo del Tempo e del disinganno, non si corre, ci si incontra.
Questo non vuol dire che ci si compiaccia in una bolla di pacioso appagamento. Si pensa, anche di più, prendendoci il tempo e parlando, come è giusto che sia in un festival, dove ci sono le rose, i fiori, ma anche qualcosa che non va per il verso giusto. Francesco Lora, storico corrispondente dei fatti itriani scrive nelle recensioni specifiche e contestualizza fatti condivisibili anche da chi partecipa al festival per la prima volta [Martina Franca, Le joueur, 24/07/2022, Martina Franca, Beatrice di Tenda, 26/07/2022, Martina Franca, Xerse – Selva morale e spirituale, 25-28/07/2022]. A tutti sarebbe piaciuto ascoltare Beatrice di Tenda in integralissima edizione critica, come ci si aspetta da una manifestazione come questa; di Xerse spiacciono i tagli, ma ancor più spiace che Leo Muscato abbia inteso la complessità d'affetti dell'opera veneziana del Seicento come una commedia ridanciana (con quell'irritante tormentone del battimani nei recitativi) rendendola viceversa perfino noiosa. Le Joueur è un evidente riparo nell'emergenza, che da un lato ammicca alla passione per le rarità e le varianti francesi già espressa da Sergio Segalini (direttore artistico dal 1994 al 2009), dall'altro ad alcune nuove traduzioni ritmiche italiane commissionate dalla gestione Triola per Strauss o Haydn. Cosa ci indichi della direzione ricercata dal nuovo corso guidato da Sebastian Schwarz (simpaticissimo) è presto per dirlo, ma di certo una direzione si profilerà e non potrà prescindere dai principi fondamentali di un festival: scoprire, stimolare, credere fermamente in ciò che si propone, ovvero non temere l'integralità – anzi, una manifestazione come questa ha la sua ragion d'essere anche nel farsi riferimento musicologico, nella possibilità di vedere e sentire ciò che altrove non è garantito – e il perseguire una lettura di riferimento, che sperimenti anche, ma non banalizzi né travisi (torniamo all'esempio del Xerse, che ha allegramente sciupato tutta la sostanza complessa del teatro veneziano del Seicento). Ci auguriamo altresì che il Belcanto, le rarità dal barocco all'Ottocento restino lo zoccolo duro dell'estate martinese, e non per vieto conservatorismo (anzi), ma perché fa parte del DNA del festival itriano e resta un bacino tanto ricco dove pescare anche suggestioni per accostamenti, esplorazioni, sperimentazioni ben ponderate. Piace sempre citare le parole pronunciate qualche chilometro più a nord, sempre sul versante adriatico della Penisola, da Gianfranco Mariotti, che definisce il “suo” Rof come “laboratorio di musicologia applicata” che non “rassicuri il pubblico” ma lo scuota spingendolo a pensare. Principi che ben si possono attagliare al Festival della Valle d'Itria, dove possiamo avere tutto il tempo per gustarci l'opera senza colpi di forbice, tutto il tempo per ragionare sulla drammaturgia di Bellini, su fonti e versioni, così come delll'intreccio di dramma e commedia, di alte riflessioni su potere e passioni e momenti comici (ricordate Shakespeare? Ma anche Omero e Dante...) in Cavalli senza dover semplificare tutto nello stesso registro. Il Tempo è dalla nostra parte, in Valle d'Itria, dove una colazione dura due ore per gustare come si deve un dolcetto mentre si parla di musica, di teatro, di cose serissime e di battute irriferibili.
Che quello della Valle d'Itria sia il Festival del Tempo è dimostrato anche da una curiosa coincidenza. In questo presente delibato con pazienza, appare il passato, mito presentissimo, con Grace Bumbry che riceve il premio Celletti e a quaranticinque anni dalla sua storica Norma a Martina Franca, assiste a un altro Bellini, quello di Beatrice di Tenda. Quando gira la voce che “la Bumbry è arrivata” e alloggia nello stesso hotel, sale l'eccitazione, si fiuta l'aria sperando di intercettare l'aura della diva.
E di fronte a lei c'è un presente che è anche futuro, un futuro che è anche presente. Gli elementi migliori di questo Festival, quelli che fra una burrata e una bombetta fanno dire e ridire “quant'è bravo, quant'è brava” son tutti giovani o giovanissimi. Spiace che Michele Spotti abbia avuto così poco tempo per preparare la sua lettura di Beatrice di Tenda: lui stesso racconta delle ore di sonno centellinate e della rigorosissima suddivisione del lavoro fra lettura, focalizzazione drammaturgica e strutturale, memorizzazione mentale e fisica, vale a dire traduzione del pensiero in gesto. Questo però ci dà la misura di quanto valgano i giovani direttori d'autentica sostanza e non di moda esteriore. Quelli, insomma, che sanno gestire la situazione, che non sono viziati fra le orchestre più blasonate, ma sanno rimboccarsi le maniche, ottenere con lucida onestà il miglior risultato possibile, crescere e studiare, studiare e crescere. Non gli importa il record del “salvatore della patria” giunto in meno di una settimana a sostituire Fabio Luisi, gli importa – lo dice chiaramente – che l'opera vada in porto e che tutto funzioni al meglio. È il risultato che conta, non l'impresa che lo precede. Poi, ci sarà tempo: i prossimi anni sono pieni di conferme e nuovi debutti, quel che ci racconta ci riempie di gioia perché lo merita. Sono giusti riconoscimenti, nuove esperienze di certo preziose. Per fortuna siamo di fronte a una generazione di musicisti che sanno lavorare sul serio, che non hanno bisogno di essere portati in trionfo su copertine patinate, ma che faranno parlare di sé, e buon per chi se ne accorge.
Un discorso simile si adatta anche agli altri giovani della Valle d'Itria. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Giuliana Gianfaldoni esordiente già nel 2015 e di assistere con compiacimento alla sua “prima rivelazione” a Pesaro nel 2019 come Corinna nel Viaggio a Reims. Come Beatrice, accostandosi per la prima volta a un grande ruolo tragico (sì, c'era stata Amenaide, per esempio, ma si tratta pur sempre di una fanciulla in pericolo più che di una donna potente e autorevole qual è l'eroina belliniana), dimostra di saper misurare il passo secondo le proprie caratteristiche, di rendere la statura del personaggio con la nobiltà del portamento, il cesello del cantabile, la pienezza madreperlacea del timbro. Dimostra di non voler essere ciò che non è, di essere consapevole, di rifuggire (come i suoi colleghi “ragazzi della Valle d'Itria”) l'hybris. Basta scambiare due parole sul repertorio per capire di che pasta è fatta, per constatare con che serietà si stia muovendo, calibrando rischi e sicurezze, nel belcanto. Soprattutto, colpisce una considerazione: quando ci parla del lavoro rammaricandosi degli spettacoli dove “non si impara nulla” rispetto a quelli che invece comportano una crescita artistica nello scambio con i colleghi, nel confronto con l'esperienza dei maestri (ricorda, anche, l'emozione della Zaide con Graham Vick a Como).
Nella Beatrice di Tenda c'è un'altra sorpresa, che tanto sorpresa non è, per chi lo conosce: Biagio Pizzuti. Un altro giovane artista con cui fa piacere scambiare lunghe chiacchierate, perché si parla di musica, di interpretazione, di ruoli e progetti. E si trova – finalmente! – un baritono che non scalpita per collezionare ruoli verdiani, ma che desidera far bene nelle parti giuste per lui, senza cristallizzarsi in un'etichetta. Sì, canta parti buffe (Bartolo, Magnifico, Dulcamara...), ma quelle serie di Bellini e Donizetti lo attraggono molto, guarda a Mozart, guarda a Rossini, è felice di affrontare il barocco. Ma, soprattutto, è felice quando può fare progetti artistici autentici, mettersi alla prova, puntare alla sostanza senza perdere tempo con i fronzoli social (anche perché, con una famiglia e due bambine, il tempo libero è meglio passarlo nel mondo reale).
In Le joueur fa piacere avere la conferma di Maritina Tampakopoulos, che era riuscita ad attirare l'attenzione come Sacerdotessa in Aida a Macerata e ora non delude nella parte ben più esposta di Pauline. E benché la conoscessimo già da anni, fa anche più piacere e sorprende l'exploit di Silvia Beltrami come Grand Mére. Non perché non avesse già dimostrato il suo valore, ma perché il mezzosoprano bolognese ha sempre avuto – già da quando la ascoltai in uno dei primi concorsi, delicata e fanciullesca nella Mignon di Thomas – un carattere volitivo che si imprime anche nel canto: il suo Rossini è sanguigno, Verdi un approdo naturale per il temperamento, la sua Zita nel Gianni Schicchi un vero spasso. Come sarebbe stato il suo Prokof'ev? Eccellente, tant'è vero che al primo impatto l'avevo scambiata per una specialista arrivata dall'Est Europa: voce calda e autorevole.
Perfino nello spettacolo più problematico, Xerse, c'è un artista della nuova generazione che sa imporsi dando lezioni a tutti. Carlo Vistoli non rema contro l'impostazione di Muscato, sa fare gioco di squadra da vero professionista. Peraltro, è un bravissimo attore che ha studiato con encomiabile acribia la recitazione (lo ricordo ancora ragazzotto intelligente dalla voce d'oro ma un po' impacciato sul palco e l'ho visto crescere di produzione in produzione fino alla disinvolta autorevolezza attuale). E, dunque, fa quel che gli è richiesto, ma lo fa tanto bene da far comprendere anche la sua consapevolezza dello stile e del testo, tant'è vero che il suo grande momento serio, il lamento che precede l'epilogo, è il momento più alto della serata.
Bravi, bravi, bravi questi ragazzi. La nuova generazione che sa quel che fa, lo fa seriamente, è il miglior presente che non dimentica il passato e prepara il futuro. Anche questo deve servire un Festival, nel suo progetto. Prendiamoci tutto il Tempo, gustiamoci un piatto di pomodoro e stracciatella, parliamo guardandoci in faccia, ascoltiamo, pensiamo, incontriamo gli artisti (il che è una bellissima cosa, ché per chi ragiona in buona fede e con sincero amore per la musica e il teatro, la condivisione è indispensabile e virtuosa), gli studiosi, con chi fa le cose per bene, credendoci, senza paura di osare.