La lingua del Capodanno

di Roberta Pedrotti

Il confronto fra le trasmissioni dei concerti di Capodanno da Vienna e Venezia mette in luce come nel linguaggio universale della musica, esistano gerghi e idiomi specifici, che si possono padroneggiare con naturalezza e perfetta identità fra forme e significati o forzare in traduzioni poco convinte.

La musica è un linguaggio universale. Bisogna fare attenzione a questa massima ripetuta in ogni dove: il tema del significato della musica è talmente ampio, complesso e dibattuto nella storia che sarebbe impossibile darne una definizione univoca che non sia quantomeno circoscritta a uno stile, un autore, un brano. Senz'altro, trattandosi di un'espressione non verbale, si trascendono i limiti e i confini della parola e non si rende necessaria la traduzione, tuttavia, per potersi esprimere in musica è necessario conoscere questo linguaggio, che può parlare anche al puro istinto, ma possiede comunque le sue strutture, le sue forme, le sue regole e le sue caratteristiche peculiari.

La differenza fra i concerti di Capodanno di Vienna e Venezia stanno proprio in una distanza di linguaggio.

Il Neujharskonzert ha una fortissima identità che fa corrispondere un repertorio allo spirito della festa – e del tempo che scorre, al rapporto fra i sensi e la trascendenza – e di una città. Questo repertorio e questo spirito si incarnano in un'orchestra che ha nel suo codice genetico un'idea di suono e di fraseggio che è esattamente il linguaggio di questo stile. Allora anche un direttore come Franz Welser-Möst, che non è esattamente un prodigio di carisma e fantasia ma conosce bene questo mondo, finisce per funzionare più di colleghi magari più autorevoli e tuttavia anche più “esterni. Funzionare, certo, non elettrizzare come un Kleiber o uno Jansons, né esprimere in massimo grado l'ideale del Konzertmeister come un Boskovsky, ma non risultare nemmeno mai estraneo al linguaggio.

Viceversa, il Concerto veneziano nasce come contrapposizione nazionale a Vienna e quindi prende, in virtù della sua matrice culturale, un repertorio che ha tutt'altra funzione e collocazione: le arie, le sinfonie, i cori d'opera nascono come parti di un testo unico di teatro musicale. Proporli come pezzi staccati in concerto è cosa che si può benissimo fare, ma difficilmente, per quanto possa essere appagante, questo raggiunge una piena coerenza e in ogni caso non può inventare un'identità perfetta com'è quella fra le danze viennesi, la città, la festa. Anzi, spesso il pensiero del contesto porta a sorridere maliziosi degli sviluppi menagrami che avrà poi il singolo pezzo brillante (anni fa, e più volte, ci si era arrischiati nei cori giubilanti dalla Lucia di Lammermoor, non proprio il massimo dell'allegria se si pensa a come andranno a finire!). Oltretutto, nel momento in cui si sceglie di usare l'opera e di optare per il galà di pezzi staccati puntando sul fascino musicale più che sul contenuto espressivo e drammatico, bisognerebbe quantomeno dimostrare di credere davvero nel repertorio che si propone. Ancora una volta, invece, una serie disorganica di pezzi si trova imbastita con tagli spietati e insensati: si vuole valorizzare la musica di Rossini e poi della sinfonia di Guillaume Tell si propone il solo galop, come se il brano intero (uno dei più popolari e immediatamente accattivanti del repertorio) fosse considerato indigesto per il pubblico televisivo e festaiolo. Si parla di Puccini e si presenta il solito torsolo di finale di Turandot nella stesura di Alfano (mai nominato, peraltro, nelle cronache). Si forza, dunque, un linguaggio fuori dal suo contesto logico e naturale senza nemmeno credere nel suo valore.

Per fortuna è andata un pochino meglio sul piano del cast, giacché, se si vuole appioppare a qualsiasi cantante, a prescindere dalle sue caratteristiche, un programma prestabilito a tavolino, perlomeno la qualità di lirico puro a proprio agio in Mozart e Puccini di Federica Lombardi le ha permesso di attraversare indenne il percorso da Norma a Musetta, da Turandot a Violetta. Idem, Freddie De Tommaso ha trovato una definizione piuttosto coerente, quand'anche un po' stentorea, fra Don José, Calaf e Alfredo. Fra i direttori transitati alla Fenice a Capodanno, Daniel Harding ha dimostrato convinzione ed entusiasmo superiori a molti se non a tutti; per valutarlo meglio ci sarebbe piaciuto ascoltar subito anche l'Italiana di Mendelssohn proposta nella prima parte, ma si sa che la Rai promuove un suo concerto mostrando nello stesso tempo il terrore di far sentire troppa musica (o di sviare l'attenzione dall'Angelus)

C'è poi, ovviamente, la danza. Nella festa si balla, e se non si balla si guardano altri farlo, si ascolta musica ballabile. Questo i viennesi lo fanno da sempre, all'opera lo si fa occasionalmente, ma nel pianificare un concerto come quello veneziano pare d'obbligo seguire l'esempio austriaco, che tuttavia resta vincente perfino sul piano degli addobbi floreali, assai più fini. Quest'anno il coreografo Davide Bombana con l'étoile Jacopo Tissi e il corpo di ballo del Massimo di Palermo sembra aver misurato il tutto meglio di quanto visto in passato (non per nulla, guardacaso, ha lavorato a ben tre capodanni viennesi), sicché non abbiamo ritrovato la sgradevole sensazione di un ballo slegato dalla musica e schematizzato in passi e tableaux fini a sé stessi, forzosamente rallentati per non rischiare fuori sincrono. Tuttavia, il ballare fra i dipinti del Tiepolo sulle note di Mascagni appare tanto pretestuoso da diventare surreale, soprattutto se poco dopo abbiamo il confronto con la fiabesca naturalezza delle coppie viennesi (fra cui due italiani, Davide dato, solista nella polka Auf und vom di Eduard Strauss, e Calogero Failla). L'identità fra i palazzi e i parchi della capitale austriaca e la musica della famiglia Strauss è innata, inevitabile; si percepisce un linguaggio comune fra suono, architettura, costumi – che meraviglia quegli accostamenti cromatici così spiccati! – e movimenti che raccontano storie nei passi accademici come nelle sequenze più recitate, piene di giocosa sensualità.  Insomma, abbiamo a Venezia tentativi di traduzione, a Vienna un linguaggio parlato da madrelingua senza bisogno di intermediari.

Nel rimanere fedele a sé stesso, una tradizione viva, il Neujahrskonzert si rinnova di continuo nel programma: oltre alla presenza di meravigliosi cori di voci bianche e giovanili con il debutto delle Wiener Chormädchen, formazione femminile dei Wiener Sängerknaben, anche quest'anno abbiamo avuto un numero cospicuo di prime esecuzioni a riprova di come questo repertorio sia una fonte inesauribile di perle musicali. Semmai un nodo che si avverte stagnante è quello delle bacchette, che fino a qualche tempo fa alternavano ritorni e debutti, mentre ora da qualche anno, come conferma anche l'annuncio di Christian Thielemann per il 2024, vedono il ricorrere di nomi già collaudati. L'impressione è che dopo la scomparsa di Mariss Jansons manchi una figura di riferimento e all'infuori della cerchia delle collaborazioni abituali si fatichi a individuare qualche nome nuovo tale da convincere appieno l'orchestra (e, se è consentito pensar male, il mercato discografico). Speriamo davvero che possa presto spirare, senza per forza spazzar via il resto, un po' di sana aria fresca.

Quello degli interpreti è, invece, un tema che interessa poco lo stato attuale del concerto veneziano, condizionato com'è da una “tradizione” progettata in vitro su un linguaggio artificiale in cui nemmeno gli stessi creatori sembrano credere e infatti propone, senza un minimo di fantasia e ricerca, una rosa ristrettissima di brani ricorrenti. Parimenti, sarà forse in questa diversa tradizione, naturale e artificale, che paradossalmente il concerto del 2021, in lockdown, ha funzionato meglio a Venezia che a Vienna [Venezia, concerto di Capodanno, 01/01/2021].

Infine, un'ultima osservazione su presentazioni e palinsesto: sarebbe bello evitare un po' di quella iperbolica retorica che suscita ironia controproducente nei testi letti da Roberto Chevalier per la Fenice, come avviene da Vienna, dove ci si limita a qualche breve aneddoto che contestualizzi i brani. Nulla da dire sul bell'omaggio veneziano al papa emerito Benedetto XVI, scomparso il giorno prima e competente appassionato di musica, con il Lacrymosa dal Requiem di Mozart, ma forse durante la trasmissione da Vienna è stato un po' eccessivo insistere con ben tre dediche affidate alla commentatrice Christel Galatzer. Con tutto il rispetto, anche il compianto ha i suoi tempi, i suoi luoghi, le sue misure. Quanto al palinsesto: più concerti ci sono, meglio è, chiaro, tuttavia il volerli sovrapporre crea fastidiose e inutili rivalità. Perché non trasmettere il concerto di Vienna integralmente in diretta, come nel resto del mondo (la Rai dispone di tre reti generaliste principali e molte altre tematiche: non riteniamo impensabile questa piccola concorrenza interna all'Angelus) e collocare un eventuale concerto da Venezia in altro orario, per esempio nella prima serata di San Silvestro e dello stesso primo gennaio?