La strada della Rinascita

di Gina Guandalini

Semiramide, l'ultima opera italiana di Rossini, compie duecento anni il 3 febbraio 2023: ripercorriamo la storia di un'opera entrata nel mito.

Duecento anni di Semiramide - I

Duecento anni di Semiramide - II

Inizia il ventesimo secolo e Semiramide è in pratica ridotta alla sinfonia e a «Bel raggio lusinghier». Le registrazioni di quegli anni della cavatina sono difficilissime da decifrare per gli ascoltatori di oggi ma qualche tentativo andrebbe fatto. Segnalo che non di rado si effettuava un taglio interno, da «Quest’alma che finora» a «Si dileguò il terror»: i “Bei raggi” dei primi del Novecento dovevano tenere conto della durata dei dischi di allora: ufficialmente a 78 giri, in concreto svarianti dai 70 agli 84, subivano tagli e scorciatoie per poter contenere ogni brano sulla facciata e condizionavano pesantemente i tempi dell’esecuzione e la psiche del cantante.

La lodigiana - come la Strepponi - Giannina Russ (1873-1951, nata Giovanna Cerri) nel 1904 cantò Aida e Un ballo in maschera con Caruso a Londra e Semiramide a Lisbona; nello stesso anno registrò «Bel raggio lusinghier» e il disco è lampante dimostrazione di voce ricca e importante che sa dipanare una coloratura regale. Di un’altra grande dell’epoca, Marcella Sembrich, che probabilmente esguiva le variazioni della Patti, ho detto; mentre su Youtube è ascoltabile quella che deve essere la primissima registrazione di «Bel raggio» effettuata nell’anno 1900, un frammento – non di più - della cubana Rosalia Chalia. Due anni dopo registrava una vertiginosa cavatina la austro-polacca Irene Abendroth (Irene Thaller von Draga 1872 – 1932) , sempre citata da Joan Sutherland come esempio di vocalità autenticamente belcantistica. Ma è un ascolto difficile, dall’attacco pronunciato «Bel ragi-o» ai numerosi suoni fissi - forse effetto della tecnica primitiva? - alle agilità tipo jodel.

Più accessibile il «Bel raggio» pirotecnico della portoghese Regina Pacini de Alvear, del 1906. Resta ancora ammirevole la reggiana Celestina Boninsegna (1877- 1947) che nel 1907 lasciò un a cavatina tagliata, anzi tagliuzzata, ma vocalmente importante. Nell’08 fu la volta di Luisa Tetrazzini (871-1940) una fiorentina che in America fu mitizzata e incoronata erede vocale della Patti, mentre da noi non è mai entrata nell’inconscio collettivo; timbro ricco, bagaglio tecnico fenomenale e dizione tutt’altro che leziosa suggeriscono di riconsiderarla.

Due soli gli esempi dell’entrata di Arsace nel primo trentennio del Novecento. Guerrina Fabbri (1866-1946) ferrarese che studiò con Isabella Galletti Gianoli e fu Arsace con la Patti, lasciò una registrazione nel 1903, ma la tecnica primitiva rende arduo all’ascoltatore di oggi l’apprezzamento del suo stile. Si percepisce come dovevano essere state la Pisaroni e la Alboni? Forse. Dieci anni dopo Eleonora de Cisneros (nata Eleanor Broadfoot nel 1878)lasciava una cavatina con voce più chiara di quella della Fabbri e variazioni tardo-ottocentesche.
Bisogna saltare al «Bel raggio» di Amelita Galli-Curci (1882-1963) del 1924 per ascoltare un altro relitto di canto rossiniano serio. Anche Amelita, come la Tetrazzini, fu ed è tuttora mito statunitense più che nostrano, per il timbro pre-Callas che ha spesso qualcosa di vitreo (per gli americani era cristallino) e il gusto delle fioriture liberty.

Le due arie di Idreno sono sempre state l’elemento più “mobile” dell’intera tradizione di quest’opera, da accorciare o sopprimere secondo le circostanze. Nel 1932 ebbe luogo a Rostock sul Mar Baltico un’operazione-Semiramide di gusto prettamente teutonico. Il libretto fu riscritto e la musica fu rielaborata e riorganizzata. Come? Leggiamo la cronaca su un periodico specializzato: «… il testo contiene tradimento, morte e assassinio e non si adatta a una musica di tono leggero, spesso operettistica…(Hans) Bodenstedt ha trasformato con mano felice questa ibrida tragicommedia in una commedia pura, rendendo così musica e testo omogenei. La rielaborazione musicale (di Adolf Secke e Otto Petersen) si è sforzata, tagliando le colorature eccessive, di rendere l’opera cantabile per esecutori tedeschi della nostra epoca, di esaltare le vivaci melodie e di trasformare l’opera a numeri in una commedia musicale scorrevole». Esempio limite di incomprensione tra due mondi, questo spettacolo ha dato origine alla prima registrazione di un brano di Idreno nel Novecento: si trattò – su etichetta Parlophon – di un arrangiamento in forma di aria solistica del concertato tratto dal Finale primo «Qual mesto gemito», ripulito da ogni accenno di agilità. Interprete il tenore svizzero Herbert Ernst Groh, accompagnato dall’orchestra della Staatsoper di Berlino; il disco esemplifica i criteri con cui tutta la cultura tedesca ha guardato per un secolo e mezzo all’opera italiana.

Otto anni dopo, nell’aprile 1940, entrò in scena Tullio Serafin. Scelse Semiramide per inaugurare il Maggio Fiorentino e assemblò i quattro vocalisti più in vista di quegli anni per i ruoli protagonistici: Gabriella Gatti, Ebe Stignani (che in quell’anno aggiungeva al suo repertorio anche Cenerentola), Tancredi Pasero e Ferruccio Tagliavini. Un cinegiornale LUCE dà qualche idea dello spettacolo. Il lavoro degli scenografi fu commentato dall’ouverture della Scala di seta, ma pazienza. Vediamo poi rapidamente i quattro protagonisti nei camerini: Pasero che indossa una parrucca a grandi boccoli neri, Tagliavini che si aggiusta la barbetta di Idreno, la Stignani in piedi come marziale Arsace, mentre si cinge la spada; la Gatti nell’acconciatura dell’imperatrice babilonese. Si assiste poi, nell’atrio del Teatro Comunale infiorato, all’arrivo del re; e abbiamo ancora qualche frammento dello spettacolo vero e proprio, ma durante una prova perché Pasero non è in costume; le prime note orchestrali di «A quei detti, a quell'aspetto»: la Gatti che intona «I vostri voti ormai»; un gruppetto di ballerini che volteggia.

Come mai Serafin non scelse Lina Pagliughi per il ruolo di protagonista ? La Gatti cantava Monteverdi, la Contessa nelle Nozze, Rezia in Oberon, Norma, la Marguerite berlioziana, ed era eccellente musicista; doveva essere più vicina, o meno lontana, dall’ideale “serio” o comunque austero di Serafin. Alla Pagliughi dobbiamo un «Bel raggio» registrato intorno agli anni della riesumazione fiorentina, con tempi serrati, fiati scorrevoli, agilità impavide. Ma forse Serafin la collegava al doppiaggio di Adriana Caselotti in Biancaneve e i sette nani di Disney, e comunque a un repertorio tutto coloratura e quindi per lui frivolo.

Dell’entrata di Arsace con la Stignani restano in disco tre versioni di «Ah, quel giorno ognor rammento», dirette da Ugo Tansini, Armando La Rosa Parodi e Antonino Votto, quest’ultima in un disco antologico in cui canta anche il recitativo da «Morendo il genitore». Il suo è belcanto, se non altro per la scelta costante del suono bello e morbido, mentre l’estasi della coloratura le è ignota. Degli interpreti fiorentini anche Pasero ha lasciato testimonianza discografica, un «Deh, ti ferma» molto autorevole. Non offre riprese con variazioni, pratica che sarebbe tornata in auge solo un quarto di secolo più tardi.

Non appartengono alla storia della discografia di Semiramide se non a posteriori le due versioni di «Bel raggio lusinghier» che ci restano di Rosa Ponselle (in un concerto radio del ’36 molto precario come qualità di registrazione) e della brasiliana Bidù Sayão (1902-1999). La seconda è un’altra registrazione live effettuata nel 1943 e basata su una lunga cadenza con flauto, che all’inizio dell’esibizione segue la voce in ritardo mentre dovrebbe accompagnarla. Un modo, per la Sayão, di “affiliare” il Rossini serio a Lucia di Lammermoor.

La dice lunga sulla storia di Semiramide ciò che scrisse un cronista di Atene nel dicembre ’43: la appena ventenne Marianna Kaloieropulu aveva cantato in concerto la cavatina, studiata con la sua maestra Elvira de Hidalgo, e lui la definiva «aria che sentivamo per la prima volta». Infatti quando poteva averla ascoltata? È presumibile che a Vienna, a Milano, a New York le radio trasmettessero occasionalmente le esecuzioni di Frieda Hempel, di Lina Pagliughi o di Amelita Galli Curci; ma sempre come capriccio di primedonne e degli amanti dei canarini. Di ascolto ancora più raro doveva essere il disco Victor di «Bel raggio lusinghier» dell’americana Rose Bampton, che è del ’41.

Nei saltuari approdi discografici del periodo tra oblìo e resurrezione Semiramide vide anche, nel ’51, la cavatina della protagonista incisa da Maria Pedrini (1910-1981) che era nipote di Adelina Patti e attendibile Norma e Abigaille ante-Callas: ma il suo «Bel raggio lusinghier» è purtroppo un ascolto graffiato e precario. Molto interessanti sono il «Bel raggio lusinghier» dell’americana – di origini russe – Jennie Tourel (1900-1973, che studiò con Reynaldo Hahn e fu Desdemona ed Elcia rossiniane in riesumazioni dell’American Opera Society) nel ‘46; della nostra raffinata Graziella Sciutti – brano da riascoltare - nel ’54; di Rita Streich (1920-1987) allieva di due cantanti illustri, Willi Domgraf-Fassbänder e Maria Ivogȕn, regina babilonese di timbro subrettistico ma di agilità eclatanti, nel ‘55.

Segnalo due sortite di Arsace di alta classe; del 1948 quella dell’armeno-russa Zara Dolukhanova (1918-2007, nata Zarui Makarjan), nel ‘51 del mezzosoprano greco di Smirne Elena Nikolaidi, (1909- 2002, da non confondere con la bulgara Elena Nicolai). Due letture tutt’altro che “preistoriche”: della russa spiccano lo slancio e la leggerezza, della greca la voce morbida e lucente.

Quella ventenne che proponeva un’aria sconosciuta ad Atene era la Callas, ovviamente. Tredici anni dopo, nel ’56, avrebbe cantato la stessa cavatina alla RAI di Milano con la capacità di ricreare uno stile e un mondo e di dare espressione alla coloratura che costituirono la sua missione artistica. Ma anche quello fu un nastro che rimase privilegio di pochi fino alla metà degli anni Settanta. Tra il ’60 e il ’64 la Callas affrontò di nuovo il temibile brano in sala di registrazione e da concerto; il suo fan e amico John Ardoin lasciò scritto che rimaneva un’interpretazione poco soddisfacente, “buia”, limitata nell’ornamentazione. Aveva in mente, è chiaro, la Semiramide dei tempi nuovi: Joan Sutherland.

All’inizio del ’59 Teresa Berganza non temette di affrontare «Bel raggio lusinghier» e ci riuscì con professionalità. L’anno seguente si fecero avanti Anna Moffo, che sfidò la Sutherland sfoggiando variazioni a ruota libera e Irene Dalis americana di origini italo-greche (1925-2014).

Era ormai chiaro che, grazie anche all’esempio della Callas, le interpreti di Semiramide e Arsace c’erano, e avevano scuola e stile. Mancavano direttori che si assumessero la responsabilità della resurrezione.

Poco potè dire a proposito di Semiramide, alla Scala il 7 dicembre 1962, Gabriele Santini, e non solo a causa dei molti tagli – resi utili se non necessari dalle dimensioni della partitura e dalle attitudini rossiniane o meno dei cantanti - , ma per una generica conduzione ora concitata ora convenzionale, povera di finezze e di respiro tragico. Molto aveva da dire Joan Sutherland, quarantaduenne, nella parte della regina.

Come andasse cantato un “ruolo Colbran” era già stato dimostrato, e per sempre, dalla Callas in Armida. Ma il fenomeno era custodito in un nastro in pessime condizioni, che solo nel terzo millennio sarebbe stato restaurato fino all’ascoltabilità, e riferiva una vocalità unica e inimitabile, inaudita fusione di contralto, mezzosoprano, soprano drammatico, sfogato e di coloratura, e di attrice tragica. L’australiana riproponeva la Semiramide della Melba e della Patti, splendida e raggiante nel registro acuto, impressionante per la scorrevolezza e brillantezza delle variazioni; certo priva di sonorità contraltili. Per Rodolfo Celletti era priva di fraseggio imperioso e di cipiglio regale, nei momenti tragici risultava inespressiva. Alla Simionato, ormai nella fase calante della grande carriera, fu tagliato «In sì barbara sciagura», a Gianni Raimondi entrambe le arie di Idreno. All’indomani della riesumazione scaligera Massimo Mila scrisse di «scarso valore della partitura», definendola «macchinosa e prolissa, appesantita da un fastidioso ed ingombrante virtuosismo canoro». Per la critica, da Rostock 1932 a Milano trent’anni dopo nulla era cambiato. Invece molto stava per cambiare in ambito internazionale.

Con le recite scaligere entravamo nell’era delle registrazioni su nastro, e tutte le esecuzioni degli ultimi sessant’anni ci sono pervenute. In linea generale direi che testimoniano di un progressivo passaggio dagli ampi tagli degli anni Sessanta alle recite complete o supercomplete del terzo millennio.

Bonynge e la Sutherland avrebbero tenuto Semiramide in repertorio fino al 1983, quando la grande australiana cantò e interpretò a Sydney le recite più riuscite del suo ultimissimo periodo. L’australiana si proponeva come soprano assoluto e tecnicamente onnipotente. La prassi di scegliere un grande vocalista del passato dalle caratteristiche affini alle proprie, e di studiare o almeno leggere, le partiture del suo repertorio per poi riproporle al pubblico come spina dorsale del proprio repertorio mi fu enunciata da Rockwell Blake negli anni ’80; era già messa in pratica da Joan Sutherland – con Francesca Cuzzoni, Adelina Patti, Nellie Melba, Sybil Sanderson - da Marilyn Horne – con il Senesino, Rosmunda Pisaroni e Marietta Alboni.

Nel giugno 1963 Bonynge e la Sutherland registrarono l’album The Age of Belcanto, tra i cui brani spiccava il primo duetto tra Semiramlde e Arsace, «Serbami ognor sì fido». Rossini nella partitura autografa lo definisce «duettino», certo per differenziarlo dal monumentale e tragico «Ebbene, a te, ferisci!». Anteprima, per così dire, di un’accoppiata storica, il duettino presenta come Arsace la ventinovenne Marilyn Horne. Il suo maggiore successo internazionale, fino a quel momento, era Marie nel Wozzeck e non è quindi strano che lo studio di un intero ruolo serio di Rossini la mettesse in crisi. Più tranquillo era suo marito, il direttore Henry Lewis, che insistette perché accettasse di cantare l’opera intera in tournée statunitense con i coniugi Bonynge, e rubò la partitura di Semiramide dalla biblioteca di Los Angeles per poter studiare insieme alla moglie. La quale ebbe crisi di rabbia e di pianto davanti al suo difficile ruolo, e si chiese a lungo quale fosse la chiave per renderlo credibile. L’ineguagliato Rossini di questa cantante si appoggia alla scuola antica: ampiezza dei fiati, timbro sempre rotondo e bello, legato costante e perfetto. Ecco ciò che Marilyn confidò di avere cercato con accanimento. Nel ’61 Richard Bonynge, quando l’aveva ascoltata per la prima volta, aveva telefonato a un dirigente della DECCA «Vieni subito, c’è una ragazza che canta come la Ponselle». Io penso anche a un altro modello e sento di avere ragione a indicarlo. Siamo tutti d’accordo che Bonynge e la Horne siano stati i principali arterfici della Rossini Renaissance. Ebbene, su specifiche domande, non citavano l’Armida della Callas, ma l’esecuzione di «Selva opaca» che la Tebaldi cantò in un Martini e Rossi del 30 novembre 1953; e lasciavano intuire che si trattava di una testimonianza vocale di importanza cruciale per loro.

L'inverno 1964 a Los Angeles ebbe inizio la vera storia di Semiramide: con l’impatto sensazionale delle due straordinarie vocaliste in recite dirette da Bonynge in forma di concerto. «Il guaio di quest’opera è che richiede non una ma quattro Joan Sutherland», iniziava la recensione del New York Times, per poi dichiarare: «Non ci si aspettava che Miss Horne avrebbe raggiunto i traguardi di Miss Sutherland. Lo ha fatto e quando queste due erano in scena i risultati erano elettrizzanti… “Ebbene, a te, ferisci!” è a livello di “Mira, o Norma”. Qui entrambe le cantanti hanno scatenato tutta la loro artiglieria, concludendo con una lunga cadenza interpolata che ha fatto crollare il teatro; e meritatamente… Ora, se solo riusciamo a trovare voci maschili a quel livello…» Invito a considerare queste parole in confronto all’estraneità estetica dei giudizi che ho riportato dal 1843 al 1962. Non che la strada rossiniana sia sempre stata lineare: quando la DECCA pubblicò la prima edizione discografica della nostra opera (Bonynge-Sutherland-Horne) il newyorkese Conrad L. Osborne sentenziò «Opera per un pubblico senza cervello… è una cosa che non si può prendere sul serio».

Il grand tour del trio Sutherland-Horne-Bonynge contornati da onesti professionisti della corda di basso e di tenore proseguì con grandissimo successo: alla Carnegie Hall ancora in forma di concerto e a Boston nel ’65 con una messa in scena in cui la Horne, incinta della figlia Angela, sfoggiava una barbetta assira sul femminilissimo viso. Qui Assur era il basso canadese Joseph Rouleau, che sarebbe rimasto per diversi anni nel “giro” Sutherland-Bonynge, dopo avere esordito in disco come Rochefort accanto alla Callas nel finale di Anna Bolena (disco EMI 1958). La Sutherland presentò tre recite di Semiramide con il mezzosoprano australiano Lauris Elms a Melbourne nell’estate ’65, nel corso di una ricca tournée che celebrava il suo ritorno in patria dopo quattordici anni e includeva, tra gli artisti, Pavarotti – non in Rossini. Anche queste recite sono reperibili in disco. Gli “altri Arsace” della signora Bonynge (Lauris Elms, Monica Sinclair) appartengono per capacità tecniche e gusto alla preistoria del Rossini serio.

Sempre in quell’anno la Horne, divenuta anch’ella star della DECCA, registrò «Bel raggio lusinghier» nell’album Souvenir of a Golden Era, un omaggio alle sorelle Malibran e Viardot. Interpretazione solenne, nella chiave originale, che scende al MI grave. La Colbran, la Alboni cantavano così, facevano questo effetto? Uno studio comparativo di questa interpretazione con quella della Berganza sarebbe utilissimo per stabilire la posizione dell’americana, la sua assoluta superiorità strumentale, rispetto a tutte le altre esecutrici del guerriero rossiniano.

La DECCA non ebbe paura di affidare a Bonynge e alla coppia sovrana la prima, e per molti anni unica, registrazione di studio, realizzata tra il dicembre ’65 e il gennaio ’66. Specchio fedele delle recite di quegli anni, presenta molti tagli, necessari e non. Il mio amico Michael Scott organizzò il debutto britannico della “missione Semiramide” all’elegante Drury Lane Theatre di Londra nel ’69. L’ultima puntata del leggendario trio fu a Chicago nel ’71, con l’Idreno del nostro Bottazzo.

Io fui presente alla mitica riesumazione di Aix en Provence nel luglio 1980, che segnava i debutti della Caballè come Semiramide e di Samuel Ramey come Assur. Era la prova generale, che la TV francese trasmise in seguito, eliminando il raccordo tra la fine della scena di entrata di Arsace e l’ingresso di Assur, iniziando direttamente da «Bella imago degli dei». Per la prima volta nel ventesimo secolo si poté ascoltare lo stupendo andante «D’un tenero amore» Arsace-Assur, sempre tagliato da Bonynge. Su YouTube video e audio non sono ben sincronizzati. Altre recite sono rimaste su nastro.

Ramey aveva già cantato Mustafà, Basilio e il Gouverneur del Conte Ory. Nitido, fluido, squillante, affrontò il suo primo ruolo nel Rossini serio. Quando era ancora sconosciuto in Europa io avevo accennato per prima a un paragone con Pasero. definendo Sam “un calibro leggerino”. Ma ad Aix dava l’impressione di una voce strapotente e non aveva paura di colorire e variare. La scena della follìa del tiranno fu tanto convincente che in seguito gli arrivarono proposte di assumersi Macbeth e Nabucco – che lui saggiamente rifiutò: era un basso-baritono, non un baritono verdiano.

Si costituì così un altro trio, Caballè-Horne- Ramey, che portò Semiramide a Parigi, ad Amburgo (debutto direttoriale di Henry Lewis), a Londra (io c’ero; alle chiamate al proscenio dopo «Va, superbo, in quella reggia» Sam e Marilyn continuavano a guardarsi, come si dice, “in cagnesco” e tutti pensammo che avessero litigato davvero), alla Carnegie Hall, con accoglienze di pubblico trionfali. A ben vedere, la Caballè stentava a imporre una linea rossiniana rigorosa e affidabile, e una volta scoppiò a ridere in scena sulla propria impreparazione. Vennero a farle concorrenza come regina babilonese molti altri soprani: Adelaida Negri, Katia Ricciarelli, June Anderson (a Roma, nell’82: cointerpreti appena adeguati e una direzione massiccia fecero sì che gran parte del pubblico lasciasse il teatro prima della fine). A studiare le cronologie di quelle stagioni - nessuna è completa, sono tutte da integrare con le altre - sembra che la nostra opera diventasse in breve la più eseguita negli anni ’80 e ’90. Martine Dupuy, Lucia Valentini Terrani e Kathleen Kuhlmann presentarono la figura di Arsace con bella professionalità; quanto all’Assur di Ramey, a me non risulta che altre voci di basso siano riuscite anche solo ad avvicinarsi a quella resurrezione di Filippo Galli che lo statunitense ha lasciato in nastro, in disco e in video.

Nell’82 a Torino Alberto Zedda impugnò la bacchetta per la prima volta in questa partitura di cui già era studioso nelle biblioteche. Ma parliamo di Claudio Abbado. Diresse un memorabile gala rossiniano a Versailles nel maggio ’85, con i più celebri cantanti di quel decennio. Tutti erano in costumi 1857 e un attore inglese rappresentava lo stesso Rossini, anch’egli spettatore, e omaggiato dai divi. Tra i contributi della Horne (in costume rosso a crinolina) c’è la gran scena di Arsace con coro «In sì barbara sciagura». La ripresa di “Sì, vendicato il genitore» è insignito delle più mirabolanti variazioni che si possano ascoltare in tutta la storia di Semiramide; ed è bellissimo vedere come Abbado canticchia insieme a lei. Dieci anni prima maestro e primadonna si erano scontrati su questo tema spinoso delle variazioni rossiniane, da Abbado osteggiate e dalla Horne poste perentoriamente come condicio sine qua non della sua presenza.

Sono i grandi cantanti che fanno evolvere la prassi operistica. Nell’86 a Nizza debuttò nell’enigmatica parte di Idreno lo statunitense Rockwell Blake. Ci volle un po’ perché potesse esibirsi (è la parola giusta) nelle due impossibili arie di questo “amoroso”; spesso soppresse anche per lui: ci volle in sostanza la registrazione del CD Encore Rossini che la piccola etichetta Arabesque gli consentì di realizzare nel giugno ’89 con il direttore Maximiano Valdès negli studi di Abbey Road. Nel corso di «Ah, dov’è il cimento» io c’ero. Ebbi la sicurezza che mai avrei ascoltato qualcosa di più onnipotente e fantasioso. Il Sutherland dei tenori.

Blake a Nizza, Giuseppe Morino a Martina Franca; in quello stesso ’86 Rodolfo Celletti volle dire la sua, e si assicurò la bacchetta di Zedda. Ma oggi che possediamo confronti amplissimi, quel cast, quelle recite martiniane non ci dicono più molto. A Vienna nell’87 in concerto e al Metropolitan nel ’90 con fastosa messinscena l’opera fu eseguita - pur con qualche taglio – nell’edizione critica della Fondazione Rossini, sotto l’occhio vigile di Philip Gossett. A New York ci fu l’addio della Horne ad Arsace e l’alternanza di due regine americane, la Anderson e la Cuberli. La direzione di Conlon non contribuì alla scorrevolezza dello spettacolo. Ramey fu poi Arsace anche a Monaco di Baviera con la Gruberova, in forma di concerto. Una festeggiatissima serata viennese dell’87 di Vienna fu condotta sull’edizione critica della Fondazione Rossini, ma con tagli. Nel ’92 alla Fenice sotto la bacchetta di Henry Lewis, debuttarono Mariella Devia ed Ewa Podles, Arsace dalle risonanze mascoline.

Dato che Ramey non era dotato di ubiquità, nel ’92 il R.O.F. presentò a Pesaro l’Assur di Michele Pertusi, che in tali circostanze è rimasto il più attendibile dei tiranni babilonesi per molte stagioni. Scoccava l’ora di una nuova registrazione di studio, governata da Ion Marin, che tuttavia non fu completissima. C’era qualche taglietto. Ma la Semiramide di Cheryl Studer, l’Arsace di Jennifer Larmore e l’Idreno di Frank Lopardo furono all’altezza della situazione. Quanto a Ramey, valeva da solo il prezzo del disco.

Nel 2001 la Fondazione Rossini di Pesaro pubblicò l’edizione critica a cura di Philip GOSSETT e Alberto ZEDDA. Ed è a questo direttore italiano che devo il mio ultimo ascolto emozionante del maestoso capolavoro di Rossini. A Bruxelles nel 2001 ascoltai una recita completissima in forma di concerto. A priori, lo confesso, temevo una dose di noia. Ma niente affatto. Darina Takova, Ewa Podles, Boris Martinovic e Rockwell Blake erano in sintonia con la concertazione di Zedda e raccontarono un poema epico fastoso ed emozionante. Il resto per me è silenzio, si sa; non credo alla sopravvivenza del canto operistico nel terzo millennio. Abbiamo qualcos’altro. Novantacinque anni di ascolti attenti – se qualcuno ha il tempo e le possibilità di farlo – possono provare quanto affermo.

Il dovere di chi dirige una testata è vigilare sulla forma e la correttezza sui contenuti, non sulle opinioni, quando queste siano espresse con argomentazioni e senza travalicare la continenza. In questo caso mi sento, però, di intervenire con una postilla: capita di non concordare con le considerazioni di colleghi e collaboratori e in questo caso, da rossiniana, sulle conclusioni dell'ultimo paragrafo (che non condivido affatto) si è acceso un amichevole ma serrato scambio privato con Gina. Potrebbe essere lo spunto per una nuova divagazione in Terza Pagina sul belcanto nel terzo millennio: chissà...
Roberta Pedrotti