Unico e molteplice

di Roberta Pedrotti

Una visita ai musei fiorentini stimola riflessioni e associazioni di idee sul rapporto fra il pubblico, collettivo e individuale, e l'arte.

L'arte è pop? A giudicare da certe code per entrare nei musei, da certi assembramenti di fronte a celebri opere, parrebbe di sì. Poi, come ogni dato, va interpretato. In termini anche solo monetari può far piacere: con la cultura si mangia, l'arte è la nostra benzina e via discorrendo a costo d'impantanarsi in luoghi comuni. Anzi, proviamo una volta tanto a evitarlo, questo pantano: sì, gli studi confermano regolarmente che le attività culturali generano un indotto economico e che, quindi, tutto il lavoro immateriale (o quello materiale legato a quest'ambito: restauro, archivistica, sartoria, scenografia etc.) in realtà ha un ritorno tangibile, oltre che un'importanza imprescindibile. Ne siamo certi per principio, se i numeri danno una mano anche nelle statistiche economiche, tanto meglio. Ma, detto questo, siamo sicuri che l'arte come fenomeno di massa funzioni? Si rischia, invero, di diventare un po' spocchiosi se si guardano con troppo sospetto i turisti che si accalcano tutti di fronte alla Primavera o alla Nascita di Venere del Botticelli, snobbando magari nella stessa sala la Pallade e il centauro. Facile chiedersi quale sia la consapevolezza con cui una massa si raduna di fronte all'opera famosa, la matrice originale dell'infinita riproduzione su poster, cartoline, magliette, borse, tazze, pubblicità. Facile rispondersi che è meglio sgomitare di fronte a un capolavoro che per carpire un selfie a un influencer, ma anche legittimo domandarsi, alla fine, cosa cambi, capolavoro o influencer, se la smania è solo quella di apparire con qualcuno/qualcosa di famoso. Facile anche dire, viceversa, che se almeno uno, nelle folle in gita scolastica o in pellegrinaggio obbligato di fronte al quadro vip, avrà lo stimolo a maturare una maggior consapevolezza sarà un'ottima notizia. Dal luogo comune all'odi profanum vulgus et arceo il passo non è poi così lungo e bisogna far attenzione a non cadere nella trappola della semplificazione o dello stereotipo né manca da una parte o dall'altra qualche briciolo di ragione e buon senso. Ma davvero abbiamo un qualche diritto, la presunzione direi, di poter giudicare la folla che ci circonda, di dimenticare che si tratta di individui singoli, ciascuno con la propria storia, le proprie esperienze, la propria sensibilità? Tendiamo l'orecchio: alcune osservazioni fanno quasi tenerezza nella loro ingenuità, alcune dimostrano una conoscenza che fa venire la tentazione di appostarci discreti per carpire qualche informazione se non si ha il coraggio di attaccar bottone, altre sembrano solenni sciocchezze, altre ancora sembrano banali e invece in fondo intrigano. Come i ragazzi che commentano i vari soprannomi dei pittori con “Avevano i nickname anche allora”: be', se è per quello è un uso vecchio di qualche millennio, ma fa bene ricordarci che siamo molto più vicini ai nostri avi di quanto si sia abituati a pensare, e anche a questo serve un museo. Entriamo in rapporto, osserviamo le opere ma anche i nostri simili che si aggirano come noi.

A volte si finisce per trovarsi spontaneamente, fianco a fianco, di fronte al capolavoro più o meno famoso, constatare che non è solo la celebrità, la pubblicità ad attrarre. A volte si sente il richiamo di una tela, o di una scultura, ci si deve avvicinare e, spesso, sulla targhetta leggiamo un nome noto. Capiamo che non è suggestione indotta, ma c'è una ragione se alcuni artisti hanno segnato la storia. Ma per capirlo meglio, val la pena anche di vagare per il museo, non prenderlo come un compito in cui inanellare diligentemente tappe comandate, stazioni delle via crucis del pellegrino culturale. No, passeggiamo, ci lasciamo incuriosire dal dettaglio insolito, dall'ennesimo cliché, dal dipinto che mai avresti detto potesse essere di quell'autore o di quell'epoca, sovvertiamo preconcetti, ci lasciamo andare a un'ironia irriverente, al fascino trash di una crosta finita lì chissà perché (forse perché non esiste un'età dell'oro che non sforni anche ferro), a libere, personali associazioni d'idee. Se ci concediamo il lusso di passeggiare nel museo seguendo solo il nostro estro del momento, il melomane finirà, per esempio, per canticchiare per ogni opera legata – esplicitamente o nella nostra immaginazione – a un'aria, a un personaggio, a un compositore (quanta musica, a Palazzo Pitti! ne ho parlato qui).

E poi c'è la teatralità, la scenografia. Qualcuno dice “cinematografico” ogni forma d'arte che sia spettacolare, di ampie proporzioni, ricca di dettagli, un kolossal, ma talvolta l'impressione più franca e meno appariscente è data da uno sguardo e da un'inquadratura che sembrano colti nel bel mezzo di un movimento. Oppure, l'azione congelata della Sala di Niobe, che ha appena ospitato la mostra in cui le sculture degli Uffizi si specchiano in quelle omologhe rinvenute a Tivoli, in un labirinto di dolori riflessi. La prima volta che vidi questa sala, in una giornata particolarmente tranquilla, ero sola a immergermi nella tragedia della madre di fronte ai figli trafitti, ma quelle immagini raddoppiate o triplicate trovavano quasi un fascino nuovo condivise nel brulicare di stupefatti spettatori.

Soprattutto fuori dai percorsi irrinunciabili, dai grandi divi museali, capita, invece, l'intimità. Perfino a Firenze, dove non è necessario imbottigliarsi solo agli Uffizi, se ci si può trovare quasi soli al Museo Archeologico, a tu per tu con la Chimera di Arezzo. Soli, davvero, in una confidenza quasi imbarazzante con il bronzo etrusco: si gira intorno, si osserva ogni angolazione, ogni distanza, la definizione anatomica, la posa, la composizione, la sintesi dinamica. Si potrebbe restare lì ore, ma arrivano due ragazze, appena adolescenti. Non sono con un gruppo organizzato, non sono aggregate a un flusso indistinto. Fanno due fotografie buffe, osservano in silenzio, bisbigliano, osservano ancora. Due amiche al museo. Poco più in là, nelle sale egizie, dei bimbi delle elementari fanno a gara per rispondere alla guida elencando divinità e descrivendo le funzioni dei vasi canopi: qui, confesso, ho sentito gli occhi inumidirsi, perché alla loro età ero proprio così, e mi entusiasmavo a parlare di Seth e Horus, di ushabti e mastabe. Non solo corredi funerari, oggetti sacri o guerrieri ci ricordano il quotidiano: fra i tessuti copti spuntano anche calzerotti di lana, berretti e babbucce, che fanno il paio con un vivido ritratto del Fayum.

Cammei che hanno del miracoloso per le perfette miniature nelle gemme medicee, utensili, oggetti quotidiani, gioielli etruschi a raccontarci gusti, lussi, commerci, esotismi antichi e attualissimi mentre, chissà perché, Vivaldi si alterna a un organo tardorinascimentale: strane associazioni che sembrano venire da chi vede “la classica” come un corpo unico e “rilassante”. Ma va bene così, scappa il sorriso mentre si passeggia in pace su e giù fra una bacheca e l'altra prima di uscire e incrociare una ragazza che esulta alla riproduzione della Chimera nell'atrio “finalmente la vedo da vicino!” Chissà cosa penserà, quando si troverà davanti, davvero, l'originale? Nella rete di infinite riproduzioni, ma anche di supporti virtuali – invero ben fatti: i siti web dei musei fiorentini sono ricchissimi – poi si incontra l'unico e si vede che l'aura di cui parlava Benjamin esiste davvero. Si vede che anche il meccanismo iperbolico della massa turistica pellegrina di fronte alla celebrità, alla fine, può avere un senso. Per esempio ricordarci che l'arte non è solo nell'oggetto in sé, ma anche nel rapporto con chi la osserva, che l'arte può e deve essere accessibile a tutti, anche se poi ciascuno la incontra a modo suo e può darsi che qualcuno non la incontri mai anche vedendosela a pochi centimetri, perché l'accesso al bello - qualunque cosa significhi -, il coltivare sensibilità, approfondimento e interesse sono un diritto, non un dovere.