di Roberta Pedrotti
Il sublime e il quotidiano si specchiano fra i musei di Padova, intorno alla Cappella degli Scrovegni.
La sindrome di Stendhal sembra una leggenda o una frase fatta, a effetto, svuotata di significato. D'altra parte, anche l'opera d'arte riprodotta all'infinito potremmo immaginare si svuoti di significato: dopo aver visto mille volte quell'immagine sui libri, sugli schermi, sugli oggetti, come potrà mai scuoterci, all'ennesimo apparire? O non sarà magari autosuggestione? Poi, succede che si entri alla Cappella degli Scrovegni con una certa tranquillità: fuori piove, non siamo nemmeno una decina, ci mostrano un breve documentario all'ingresso ma non c'è un rituale lustrale che ci faccia sentire in chissà quale situazione di mistica ascesa. Entriamo, però, e davvero si prova un sussulto. Davvero gli occhi si riempiono di lacrime e non si sa perché. Può capitare o meno, è soggettivo: a me è successo nella sala ottagona della Domus Aurea, nella Cappella Sistina, nelle stanze di Raffaello in Vaticano, di fronte alla Vittoria Alata a Brescia (lì sono proprio svenuta, ma questa è un'altra storia) e, appunto, nella cappella degli Scrovegni. Incrocio lo sguardo del pastore di fronte a San Gioacchino e come una madeleine mi fa tornare ai tempi delle medie, a un compito in cui scrissi di lui, ma lì, tutti insieme, ravvolti in quel blu irripetibile e indescrivibile, scattano e s'intessono anche collegamenti che solo nella prossimità fisica si possono riconoscere, fra le allegorie e le narrazioni. Alcuni li aveva segnalati qualche guida, qualche manuale, saggio o documentario, qualche altro ci appare nuovo ma inevitabile, immediato, come nel rimbalzare di vizi e virtù. Come la Divina Commedia, come i mosaici di Ravenna, come ogni capolavoro che costituisce un universo a sé e una chiave di lettura del mondo materiale e spirituale, anche a prescindere dalla fede.
Qui si tratta della meraviglia dell'umano che da un lato abbacina i sensi e travalica la capacità d'espressione, condannandoci magari alla retorica di frasi fatte, sprecate, usurate. La condanna della nostra inadeguatezza di fronte al capolavoro che solletica pure la ragione, tuttavia, accendendo collegamenti e correlazioni a catena nelle sinapsi dell'osservatore, che diventa attore, parte in causa nell'opera d'arte. Per fortuna le visite hanno turni prestabiliti e una sirena ci rapisce all'incanto che avrebbe potuto durare ore. Torniamo su questa terra.
Pure la Cappella degli Scrovegni è opera di esseri umani che ammiriamo con sensi e mente umani. Così, le sale dei Musei civici agli Eremitani ci mostrano delle sepolture preistoriche non solo corredi che testimoniano rango, potere, virtù guerriere, ma anche il rapporto stretto con i cavalli, inumati con i padroni, e addirittura un cane domestico ben nutrito e in ottima salute, un animale amato senz'altro. Nell'idolo mesopotamico sopravvive l'opera di un artigiano di seimila anni fa, mentre la sezione egizia racconta anche la storia romanzesca del patavino Giovanni Battista Belzoni, lo scopritore del tempio di Abu Simbel, ma anche ingegnere idraulico e in gioventù forzuto circense con il nome d'arte di Sansone di Patagonia (le didascalie dei concittadini indorano la pillola parlando di generica attività teatrale...). Un bimbo di si e no sette anni mi ferma per spiegarmi il funzionamento di un sistema d'irrigazione ideato da Belzoni, poi mi espone i suoi dubbi sull'idolo mesopotamico e mi chiede lumi. Improvvisamente i nati del XXI secolo parlano con chi li ha preceduti di secoli o millenni, come se fosse la cosa più normale del mondo.
La cosa si fa ancor più evidente quando, dopo aver attraversato le sale che dal medioevo avanzano avvicinandosi a noi, ammiriamo l'esposizione dei Centoquattro disegni di Pulcinella di Mimmo Paladino, ispirati ai Divertimenti per li regazzi del Tiepolo. Una relazione artistica a distanza che dal fiabesco assume tratti anche inquietanti nei riferimenti a religione, morte, sessualità e gravidanza. Se poi passiamo a Palazzo Zuckermann, la quotidianità diventa in massimo grado arte e memoria, sia per l'oggettistica che talora, lontana nel tempo, resta simillima, sia per quegli utensili o arredi che invece risultano incomprensibili nelle funzioni desuete, ma affascinanti come fossero opere di design attuale. E bastoni da passeggio, spade, curiosità (per esempio una sorta di santuario dell'imperatore del Messico Massimiliano d'Asburgo allestito da un suo amico patavino: le rivoluzioni d'oltreoceano non stanno solo sui libri, ma passano anche di qui), orologi d'ogni sorta, abiti d'epoca, le fogge moderne che prendono forma fra un aggiustamento, un rammendo, una giacca rimodellata per una corporatura diversa. Oppure le monete della sezione numismatica, quando trovare una bacheca dedicata ai bitcoin o euro nuovi di zecca ci aiuta a ricordare che tutto quello che vediamo esposto è stato appena fatto, d'uso comune, normale, ordinario. Anche le valute che tenevamo nel portafoglio qualche anno fa, i gettoni del telefono che valevano duecento lire, i cambi che ogni viaggio ci obbligava a effettuare. E, tornando indietro, gli assegnati che giusto il melomane spolvera dai ricordi scolastici per la citazione in Andrea Chénier, via via le banconote e le monete che sono passate di mano in mano secoli fa come oggi (e non necessariamente solo in forma materiale).Se poi vien voglia di fare due passi e pensare che la bellissima Piazza delle erbe era ed è, in fondo un mercato, si deve anche pensare che il colpo d'occhio straordinario della grande sala del Palazzo della Ragione, nella sua deserta vastità istoriata, nacque con tutt'altro aspetto, brulicante di liti, contese e giudizi fra simboli che delimitavano spazi come aule di tribunale, sede di contratti, riferimenti araldici, storici, astrologici, simboli e allegorie funzionali all'uso. E pensare che ora abbiamo solo tre oggetti, quasi istallazioni, ma in origine parte di una sfarzosa festa cittadina (l'immenso cavallo ligneo ispirato a Donatello), luogo di pena (la pietra del vituperio, dove i condannati dei debiti sancivano la confisca dei loro beni), evidenza di scienza (il pendolo di Foucault che mostra la rotazione terrestre e ci rammenta il nostro posto nell'universo). Nulla è come sembra, o, forse, tutto è molteplice e porta in sé la storia di infinite metamorfosi, degli sguardi di tutti coloro che hanno vissuto, osservato, toccato quegli spazi e quegli oggetti. L'utensile che ci sembra banale e quello che ammiriamo in una bacheca, lo spazio che attraversiamo distratti e quello dove ci soffermiamo a bocca aperta, l'allegoria dello zodiaco e la fisica del moto terrestre in fondo non sono sempre così lontani. Soprattutto se, di fronte alle ordinate bacheche di una raccolta numismatica, rigiriamo una monetina in tasca e ci ricordiamo dell'ambizioso erede di una famiglia di banchieri e usurai desideroso di esibire i suoi mezzi e lavarsi la coscienza, Enrico Scrovegni.