La posa di Violetta

di Gina Guandalini

L'accostamento fra le fotografie delle due dive nell'identica posa suscita riflessioni su un parallelismo e una continuità nell'iconografia teatrale, nello stile della recitazione e nel rapporto con la regia.

Il casuale rinvenimento – per dirla tutta, su una bancarella - della versione originale in cartone pesante di un’antica foto di Eleonora Duse mi porta a riflettere sull’influenza a lunghissimo raggio di questa artista non solo sulla prosa ma anche sull’opera lirica del Novecento. Si tratta di un ritratto della divina Eleonora nel personaggio di Gilberta nella commedia Frou Frou di Henri Meilhac e Ludovic Halévy (autori del libretto della Carmen e di molte commedie di successo) realizzato dal fotografo francese Henri Le Lieure. È una posa ben nota: l’attrice è ritratta dai fianchi in su con le dita leggermente incrociate e appoggiate al mento; lo sguardo è rivolto in basso; indossa un leggero abito bianco con festoni di fiori scuri; ha i capelli raccolti sulla nuca e sul sommo del capo, con frangia arruffata; i lunghi guanti coprono solo l’avambraccio perché le “mani” sono state sbottonate e sfilate;l’abito sfoggia un “sellino” sul retro. Mi è abbastanza agevole datare la foto, perché in basso reca scritto “H. Le Lieure – Rome – piazza Mignanelli 23”. Il francese Henri Le Lieure aprì uno studio fotografico a Torino nel 1856 e i suoi ritratti furono subito richiesti; introdusse tra i primi in Italia un particolare tipo di stampa meccanica denominato “fotogliptia”, per il quale fu premiato anche all’Esposizione di Torino del 1871. In quell’anno si trasferì a nella capitale, ritraendo il Re Vittorio Emanuele, deputati italiani e personalità sabaude. Nel 1880 Le Lieure acquisì l’atelier e l’archivio di Henry Zinsler, fotografo della nobiltà romana. La Duse scrisse a sua moglie – che evidentemente lo assisteva - un biglietto non datato, all’indirizzo “Piazza Mignanelli 23”, firmandosi “E. Checchi” con il cognome del marito Tebaldo: «Voi mi avete fatto bellina, un musino... ora gaio - ora triste e pensoso - e sopra tutto così Froufrou... che io sento, se mi dura questo entusiasmo finirò come Narciso…Voglio domani fare qualche posa della povera Margherita. Conserverò i vostri ritratti fino alla fine di mia carriera». La foto in mio possesso è stata dunque realizzata tra il 1880 e il 1882, quando lo studio De Lieure risiedette appunto a piazza Mignanelli. Nel luglio 1882 la grande attrice debuttò a Firenze in due ruoli molto importanti per la sua carriera, Gilberta in Frou-Frou (spesso descritto come anticipazione della Nora ibseniana di Casa di bambola) e soprattutto Margherita Gauthier in La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio.

Nel Museo della Scala c’è il ritratto della Duse in questa stessa posa, ma l’abito è a fiori rossi. È probabilmente ricalcato della foto di Le Lieure eseguito del pittore bavarese August Friedrich Kaulbach, meglio noto come Friedrich von Kaulbach (1850-1920). Secondo le note biografiche, questo artista, figlio del pittore Wilhelm, si specializzò in ritratti a partire dal 1883. Nel web il quadro è spesso attribuito a “Eduardo” – in realtà Edward - Kaulbach, che fu un pittore londinese di cui poco si sa al di fuori della patria e la cui presunta data di morte (1882) lo rende comunque un candidato improbabile

Eleonora DuseDopo un ritiro di dodici anni, interrotto soltanto dalla lavorazione del film Cenere nel ’16, Eleonora Duse tornò alle scene il 5 maggio 1921 a Torino nella Donna del mare di Ibsen, suo antico trionfo. Accorsero i più importanti critici teatrali e giornalisti da Silvio d’Amico al giovanissimo Piero Gobetti. Con la madre, Donna Carla Erba, c’era anche Luchino Visconti quattordicenne. In un’intervista rilasciata a Il Giorno nell’ottobre 1958 abbiamo il suo ricordo: «Io l’ho sentita che ero giovane, la Duse. Un’emozione enorme, un incanto, non so come dire: probabilmente di Duse ne viene una al secolo. Mettiamo che oggi la Duse fosse tra noi e che uno la chiamasse per recitare Gli spettri, ecco. Probabilmente lei avrebbe la sua concezione di quella recitazione. Però, essendo passati alcuni anni da quando lei li aveva fatti per la prima volta, sono convinto che oggi si piegherebbe a certe cose, o capirebbe, le avrebbe capite, ne sono sicuro. Durante la sua carriera, infatti, la Duse si è trasformata continuamente, ha continuato a cambiare stile, ha capito i testi, ha avuto bisogno di testi diversi, ha gettato via la paccottiglia di testi, era una donna così. Era un talento particolare, era un fenomeno particolare... Quando la sentii allora – ero ragazzino – rimasi addirittura senza fiato. Che si potesse recitare così non lo capivo neanche. Ricordo che domandai a mia madre: “Ma recita, o cosa fa?”. Perché non pareva che recitasse... Dunque lei era avanti, avanti, avanti, già prossima a tutto quello che è venuto dopo di lei, le aveva già capite tutte, aveva intuito. Recitava il primo atto de La donna del mare. Io dissi: ‘Ma sta recitando, o parla con Ermete Zacconi, che fa?’. Recitava, invece, recitava: diceva delle cose, faceva dei disegni in terra con l’ombrellino, cose che molte hanno fatto, ma assai dopo, appunto». Visconti lasciava intuire che il pubblico italiano più snob degli anni Venti riteneva Eleonora Duse un fenomeno sorpassato, legato al dannunzianesimo, ma ancora capace di ispirare gli appassionati del teatro. Lo scenografo e costumista Piero Tosi ricordava il racconto di Visconti così: «A un certo punto arriva una voce lontana fuori scena, e si avverte in platea un fremito, una palpitazione. La sensazione del mare. Entra una donnina con i capelli bianchi, Luchino la trova brutta; lei si siede su una panchina e con un ombrello scrive sulla sabbia, scrive e poi cancella, recita a testa bassa, nessuno allora avrebbe osato tanto…»

La panchina, l’ombrellino, i sussurri: come non pensare a Maria Callas nella scena del secondo atto della Traviata che Visconti inscenò per lei alla Scala nel 1955? Da Tosi ci viene anche l’ennesima conferma che la Callas fu una grandissima Violetta ancora prima di lavorare con Visconti. Per il suo debutto nel grande ruolo verdiano, a Firenze nel 1951, il giovane scenografo ebbe l’incarico di aiutarla nella scelta dei costumi. Durante una prova dell’ultimo atto, la vide sedersi a fatica a una piccola toilette, davanti a un piccolissimo specchio. Si sedette col viso tra le mani, volgendo le spalle al pubblico. «Il fantasma della Duse o della Bernhardt era là sulla scena, davanti ai miei occhi» , rievocava Tosi; «Vin quell’istante compresi la grandezza del melodramma» .

Ma torniamo alla divina Eleonora: Silvio d’Amico ne recensì subito il ritorno, con commozione; poi due giorni dopo diede una interessante descrizione del“non recitare” ricordato da Visconti: «Era senza cappello, scoperte le belle e abbondanti chiome grigie e – poiché Ellida ritorna dalbagno avvolta in una sciolta vestaglia – teneva in mano, chiuso, un minuscolo ombrellino, non per il manico, ma per la punta; col manico veniva disegnando distrattamente in terra, seduta sotto il chiosco, mentre parlava. Come parlava? Ah, questo è difficile, è impossibile ridire. E chi non l’ha ascoltata, non riuscirà a farsene un’idea, pur con tutti i paragoni e tutti i possibili richiami alla attrici più note che l’hanno imitata e la imitano. Parlava… come tutte le donne parlano nella vita e come non parla nessuna: con una verità così semplice e fresca, che il suo sembrava il più facile e naturale eloquio del mondo. Non arte, ma vita: vita di tutti i giorni: e tuttavia quelle sue frasi, che prese una per una appaiono - sebbene a poco a poco costruiscano il dramma - così comuni e quasi indifferenti, erano tutta una melodia di toni leggeri, fuggevoli, aerei, soffi di uno spirito esalante un tenue canto, una inquietudine senza posa, anelito a un infinito, indicibile bene. Che cosa ha ascoltato il pubblico del primo atto? Niente altro che questo suo parlare, in una conversazione familiare. Era insieme un discorso quieto e un canto». (Curiosamente nella raccolta di costumi e memorabilia dusiani, al Museo Civico di Asolo, quel parasole è contrassegnato “Ombrellino di Mirandolina”)

Nel 1974 uscì un sontuoso volume fotografico Callas: “The Art and the Life di Gerald Fitzgerald, vicedirettore del newyorkese Opera News. Era una compilation di ricordi quasi interamente inediti di Visconti, Zeffirelli, Margarita Wallmann. Sandro Sequi, Piero Tosi, Nicola Benois, Gianandrea Gavazzeni, Carlo Maria Giulini, Nicola Rossi Lemeni e Franco Corelli., a commento di una serie di bellissime foto degli spettacoli scaligeri e londinesi della Divina. Il libro viene di solito accreditato a John Ardoin, il critico texano che molto studio ha dedicato alla sua amica personale Maria, e che qui contribuiva con due saggi. Ma è Fitzgerald ad aver raccolto materiale prima inimmaginato. Materiale che è poi stato saccheggiato infinite volte da chiunque si sia occupato della Callas e degli autori delle dichiarazioni. E che ha finito per non avere più copyright o paternità. A Fitzgerald Visconti dichiarò che aveva creato la Traviata alla Scala per la Callas, non per se stesso; per servire la sua personalità di artista: «Lila De Nobili e io spostammo l’epoca alla fin de siècle, perché Maria sarebbe stata stupenda nei costumi di quell’epoca: era alta e snella, e in un abito con un busto stretto, il sellino, un lungo strascicolo strascico, sarebbe stata una visione. Per la mia regia l’ho modellata un po’ sulla Duse, un po’ su Rachel, un po’ sulla Bernhardt. Ma più che altro avevo in mente la Duse» . È chiaro che il motore ispiratore di quello spettacolo, che spostava la storia di Violetta dal 1845 a fine Ottocento, è da identificare nelle pose della Duse in Frou Frou del 1882.

Maria CallasNon esistono molte artiste vicino alla Duse più di quanto lo fu la Callas – nell’arte e nella vita. Non erano classicamente belle. Entrambe furono chiamate Divine, ebbero una vita privata non felice, mariti-manager più o meno efficaci, scelsero uomini discutibili e distruttivi, crearono e si crearono una vasta cultura, girarono un solo film. Entrambe ebbero la reputazione di donne difficili. Furono volta a volta tigri e ingenue vittime. Quattro recite dell’opera verdiana nel maggio-giugno 1955 e diciassette tra il gennaio e il maggio ’56 crearono diversi miti: la Callas immensa attrice a livello dusiano, Visconti potente innovatore del melodramma italiano, le regie libere di spostare a piacimento l’epoca dell’opera; e in generale una concezione della rappresentazione lirica in cui la “cornice” è tanto importante quanto il quadro (il canto e la concertazione) se non di più. Di quella Traviata callasian-viscontiana non rimangono purtroppo che due registrazioni audio e molte foto in bianco e nero. L’imitazione della Duse, con le mani intrecciate sotto il mento e gli occhi bassi, i guanti bianchi a coprire solo l’avambraccio, fu posta in atto dalla Callas – sotto la guida minuziosa e inflessibile del regista milanese - nel primo atto dell’opera: dapprima quando è seduta su un pouf durante il ricevimento nel suo sontuoso, soffocante salotto; poi in piedi davanti a un grande camino stile impero sovrastato da un’immensa specchiera presso la quale Violetta medita. Bozzetti e figurini furono disegnati da Lila De Nobili, come pure i gioielli indossati nelle due feste. Tra spettatori e recensori ci fu una gara a individuare riferimenti storici e pittorici di questa dama costruita da Visconti e dalla prodigiosa pittrice. Tutti pensarono subito alla Nanà di Emile Zola. Visconti impose moduli visivi e scenici di spiccato realismo, all’epoca sconcertanti e oggi visti e rivisti, triti, come ad esempio cantare in ginocchio. Nella vicenda verdiana si vide per la prima volta una mantenuta di altissimo bordo che spesso si ferma a pensare – proprio come la Duse nelle sue interpretazioni. Fu una Traviata di rottura dove per la prima volta Violetta era una prostituta e si capiva, non una soubrettina tutta merletti e gorgheggi. Eugenio Montale citò Fantin Latour, l’affare Dreyfus, il Salon d’ Automne, un odore di impressionismo e tra i momenti magici dell’interpretazione callasiana segnalò in primis la recitazione: «Bisognerebbe scrivere molte pagine per illustrare ciò che ella ottiene in ‘Dite alla giovine’ cantando come una cosa morta, come uno straccio inanimato». Su L’Unità Rubens Tedeschi iniziava dall’attrice: «…il quadro si compone in uno stile che ricorda Manet, Rénoir …Osservate il movimento drammatico che accompagna la scena della violenza di Alfredo… Ma soprattutto avvertite l’infinita serie di minuti particolari che formano il carattere di Violetta dalla leggerezza un po’ sfacciata del primo incontro al lento ripiegarsi su stessa, sempre più donna, più sensibile, man mano che il dolore la matura. Guidata da Visconti, la signora Callas ha questa volta veramente superato se stessa: la stessa interpretazione musicale del personaggio si è approfondita e arricchita, raggiungendo effetti di reale commozione soprattutto dal II atto in poi.»

A chi scrive viene prima di tutto in mente Mme Michèle de Burne del romanzo Notre coeur di Guy de Maupassant, del 1890. In esso uno scrittore che si diletta di analizzare le donne del suo tempo classifica la bella signora «tra le squinternate contemporanee, razza nuova di donne agitate da nervi di isteriche ragionevoli, stimolate da mille desideri contraddittori che non riescono nemmeno ad essere dei desideri, deluse di tutto senza aver goduto niente, che, senza ardore, senza slancio, sembrano riunire capricci di bambine viziate con aridità di vecchie scettiche». Sul piano della descrizione fisica il protagonista nota «la sottigliezza della vita e la snellezza delle anche , sotto le spalle ampie e il petto pieno…Il vestito si trascinava e torceva dietro di lei, sembrava allungare sul tappeto un corpo senza fine ed egli pensò con crudezza ‘Oh, guarda! Una sirena…’» Sottolineava questa “ricostruzione 1880” Giuseppe Patroni Griffi: «Non sapevi se lassù c’era la Duse o la Callas, tutto ti coinvolgeva, emanava calore, tutto era umano pur restando nel ‘grandioso’ della grande opera dell’Ottocento, e tutto scaturiva giusto ed esaltante da quel demi-monde senza essere appiccicaticcio.»

Claudio Arrau, il grande pianista cileno, era tra gli spettatori di quello spettacolo e ricordava «Una delle più grandi esperienze che ho avuto nel teatro d’opera…Prima dell’aria del primo atto stava in piedi di fronte a un caminetto che bruciava veramente sul palcoscenico. Si scioglieva i capelli giù per le spalle, si sfilava le scarpe con un gesto grandioso e poi cantava. Era un grande momento…e così fu la scena della morte. Qui la Callas colorava la voce di pallore e si muoveva con gesti estenuati che terminavano nella debolezza più totale, come se non avesse avuto la forza di portarli a termine.»

Ho rintracciato la testimonianza di un’attrice storica, Emma Gramatica, spesso collega della Duse. Scrisse per il Corriere d’informazione le sue impressioni di quella Traviata: «…il mio animo di spettatrice è andato molto lontano nel tempo: ai ricordi d’infanzia.. Ascoltando una Traviata per me inedita il mio cuore è tornato subito ad un ricordo antico.. ‘Vedo’ un camerino di anni lontani, e la Duse, cha dà la sua voce all’amore e al dolore di Margherita, nell’intervallo che precede l’atto in cui Armando la sferzerà con il suo insulto. Rivedo, nella memoria, la Duse che voleva apparire — come ella diceva — ‘ vestita di niente’. Era irremovibile. Voleva esser vestita solamente di tanti e tanti metri di crespo, chiaro e velato e tenuto su con tanti spilli, con una infinità di spilli. Mia madre insisteva perché indossasse un abito di Worth, la signora Duse rispondeva: ‘ Per questo abito il mio Worth sei tu… Margherita in questo atto non è più che una anima che sta per spegnersi per il male e l’umiliazione della ferita che deve sopportare’. Mia madre, con il suo buon senso, rispondeva : ‘Il pubblico vede entrare Margherita in una grande serata di festa, accompagnata da un uomo ricco. Come si può spiegare il pubblico che il Barone di Varville, ricco sfondato, vesta di niente la sua amante? ‘. Mi sembrava, dal palco della Scala, di rivedere la scena, nell’attimo bellissimo in cui Alfredo rincorre su per la scala Violetta che tenta di sottrarsi alla sua furia gelosa, e trascina Maria Meneghini Callas sin quasi alla ribalta dove il duetto continua concitato sotto agli sguardi stupiti degli invitati. La cantante arrivava al vertice più intenso del dramma di Violetta. Cantante e attrice, le due figure, i due sentimenti, le due tecniche teatrali convergevano, in un quadro scenico che solo la Scala può dare. Già al primo atto — se si escluda, quando Violetta resta sola nella sua casa dopo aver ascoltato per la prima volta le parole d’amore di Alfredo, il lancio delle scarpette dai piedi stanchi che, devo dirlo, dal punto di vista registico mi ha lasciata perplessa — lo spettacolo rivelava le sue qualità di stile, con le luci discrete dei vecchi lumi a globo, con quel lampadario che dà un rilievo abilmente attenuato al colore dei costumi deliziosamente goffi delle ‘dame’… L’alta snellissima figura dell’interprete pareva che fra tutte quelle cose e quelle persone quasi scivolasse e folleggiase veramente, nell’atto di porgere ai suoi invitati sorrisi, baciamani e calici di champagne. Un momento di perplessità, l’ho detto, per quel lancio delle scarpette: una mia personale perplessità di attrice, dal fondo del palco. Ma subito dopo Violetta siede accanto al fuoco del caminetto: si scioglie i lunghi capelli e il canto di lei si unisce a quello di Alfredo che sale dalle quinte. I due momenti che più mi hanno commosso in questa interpretazione della Traviata sono quando Violetta, al secondo atto, accetta dal padre di Alfredo la condanna a separarsi per sempre dall’amato, e quando, nel momento del distacco, si raccoglie tutta ai piedi di Alfredo. Commozione per il sospiro di “Dite alla giovane”, e commozione per quell’ultimo addio, per quell’abbraccio scenicamente reso come solo una vera e grande artista drammatica può rendere. Dovrei dire, per il quarto atto, che lo scenario non mi ha dato, per quanto disadorno, la sensazione che Violetta si trovi in povertà. La scena è troppo vasta, i personaggi entrano in casa dell’ammalata da un giardino che sembra aperto a tutti: tengono tutti i loro soprabiti e Alfredo non si leva il suo, con il collo di pelo, nemmeno davanti a Violetta che muore. In ogni modo la personalità di Visconti, anche se in qualche cosa da lui si può dissentire, è tale da indurre a chiedersi quali miracoli di romantica verità del tempo avrebbe saputo trovare con la sua fantasia se, nella sua regia, fosse rimasto più vicino al clima romantico che ispirò Verdi. Ma la scena della morte di Violetta riesce di toni bellissimi, con quel vaneggiamento e quel cadere finale, di schianto, non fra le braccia dell’amato ma quelle di un altro che la raccoglie. Dire qualcosa della prodigiosa artista che è la Meneghini Callas, da parte di una ignara del canto quale sono io, sarebbe quasi ridicolo. Io l’ho ascoltata come può ascoltarla una attrice. Nella parte di Violetta non serbo, di altri cantanti, se non il ricordo della grandissima Muzio. In quanto a Margherita — come è il nome della Signora dalle camelie — ho, come ho detto, il ricordo della Duse, che nella mia lontana memoria di bambina incarnava la creatura di pena e di amore come una cosa sola con se stessa: e il ricordo del volto inconfondibile di Greta Garbo, Margherita squisita e perfetta. Maria Meneghini Callas compone il suo personaggio con tale bravura e sicurezza, e profondità drammatica che essere insieme una grande artista lirica e una grande artista drammatica. Quanto di questa potenza drammatica le sia stato ispirato da Luchino Visconti si può intuirlo. Ma quella potenza è ormai diventata tutta cosa sua: un sentimento del quale è padrona».

Carla Erba, la madre di Luchino Visconti

Contrario all’“operazione Duse” fu notoriamente Teodoro Celli, fino a quel momento il più entusiastico ammiratore della Callas tra i giovani critici dell’epoca: «Ha dovuto cantare in condizioni a volte pazzesche, con i lunghi capelli sulla faccia o divincolandosi come mai Medea si divincolò, o accasciata per terra con le mani sul viso, o abbacchiata sopra il tavolo di toeletta…[ Ha aggiunto] all’affannato ‘Tu m’ami, Alfredo, non è vero?’ un veristico piagnisteo…Quell’artista che è stata grande proprio per aver liberato l’interpretazione melodrammatica da ogni verismo…». Giuseppe Pugliese, callasiano della prima ora, fu anch’egli negativo. Una “contro-Traviata” Tebaldi-Serafin, non a caso con un regista anonimo, tale Giovanni Paolucci, inaugurò il 19mo Maggio Fiorentino il 6 maggio 1956 (data dell’ultima Traviata della Callas alla Scala). Pugliese scrisse: «Clima psicologico tesissimo, arroventato, tono polemico…l’edizione scaligera…limitata a una funzione secondaria l’opera del direttore d’orchestra, per l’invadenza registica e protagonistica, a noi è parsa uscire da un locale esistenzialista di Saint-Germain-des-Prés di Parigi. La Callas, trasformata in una specie di Juliette Gréco della lirica, ipnotizzata dal regista, con la perdita graduale ma irrimediabile della sua poeticissima personalità…ha esasperato fino all’inverosimile l’indagine introspettiva del personaggio, spesso deformandolo, facendo prevalere in modo assoluto un suo personaggio sul canto e sulla musica; il gesto, l’atteggiamento, sulla bellezza dell’espressione vocale, riuscendo a qualcosa di tetro e, con la complicità di Visconti, persino di lugubre». 1882-1921-1955: una staffetta di suggestioni teatrali.

Nel centenario esatto della nascita della Duse,il 3 ottobre 1958, al Teatro Quirino di Roma andò in scena una singola serata commemorativa, Immagini e tempi di Eleonora Duse. Lo spettacolo fu fortemente voluto e organizzato dal massimo studioso ed esegeta dell’attrice nel Novecento , Gerardo Guerrieri. Con sua moglie Anne d’Arbeloff e il loro Teatro Club attivo da un anno, in collaborazione col Centro Sperimentale di Cinematografia, Guerrieri presentò una rassegna visuale che comprendeva parte del film muto Cenere. La regia di quella serata speciale fu curata da Visconti, di cui Guerrieri fu amico, consulente e collaboratore (era anche stato regista, otto anni prima, del Turco in Italia di Rossini con la Callas sempre a Roma, al Teatro Eliseo).All’Eliseo, in quell’ottobre ’58, Visconti stava provando Veglia la mia casa, angelo (di Ketti Frings dal romanzo di Thomas Wolfe). Era l’uomo giusto per dare vita a quell’evento irripetibile. Creò un apparato scenico costituito da grandi foto della Duse che mostravano gli aspetti cangianti del suo viso e del suo corpo. Una conferenza di Guerrieri venne letta a turno da Edmonda Aldini, Lilla Brignone, Tullio Carminati ( che lesse con commozione anche l’ultima lettera che la Duse gli aveva scritto), Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Vittorio Gassman, Emma Gramatica ( che recitò inoltre un brano dellaCittà morta), Rina Morelli, Romolo Valli. La serata non ebbe il successo che meritava: la scena finale di Casa di bambola, recitata in inglese da Luise Rainer e Robert Brown, annoiò pubblico e critica; Mario Pannunzio notò sulMondo il misterioso malumore di due attrici. Cominciarono così ad accumularsi le delusioni per Gerardo Guerrieri, culminate nel fallimento del suo grande progetto: scrivere la biografia di Eleonora Duse. Con trent’anni di ricerche in tutte le maggiori biblioteche di Europa, Russia e America; con una mole di schede che ne seguivano l’esistenza giorno per giorno, dal debutto alla morte. Quando venne infine la possibilità di mandare in stampa questo materiale prezioso, non fu possibile a Guerrieri compilare che un numero ridotto di pagine. Nel 1986 si suicidò.
Nel lavoro di Visconti la Duse ritornò. Nel suo ultimo film, L’innocente, c’è una scena proustiana: il protagonista Tullio Hermil (Giancarlo Giannini) assiste alla toeletta della moglie (Laura Antonelli) che si prepara ad uscire con cappello, profumo, fitti veli. Il grande regista chiese a Piero Tosi di creare per la Antonelli un cappello «che aveva visto indossare alla Duse». Ma poi passò a descrivergli la propria madre, Donna Carla, quando si abbigliava per andare alla Scala, con metri e metri di tulle intorno alla persona. Il groviglio edipico si mescolava alla passione per il teatro.