Quasi ogni giorno

di Roberta Pedrotti

Dopo un anno animato da una media di circa uno spettacolo ogni due giorni, la direttrice dell'Ape musicale volge uno sguardo ai dodici mesi appena trascorsi. 

Il 2023 dell'Ape musicale

Nel 2023 ho pubblicato sull'Ape musicale centoventotto articoli. Tre interviste, due cd, quattro pezzi su mostre e musei e uno sui concerti dello scorso capodanno in tv, sessantuno opere, cinquantacinque concerti e un balletto. Questo senza considerare che alcuni articoli rendono conto di più recite di una stessa produzione con cast diversi, o comprendono più eventi di una stessa rassegna, oppure che qualcosa a cui ho assistito (un concerto dell'Orchestra Rai, il Requiem di Verdi a Santa Cecilia e un altro concerto per i Pomeriggi musicali di Milano) è stato recensito sull'Ape musicale da altri collaboratori. Qualche concerto, poi, non è stato proprio seguito per questioni di coinvolgimento personale. Non sono portata per la catalogazione, ma penso che alla fine il numero di spettacoli visti nel 2023 possa perfino superare il ritmo di uno ogni due giorni. Qualcuno mi dice fortunata e senz'altro mi sento tale, per quanto si debba sempre stare attenti a non sopravvalutare la quantità, a non lasciarsi intrappolare nella bulimia e non considerare il valore della stasi e del silenzio, fondamentali per meditare e metabolizzare quanto si è visto e sentito.

La fine dell'anno è proprio il tempo della riflessione e dei bilanci e dunque scorro le esperienze del 2023 raccogliendo le idee. Nomi, sì, ma anche temi. Le idee che si affastellano sono, però, in realtà tali e tante che mi accompagneranno ancora per questo e altri anni. Dopotutto nel 2023 abbiamo festeggiato il decimo compleanno dell'Ape musicale con lo slancio per continuare a ragionare ancora per almeno altrettanti.

Innanzitutto, il 2023 è stato un anno in cui ho potuto lavorare molto con i giovani: sono tornata per delle lezioni all'Accademia del Maggio Fiorentino e in un seminario, sempre organizzato dal Maggio, per studenti liceali; ho collaborato con l'Accademia Verdiana di Parma; ho seguito due spettacoli dell'Accademia della Scala, con la loro orchestra e, in un caso, il corpo di ballo. Ogni volta mi commuove vedere dei ragazzi che decidono di intraprendere la strada dell'arte e mi riempie di gioia potermi confrontare con loro, interagire sui temi della critica musicale e, nel confronto, imparare anche molto sul mio lavoro.

Se, poi, dobbiamo passare al classico “best of” dell'anno trascorso, comincio con i titoli: Napoli milionaria! a Cremona, Pelléas et Mélisande a Piacenza, The Rake's Progress a Firenze, Il barbiere di Siviglia a Verona, Carmen a Macerata, Eduardo e Cristina a Pesaro, La Ciociara a Wexford, il Donizetti Opera, Don Carlo a Brescia e La rondine a Jesi sono, per ragioni diverse, gli appuntamenti con l'opera per me più significativi dei dodici mesi appena trascorsi.

Se devo – ce lo si aspetta, in questi frangenti – elencare degli artisti per categorie, fra i soprani dirò senz'altro Marta Torbidoni, Alessia Panza, Martina Gresia, Claudia Pavone, Giuliana Gianfaldoni, Sara Blanch, Gilda Fiume, Mariangela Sicilia, Asmik Grigorian. Fra i mezzosoprani Raffaella Lupinacci, Teresa Iervolino, Caterina Piva, Chiara Amarù, Adriana Di Paola, Irene Savignano, Benedetta Mazzetto, oltre all'affettuosissimo ritorno di Daniela Barcellona a Pesaro. Potrei citare anche qualche altra diva, ma preferisco sottolineare prevalentemente altri percorsi.

Fra i tenori ho due eroi rossiniani: l'eterno Antonino Siragusa, che ha debuttato nel 1997 a Pesaro e rimane l'irrinunciabile salvatore di tante produzioni, ed Enea Scala, che si sobbarca l'onere di un repertorio impossibile, grand opéra compreso. Non posso non ricordare anche un toccante Gregory Kunde nei Pagliacci a Parma, né la promessa di Paride Cataldo in Don Carlo o l'ottimo risultato di Matteo Falcier nella Rondine o ancora Marco Ciaponi in Don Giovanni e (incredibile!) Nabucco, ma una segnalazione speciale credo la meriti Vasyl Solodkky, sentito nel Requiem di Verdi a Roma e poi come Fenton a Busseto e come Prunier nella Rondine a Jesi.

I baritoni confermano i nomi Nicola Alaimo, Luca Micheletti, Amartuvshin Enkhbat, Vladimir Stoyanov, Roberto De Candia e Alessandro Corbelli con Marco Filippo Romano, Vito Priante e Davide Luciano. Tenete, però, d'occhio anche Lodovico Filippo Ravizza. Parimenti, fra i bassi si conferma l'ascesa del giovane Giorgi Manoshvili, si conferma la grandezza di Michele Pertusi, Carlo Lepore ha siglato un'annata maiuscola per me iscritta fra il suo Bartolo areniano e il Filippo II bresciano, Roberto Tagliavini è un eccellente artista non sempre ricordato come merita e Riccardo Fassi ha pure dato un'ottima prova a Pesaro.

Quanto ai direttori, Teodor Currentzis, Marc Minkowski, Philippe Herreweghe in concerti, Riccardo Chailly sentito solo nell'opera, Daniele Gatti e Alessandro Bonato in opere e concerti mi hanno offerto le interpretazioni più interessanti e curate dell'anno. A loro aggiungo una promettente new entry: Martijn Dendievel, che ha Bologna ha offerto prove assai buone pure in opera e concerto. Mi ha fatto, poi, piacere ritrovare begli esempi di una generazione di ottimi musicisti come Bisanti, Lanzillotta, Cilluffo, Bignamini e riscoprire Giovanni Antonini con un bel Beethoven a capo della Theresia Orchestra.

Quanto ai registi, dopo Il barbiere di Siviglia a Macerata nel 2022, con Carmen sempre allo Sferisterio Daniele Menghini si conferma uno dei registi italiani per me più interessanti dell'ultima generazione. A movimentare il panorama c'è anche Andrea Bernard che ha rifatto capolino con un Don Carlo tale da far drizzare le antenne a molti. Poi, mi piace citare due musiciste, cantante e pianista, che si sono date alla regia non come ripiego, ma con reali competenze corroborate da esperienze e conoscenze musicali: Stefania Bonfadelli e Rosetta Cucchi.

Quanto agli strumentisti solisti, gli ultimi ascoltati in ordine di tempo sono due pezzi da novanta: Arsenii Mun (che mi ha colpita più del pur bravissimo Mao Fujita) e Francesca Dego, ma questo è stato un anno generoso, in cui elenco alla rinfusa Ettore Pagano e Nicolas Altstaedt, Martha Argerich, Grigory Sokolov, Mikhail Pletnev e poi Baglini, Armellini, Libetta, Cardaropoli, la tromba di Andrea Lucchi e la chitarra di Eugenio Della Chiara, senza poter enumerare qui tutti i bei concerti delle Trame Sonore mantovane.

E, a proposito di Trame Sonore, questo è stato un altro anno di Festival: Pesaro, Verona, Macerata, Parma, Bergamo, ma anche Mantova, Montepulciano, Siena, Montalcino e, all'estero, Tours e Wexford. Per la rassegna francese e quella irlandese nutro un affetto particolare perché sono luoghi dove si respira una passione genuina e dove il pubblico dà l'idea di andare a teatro per amore, per goderselo, non per dimostrare qualcosa e spaccare il capello il quattro. Il che non vuol dire essere acritici, solo più sereni. La stessa sensazione l'ho provata scoprendo le Nuits romantiques a Aix les Bains, in Savoia. Sono esempi, questi, di uno spirito che si trova declinato a seconda dell'anima del luogo in tanti altri Festival italiani, sia il borgo di Montepulciano, o la storica famiglia del Rossini Opera Festival, l'entusiasmo rutilante donizettiano nell'autunno bergamasco o l'eterno dibattito verdiano a Parma. Certo, per i Festival monografici, dedicati a un autore, l'autore stesso dovrebbe sempre essere la stella polare, la sua interpretazione, l'analisi del testo, anche osando, senza dormire sonni tranquilli, l'obiettivo a cui volgersi al di là del divismo. Questo è un auspicio che coltivo sempre e rivolgo anche al 2024, così come auspico il riconoscimento del merito al di là del blasone dei complessi, dei maestri, dell'entourage, dell'immagine. Così come auspico la fine della strumentalizzazione politica del dibattito. D'altra parte, so bene che è un'utopia immaginare un'umanità libera da tutte le sue debolezze e meschinità. Cercheremo, almeno, di fare il meglio possibile. Coltivare il nostro giardino per renderlo il più simile al migliore dei mondi possibili.