Brindisi allo specchio

di Roberta Pedrotti

I concerti di Capodanno di Vienna e Venezia si contendono gli spazi televisivi del primo gennaio e propongono due modelli diversissimi per spirito e repertorio, confrontandosi per la diversa realizzazione dei momenti coreografici e per la scelta dei direttori, fra una tradizione ormai storica e una Rai che, come testimonia la cancellazione anche di Danza con me di Roberto Bolle, attraversa un periodo critico nella sua politica culturale.

Coreografie, filmati e voci. Sia Vienna sia Venezia si affidano a ottimi coreografi ben noti in Italia, come rispettivamente il milanese Davide Bombana (direttore del corpo di ballo del Massimo di Palermo) e il nizzardo Frédéric Olivieri (direttore del dipartimento di Danza e della Scuola di Danza dell'Accademia del Teatro alla Scala). I danzatori della Staatsoper e i ragazzi scaligeri sono, con peculiarità ed esperienze diverse, scelte nondimeno pregevolissime, sia per la qualità sia per il valore simbolico. L'impostazione è in entrambi i casi di qualità, seppure con una prospettiva differente: a Vienna le coreografie hanno spesso un impianto narrativo, si richiamano a riferimenti storici o intrecciano schermaglie amorose e corteggiamenti fra le coppie; a Venezia si punta più facilmente sul divertissement decorativo. La questione è semmai tecnica e riguarda la realizzazione televisiva. A Vienna si realizzano da decenni i filmati con i balletti per la trasmissione televisiva del concerto: lo stile registico e di fotografia è immediatamente riconoscibile, anche se naturalmente il gusto e l'estetica sono mutati nel tempo. Rimane la cura rodatissima per il rapporto fra immagini e musica, equilibrando la necessaria simbiosi fra suono e movimento con il montaggio di un'opera televisiva e non teatrale. Viceversa, le coreografie veneziane ci pongono di fronte a un lavoro concepito in maniera frammentaria, a passi studiati per necessitare il meno possibile di un preciso corrispettivo musicale. In un caso avremo, dunque, degli interventi coreografici fluidi e compiuti, nell'altro episodi più statici, quasi giustapposti. Si impongono da un lato esperienza e cura certosina in una lunga preparazione, che dall'altro continuano a latitare. Peraltro, l'attenzione al dettaglio e l'impegno tecnico-artistico si esprimono anche nel filmato realizzato per assorbire il tempo dell'intervallo nelle trasmissioni in diretta (quindi in Italia, ufficialmente non disponibile): il gusto viennese per la fiaba, il fantastico, lo sguardo infantile si concretizza nella magica avventura di due bambini alla scoperta dei luoghi chiave della vita di Bruckner, accompagnati dalla sua musica.

Per contro, a Venezia abbiamo le voci. Scelte bene, non c'è che dire: Eleonora Buratto è uno dei migliori soprani italiani in attività; Fabio Sartori da quasi trent'anni una solidissima realtà. Tuttavia il risultato non entusiasma: lei ha accenti assai felici (ascoltate “io non gli scendo incontro. Io no” in “Un bel dì vedremo”) ma i microfoni televisivi, che tra l'altro enfatizzano troppo le prese di fiato, non le rendono il miglior servizio, lui mostra più d'un segno d'appannamento. E Fabio Luisi è sempre direttore educatissimo, di grande eleganza, ma dagli schermi non traspare molto di più.

Il repertorio. Vienna a Capodanno celebra il suo spirito ed esprime amore sconfinato per il proprio repertorio festoso. Questo significa anche continuare a esplorarlo proponendo qualcosa di nuovo, tanto più che non c'è praticamente marcia, polka, walzer o quadriglia che non racconti una storia, un grande evento, un piccolo episodio, un luogo, lo straordinario e il quotidiano. Chi si lamenta definendo ripetitivi questi programmi confonde la coerenza con la monotonia, come a dolersi della presenza di dipinti in una pinacoteca, di libri in una biblioteca, di un'opera in cartellone alla Scala il 7 dicembre: il Neujahrskonzert dei Wiener Philharmoniker è un concerto di danze viennesi, è consacrato a una ben precisa civiltà musicale che ha vissuto una stagione florida e feconda, ricca di riferimenti culturali. Non è necessario amare tutto questo (non è necessario amar nulla, il sentimento per definizione dev'essere libero e spontaneo) ma non si possono negare l'identità del concerto e l'ampiezza del repertorio. Come mero dato statistico basti dire che su quindici brani quest'anno ben nove erano inseriti per la prima volta nel programma ufficiale. La selezione non viene, peraltro, effettuata a caso, ma in relazione alle caratteristiche del direttore designato (la

Erzherzog Albrecht-Marsch, op. 136 di Karl Komzák, scelta discussa e controversa perché adottata dalle forze armate tedesche nella prima e soprattutto nella seconda guerra mondiale, ha una rutilante caratterizzazione marziale che sembra fatta apposta per Thielemann, così come Bruckner è uno dei suoi autori più amati e frequentati) e a specifiche ricorrenze (ricorrono nel 2024 i cento anni dalla dedica a Komzák di una via nel ventiduesimo distretto di Vienna e i duecento dalla nascita di Bruckner, di cui si esegue, orchestrata all'uopo, una quadriglia scritta in origine per pianoforte a quattro mani). Non sempre si tratta di riscoperte imperdibili, del pezzo di Komzák potremo serenamente fare a meno in futuro senza doverci nemmeno interrogare sulla sua storia; in generale si confermano la superiorità dei lavori della famiglia Strauss e il talento fuori dal comune di Johann Sohn. Tuttavia, è sempre stimolante esplorare il mondo musicale viennese e austroungarico nel segno delle danze: il Neujahrskonzert diverte, sì, ma non è solo evasione di superficie.

Se invece ci si volesse giocare al confronto fra i programmi veneziani, ci si troverebbe dal 2013 a oggi a muoversi in una rosa ristrettissima di nomi (Verdi, Puccini, Bellini, Donizetti, Gounod, Rossini, Gounod per le arie, qualcuno in più per cori e pagine strumentali) e serrate ricorrenze di Nemorini, Tosche, Cavaradossi, Cio Cio San e Violetta. Tutto, sia ben chiaro, tagliato quanto più possibile, perché non sia mai detto che si concepisca il pubblico di Rai1 all'ora di pranzo capace di ascoltare per intero la grande aria di Violetta, i cori di zingarelle e mattadori o la Danza delle ore. Arie e sinfonie, danze e cori sono finiti troppo spesso ridotti a pietosi moncherini ripetuti senza famtasia, rivelando che per chi pianifica questi programmi si tratti più di un moto d'orgoglio e competizione, non d'amore e rispetto per l'opera e il pubblico. E si può allora pretendere che il melomane resti soddisfatto? Si può sperare che il neofita si trovi ammaliato? Risulta allora surreale il trionfalismo retorico dei testi letti da Roberto Chevalier fuori campo (e perfino fuori tempo sulla musica), che scivolano un tantino nel patetico quando, preconfezionati a tavolino (la sagra del precotto...), elogiano le prestazioni degli artisti e commentano il gradimento del pubblico. Anche quel che c'è di buono finisce per sembrarlo meno di fronte all'annuncio istituzionale e preventivo del successo.

Qualcuno dirà che il prodotto è pensato per un vasto pubblico nazional popolare? Be', non deve essere pensato granché bene, dato che l'Auditel non lo ha esattamente premiato: dal 2010 a oggi il numero di telespettatori e lo share sono andati calando, da 4.451.000 e 28,34% fino a 3.125.000 (il dato più basso nelle ultime quindici edizioni) e 23,9% (terzultimo dopo il 23,8 del 2020 e il 23,5 del 2022). La cosa forse non impensierisce la Rai, che non si è fatta problemi a cancellare all'improvviso e senza spiegazioni la trasmissione Danza con me con Roberto Bolle: anche in questo caso si era verificata una flessione progressiva degli ascolti, ma mantenendo comunque il miglior risultato nella prima serata di Rai1, sicché non si capisce la disparità di trattamento fra due eventi, senza una riflessione, ma con un'eliminazione netta e una passiva ripetizione. E sì che la televisione di Stato dovrebbe almeno teoricamente avere un briciolo di riguardo per cultura e qualità; e sì che anche i dati commerciali sembrano dirci che la qualità paghi, anche nell'intrattenimento più leggero e a maggior ragione in quello culturale. E sì che in Rai ci sono fior di personalità competenti che andrebbero valorizzate e non mortificate.

Direttori Da questo punto di vista, Vienna e Venezia sembrano vicine, ma non è esattamente un buon segno. Se scorriamo gli ultimi anni dal 2018 e guardiamo al prossimo 2025, alla Fenice vediamo Chung per tre anni consecutivi seguiti da un'alternanza di Harding e Luisi (in totale, cinque concerti per l'inglese e tre per l'italiano); a Vienna abbiamo qualche nome in più ma una situazione non troppo diversa con Muti, Thielemann, Nelsons (una sola presenza finora in totale), Muti, Barenboim, Franz Welser-Möst (tre), Thielemann (due), Muti (sette). I contesti sono diversissimi: in Italia si tratta soprattutto di accettare un programma spezzatino pot pourri (a proposito, ma invece di quel medley dedicato ai settant'anni della Tv italiana, che giustapponeva con la fluidità di un singhiozzo motivi legati alla storia della Rai, sarebbe parso proprio improponibile chiedere a un compositore una breve suite sugli stessi temi?) in cambio della platea televisiva e di una sinfonia nella prima parte del concerto – trasmessa solo in radio a Capodanno e poi proposta dopo un paio di mesi su Rai5. In Austria la questione è più complessa e riguarda i rapporti con i Wiener Philharmoniker: bisognerebbe essere in cartellone alla Staatsoper o perlomeno nel calendario concertistico dell'orchestra nel corso dell'anno per salire sul podio a Capodanno. Una collaborazione non episodica è ritenuta fondamentale e senz'altro la questione dei contratti discografici, data l'esclusiva Sony per un giro d'affari immenso, non è trascurabile. Non è nemmeno trascurabile, però, che pochi nomi nuovi si stiano affacciando e che, anzi, la nomina del direttore del Neujahrskonzert si sia ultimamente mossa con estrema prudenza, confermando presenza note e consolidate. Una ventata di novità sul podio non farebbe male, ma questo naturalmente non vuol dire auspicare approdi precoci. Anzi, è senz'altro un valore aggiunto per i Wiener Philharmoniker il costituire ancora un ponto d'arrivo nella carriera di un direttore, quando invece altre orchestre son diventate navi scuola e punti di partenza per vari enfant prodige. Tuttavia, ci sono molte bacchette dalla luminosa carriera che sembrano troppo lontane dagli orizzonti festosi del Musikverein, ed è un peccato, tanto più che, dopo la prematura dipartita di Maris Jansons non abbiamo ancora ritrovato un riferimento condegno per idiomaticità e spirito. Non lo è sembrato quest'anno Thielemann, senz'altro grandissimo direttore e per di più amante del mondo dell'operetta, ma confermatosi alieno al sorriso leggiadro e malizioso, tant'è che l'innato rubato dell'orchestra sembrava viaggiare spesso su un binario parallelo rispetto alla marziale gravità del podio. L'anno prossimo tornerà Muti e nel frattempo speriamo che l'orbita dei Wiener Philharmoniker accolga altri nomi che possano danzare con loro in punta di bacchetta.

In definitiva, il concerto viennese si trova probabilmente in un momento di passaggio alla ricerca di nuove figure di riferimento sul podio (l'età media dei direttori dal 2018 al 2025 è di quasi 67 anni e il più giovane è l'unico a non essere mai stato riconfermato), ma ha dalla sua una fortissima identità per spirito, repertorio e competenze tecniche (non solo per una delle migliori orchestre del mondo, ma anche per la realizzazione televisiva). Il concerto veneziano, pur coinvolgendo validissimi artisti, soffre di un problema alla radice della sua concezione rappresenta un momento di crisi culturale nella politica della Rai, che pure potrebbe puntare su professionisti ben altrimenti competenti e mostra invece falle strutturali nella concezione del programma e nella sua realizzazione tecnica.