di Gina Guandalini
Nel centenario dalla morte di Eleonora Duse, un ricordo che intreccia la sua vicenda umana e artistica con quelle di Emma Calvé e Gemma Bellincioni e delle generazioni successive.
Cento anni dalla morte di Eleonora Duse - parte I
Cento anni dalla morte di Eleonora Duse - parte II
Eleonora Duse, che è alla Scala alla prima mondiale di Otello nel 1887, due anni dopo invia a Boito il suo giudizio sull’evoluzione interpretativa del protagonista Francesco Tamagno. È, come spesso le accade, indisposta e si fa portare nel suo palco del San Carlo di Napoli «come una sporta di cavoli», in una ingegnosa portantina pieghevole di tela e cuoio. Scrive quindi «Tamagno (contatto della buona arte) – non è più BESTIA! E fa la parte benone, benone, benone! Ha una voce violenta e a colpi di mazza, magnifica in quella parte! E l’Ave Maria? Che bella, che gioia!»-. Cinque anni dopo, altro giudizio su un’opera alla quale ha collaborato Boito: «Che Dio – Arrigo – me lo perdoni… ma mi è parso una cosa così… malinconica quel Falstaff ». Nell’estate del ’91 la Duse assiste al Parsifal a Bayreuth. Diviene wagneriana fervente negli anni passati con D’Annunzio, nel 1919 va a vedere Walkiriaa Roma e ricorda: «il pianto di Wotan – l’ultimo pianto – Che meraviglia! Che accettazione dell’inevitabile! Ne son rimasta illuminata per tutti questi giorni».
Se a proposito di attrici come Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse non è raro che si cominci a sentire il termine “genio”, che all’epoca è riservato agli uomini, è perché diventano presto i simboli della donna indipendente e nuova, sovrana nella sua professione; non solo attrice ma anche capocomica e impresaria con pieni poteri sulla compagnia, Nel dicembre 1922 Mussolini fa visita alla Duse. D’Annunzio definirebbe l’incontro, magari in francese medievale, “Il detto del sordo e della muta”: alla richiesta di sottoporre un progetto di teatro nazionale Eleonora non risponderà mai, avviando invece progetti con impresari statunitensi poco prima di morire; ed è probabile che se vivesse altri vent’anni si ripeterebbe la storia di Toscanini.
Circolano due versioni di ciò che Verdi disse dopo avere visto la Duse ne La signora delle camelie, riferendosi in particolare alla “scena della borsa”, in cui Margherita viene lapidata da Armando con le banconote vinte al gioco e la Duse invoca l’amato con disperazione. C’è il commento: «Quella piccola Duse! Se l’avessi intesa prima di scrivere La traviata che bel finale avrei forse messo insieme, con quel crescendo di Armando che ella ha trovato, lasciando traboccar l’anima sua!». Con un po’ più di precisione, si apprende che nel giugno 1897 la Revue de Paris pubblica un’intervista con il compositore, nella quale c’è questa dichiarazione: «Ormai La traviata è fatta e non posso rifarla in altro modo. Ma se avessi sentito l’interpretazione della Duse prima di riscrivere il finale del secondo atto della mia opera, chissà che effetto originale avrei potuto trarne con questo crescendo sulla parola Armando che lei ha trovato, lasciandolo traboccare dalle sensazioni che il cuore può provare».
Ecco un’altra testimonianza del segno che la triade Duse-Calvé-Bellincioni lascia sul palcoscenico. Il grande baritono americano David Bispham ha una carriera internazionale soprattutto in Wagner e nel Lied. Studia con Francesco Lamperti e per tecnica e stile può dirsi il McCormack dei baritoni; il suo «Quand’ero paggio» di Boito/Verdi è interpretato con fine ironia. Nel 1895 a Londra si trova a cantare Cavalleria sia con la Calvé sia con la Bellincioni. Ne nota le differenze e le accosta alla Duse che ha ammirato nella pièce di Verga. «La Duse era tutta intelligenza, la Calvé era tutto fuoco e la Bellincioni era tutta emozione splendidamente controllata! Di rado sono stato più colpito da un collega che dalla Bellincioni, la quale apparentemente non pensava a se stessa come a una cantante; infatti la sua voce non era della migliore qualità e all’epoca era in declino; eppure possedeva quella personalità e quel magnetismo indefinibili che suscitavano la più profonda emozione nei suoi ascoltatori». Il giudizio di Bispham spiega la difficoltà del melomane di oggi che vuole capire l’enorme popolarità di Gemma. Il suo passaggio ai ruoli veristi ha forse avuto anche ragioni vocali. Tuttavia Violetta resta nel suo repertorio, con enormi successi. A Lecce nel 1901 un cronista lascia informazioni preziose sui suoi costumi - che sono parte integrante del fascino di un’interpretazione. «Nel primo atto la Bellincioni indossava una veste di velluto miroir grigio perla, inframmezzata di pizzo punto di Venezia, ricamata in acciaio, con trasparente azzurro cielo. Nel secondo portava una veste di grandi pizzi di Bruges, sotto trasparente Liberty color crema. Nel terzo vestiva una grande toiletta [sic] da ballo in merveille rosa interamente ricoperto di pizzi di Bruxelles, con sopraricamo di seta, pagliuzze e strass. Sulle spalle una elegantissima sortie de bal di ciniglia».
Dopo il successo di Emma Calvé all’Opéra Comique nella Sapho di Massenet, Sanzogno propone il ruolo di Fanny Legrand – una sorta di Violetta del 1897 – per l’Italia alla Bellincioni, che ricorda: «mi appassionò subito, viva, palpitante di umanità, era il mio genere.Poi vennero Fedora e Tosca…»
Nel 1899 una giovane danzatrice nata a San Francisco, Isadora Duncan, vede la Duse in scena a Londra, e decide che vuole dominare il palcoscenico come lei. Le riconosce un enorme potere ispiratore, diventa una rivoluzionaria della danza. Anni dopo, divenuta sua amica, andrà in Italia a chiederle conforto nella tragica morte dei suoi due bambini. C’è quindi anche la Duse consolatrice: in quello stesso anno, per una delusione amorosa, la Calvè corre da Eleonora, ormai grande amica, a Venezia. «Come solo Lei è in grado di fare, ha alleviato la mia tristezza, facendomi tornare a Parigi più serena, sollevata. Questa, la splendida lettera che Eleonora ha scritto per me: “Bambina mia, sorella adorata, il dolore che mi hai trasmesso narrandomi le tue pene mi ha colpita nell'anima. Ricordati le parole di Leonardo: Non può più voltarsi chi fissa estasiato una stella. Quando si ha il dono di una voce unica, fatta di tutti i colori del prisma, pura come l'acqua sorgiva dei monti, non si ha il diritto di piangere. Che presunzione pensare che un cuore possa amare altro cuore per sempre! Sarebbe voler negare la libertà ad un qualsiasi essere umano. Cerca il giusto conforto nell'amicizia. Dunque, povera fanciulla, quando sarai troppo triste, cerca sempre il mio aiuto. Parlarmi della tua sofferenza, servirà ad alleviarne il peso. ‘La legna alimenta il fuoco che la consuma’. Ne abbiamo in buona misura di questo legno, tu ed io! Lavoro, lavoro, lavoro! Ma impara la lezione: chi canta, è destinato a soffrire della propria arte. Tua Eleonora”».
L’anno seguente, in una lettera da Londra a D’Annunzio, la Duse lo informa che ha avuto dalla Calvè l’invito ad andare a sentirla cantare, ma è stanca e non se la sente. Problemi di salute concreti e psicosomatici la tormentano frequentemente. La rottura con Gabriele la devasta, alcuni amici temono che abbia impulsi suicidi. Ma già a partire dal 1904 il suo fitto epistolario rivela un amore con il banchiere Robi von Mendelssohn. Eleonora crede non sia noto alla moglie di lui, che è Giulietta Gordigiani. Poi il geniale impresario teatrale francese Aurélien Lugné-Poe la sostiene e l’accompagna in tournée dedicate a Ibsen, e soccombe anche lui al fascino della “grande amatrice”. Nel 1906 Eleonora, Emma Calvé la cantante americana Alice Nielsen formano un trio che inaugura il Waldorf Theatre a Londra con serate di gala a rotazione.
Una delle prime sceneggiatrici e registe donne del cinema muto, l’angloamericana Gertrud Norman, scrive un saggio sulla Duse nel Theatre Magazine. «Ogni donna trova in lei qualche parte inespressa di sé», sostiene. «Recita il non detto e il non scritto; non sorprende perciò che gli elogi critici al suo lavoro siano una forma di feticismo: del suo corpo, della sua voce, delle sue emozioni».. Si può dire che ogni intellettuale e teorico che tra il 1880 e il 1910 sia scontento dello stato del teatro e delle recitazione e nutra l’ambizione di rinnovarlo dalle fondamenta saluti le recite di Eleonora Duse come una epifania rivelatrice. Verga, Capuana, Giacosa, Praga e Simoni da noi; Cechov, Vsevolod Meyerhold, Stanislavsky in Russia. Nella cultura tedesca si dichiarano folgorati Max Rheinhardt, Hermann Sudermann, Gerhardt Hauptmann, Hugo von Hormannstahl, Rainer Maria Rilke. George Bernard Shaw ne fa la paladina delle proprie teorie. Pirandello scrive per lei La vita che ti diedi e si diffonde sui suoi muscoli, sui suoi nervi, sulle sue divine mani, sulle sue reazioni agli altri personaggi.
Romain Rolland e James Joyce se ne innamorano e vorrebbero essere al posto di D’Annunzio. L’attore John Barrymore la vede per caso nella hall di un hotel di Venezia e le si inginocchia davanti piangendo.Se Piero Gobetti e Giovanni Papini ammirano l’attrice perché comprendono quello che dice in scena, tutti questi intellettuali non capiscono l’italiano. È evidente che percepiscono la presenza, il controllo del corpo, i ritmi: Edvard Grieg si meraviglia della musicalità della sua voce e della varietà dell’intonazione. Altre conquiste la Duse fa negli Stati Uniti: Lee Strasberg, il regista fondatore del famoso e famigerato “Method” al quale appartengono quasi tutti i grandi attori cinematografici statunitensi dal 1935 ad oggi; Stark Young, commediografo e romanziere e infine Charlie Chaplin, che la vede negli ultimi mesi della carriera e scrive di «anima dell’arte» e «fulgore del suo genio».
In concomitanza con il ritiro della Duse dalle scene dal 1909 al 1921, Gemma Bellincioni affronta la Salome diStrauss su richiesta dell’autore, facendosi carico anche della Danza dei sette veli. Dopo un’ultima recita all’Opéra di Parigi lascia le scene e si dedica all'insegnamento. Il suo libro Scuola di canto esce a Berlino e Parigi nel 1912 e reca la dedica «A Richard Strauss con profonda ammirazione». In esso, un po’ sorprendentemente, Gemma sottolinea l'importanza fondamentale dei principi del bel canto, come le esercitazioni sulla messa di voce e sulle agilità vocali; raccomanda un esercizio attribuito da Panofka aRossini e insiste sul non forzare l'emissione.
In quegli anni la Duse, come ricorda Isadora Duncan, «cantava, con voce bassa e di timbro squisito, il suo brano preferito, In questa tomba oscura (di Beethoven) e alle ultime parole “Ingrata…Ingrata!”, il suo timbro e il suo aspetto assumevano un’espressione di rimprovero così profondamente tragica che non si poteva guardarla senza lacrime».
Nel 1915 giunge a Eleonora una proposta di tipo nuovo dal produttore americano David W. Griffith; un contratto di quindici settimane per girare un film a Los Angeles. Lei suggerisce diversi soggetti, tra cui un Michelangelo. Invece di attraversare il globo gira, come tutti sanno, Cenere, da una novella di grazia Deledda, Col produttore torinese Ambrosio. Alla figlia, Eleonora scrive: «È un posto davvero interessante! quanta gente! Stamattina, c’è stata la presentazione di tutto il personale; 204 persone sono impegnate per il mio film. Il film è passionale ma ci vogliono 204 persone per farlo vivere! un mondo! Io credo di sognare, la mia anima ritorna in me! Ah, che dire, e come dire, ciò che io ho perduto della mia anima in questi cinque anni senza lavorare, in prigione…c’è qualche cosa — che non è male — un certo pudore nei confronti del gesto cinematografico. Ce una scena che mi piace, in mezzo a un grande campo fiorito. È riuscito tanto bello, io la testa abbassata come una spigolatrice, e l’argento dei capelli bianchi, così luminosi come l’argento dei fiori. La sarta dello stabilimento, mostrandomi la veste da mendicante che avrò nel personaggio, ieri mi diceva, con le lacrime agli occhi: Ah, quante volte ho visto la Signora risplendente, e invece ora! L’avrei abbracciata per la bontà del cuore e il paragone d’arte! Mah! Sogno?»
Cenere è su YouTube e presenta ancora molti motivi di interesse, soprattutto nel finale. Ma non è a suo tempo un successo commerciale e la carriera cinematografica di Eleonora Duse si ferma lì. Chi scrive ha gli appunti di una sceneggiatura sulla Beata Angela (oggi santa) da Foligno, che la Duse prepara con conoscenza di causa ed entusiasmo, rimasti però allo stato di progetto.
Anche la Bellincioni diventa attrice cinematografica: nel primo di quattordici film è Santuzza in Cavalleria rusticana nello stesso anno di Cenere.Unendo al suo il nome della figlia fonda la casa cinematografica "Biancagemma", in cui è attrice e regista. Poi va a vivere a Napoli. Nell’estate del 1929 Rosa Ponselle, che sta per debuttare nella Traviata a Londra, va a trovarla e lavora due settimane con lei, adottando i momenti bellincioniani più drammatici per la propria incarnazione, soprattutto l’ultimo atto. Nel 1943 il ventenne George Lascelles, conte di Harewood e cugino della Regina, è a Napoli con l’esercito britannico e spera di poterle fare visita, malei non sta bene e non può riceverlo. Gemma Bellincioni muore nel 1950.
Emma Calvé si diffonde a lungo, nelle sue memorie, sulla persona dello swami Vivekananda. Si tratta di un monaco indù discepolo di Ramakrishna; la sua saggezza impressiona l’artista francese, che per anni viaggerà con lui e ne diffonderà gli insegnamenti. Già nel 1891 Emma Calvè sarebbe la regina dei circoli esoterici parigini. Sarebbe amica di Debussy, di Emile Hoffet, di occultisti come il Marchese di Guaita e Gérard Encausse detto Papus; infine amante dell’abate Bérenger Saunière. Nulla di tutto questo esiste nelle sue due autobiografie.
Alla morte di Emma nel 1940 i suoi nipoti ereditano un capitale con cui impiantano una fabbrica di salse e condimenti; ecco perché il suo nome è oggi legato a una maionese più che a una grande artista lirica della Belle Epoque.
Una cosa ancora va detta su Eleonora Duse. Capita sempre più spesso di leggere che ha amato diverse giovani donne. Chi conosce il mondo del teatro sa che molte ammiratrici si innamorano di una diva e la seguono in tournée servendola fedelmente. Il fenomeno della groupie che si rende utile in mille incombenze di segretaria e cameriera si verifica soprattutto dove non c’è un marito o un compagno onnipresente. Spesso si rende necessario calmare uno spirito bollente e invasivo, a volte troncando il rapporto. Nell’epistolario dusiano che riguarda queste figlie adottive il linguaggio è quello materno, della pazienza e dell’impazienza. Quello della passione fisica, evidente nelle lettere a Boito, a Wolkoff, a D’Annunzio, a Mendelssohn, è del tutto assente.
Poteva un fenomeno culturale e teatrale come l’esprit dusien non influenzare altre artiste liriche del Novecento? Claudia Muzio (1889-1936), fine dicitrice, fraseggiatrice appassionata, attrice affascinante, è presto chiamata “la Duse della lirica” - anche sulla copertina di un disco. La sua è forse l’unica Violetta pre-Callas che fa ancora testo. Ovunque siano accostati i nomi Duse e Muzio si legge che la grande tragica, dopo avere assistito a una recita di Tosca con la divina Claudia, esclama «Così si canta in paradiso!» Nel 1967 su Discoteca Rodolfo Celletti esamina una serie di registrazioni dell’aria «Poveri fiori» di Adriana Lecouvreur:Eugenia Burzio, Salomea Kruszelnitka (così lui scrive quell’astruso cognome), poi la Cigna, la Muzio, la Olivero, la Caniglia; Callas, Tebaldi e Stella tra i 33 giri. Per la Muzio – il disco è del 1935 – parla di «accentuazione altisonante, ancora un poco legata all’invadente teatralità del primo quarto di secolo…una dizione così nobile da portare la platealità a sfiorare la tragicità». E conclude «Non vorrei spiccare voli pindarici, ma a me sembra che la Muzio sia l’unica interprete che, in disco, riesca a rammentarci che Adriana Lecouvreur era una famosa attrice».
La bresciana Giuseppina Cobelli (1898 – 1948), alta, maestosa, forbita, è figlia della custode della villa di Gardone Riviera che appartiene a Cosima Liszt e poi passa a D’Annunzio. È una Santuzza storica, anche alla Scala con Toscanini; interpreta Adriana Lecouvreur, Risurrezione di Alfano, Mefistofele, Sieglinde e Isolde. A Bruxelles il critico e musicologo Paul Tinel, che giovanissimo ha visto la Duse nella Gioconda dannunziana, della Cobelli in Cavalleria diretta da Mascagni scrive: «si la Duse avait été une artiste lyrique, elle aurait chanté comme M.me Cobelli».
Quanto a Magda Olivero, (1910-2014) in Adriana Lecouvreur, in Francesca da Rimini, Mefistofele, Tosca, Fedora,Iris,Risurrezionee molte altre opere oggi dimenticate rappresenta una fetta di storia dell’opera molto importante. «Dove veramente sento di contare in scena», ha detto una volta. «è nella recitazione più che nel canto. Durante i miei anni di apprendistato la Duse mi ha influenzato molto, ho letto tutto su di lei, ho esaminato le sue foto, e specialmente ho studiato i gesti delle sue mani. Perché per me, dopo la voce sono le mani che esprimono al meglio le emozioni.»
Clara Petrella (1914-1987) , pronipote del compositore Errico e nipote del soprano Oliva – non Olivia –, bella donna, attrice autorevole, è attiva tra il 1940 al 1973 in un vasto repertorio novecentesco. Anche in Arlesiana di Cilea, Pagliacci,Tabarro, Zazà, L'amore dei tre re, Adriana, Risurrezione e come Mila nella prima assoluta al San Carlo della Figlia di Iorio di Pizzetti (1954). È stata chiamata “la Duse della lirica’ e oggi, sulla scorta di diverse registrazioni e dei filmati del Tabarro e diManon Lescaut, un riesame del “caso Clara Petrella”è auspicabile.
È possibile debuttare in Francesca da Rimini di Zandonai nel 1972 e non immettervi un filo di ironia? Non tutti la colgono, è vero, ma in questo personaggio – come in Adriana, in Tosca, nella Contessa di Capriccio di Strauss – Raina Kabaivanska è consapevole di guardare a un glorioso passato che vuole storicizzare con «un filo di flirt galante», come scrive Arbasino. A Salisburgo Herbert von Karajan le chiede una prova di sola scena, solo “mimica” del finale «E deggio e posso crederlo» nel Trovatore. Quasi immobile, il soprano monopolizza la sua attenzione: «Sei la Duse!», esclama. Cioè quello che, cento anni dopo ancora. la Duse significa per chi ama il teatro.
FINE