di Gina Guandalini
A vent'anni dalla scomparsa di Rodolfo Celletti (Roma, 13 giugno 1917 – 4 ottobre 2004), Gina Guandalini traccia un ricordo di una figura tanto discussa quanto influente.
Ricordare questo storico della vocalità a vent’anni dalla sua scomparsa mi fa pensare a quei programmi del canale Focus che si occupano di tecnologie scomparse – l’ingegneria idraulica degli antichi romani, il fuoco greco, l’acciaio di Damasco, i rulli per pianola, per intenderci. Interessa veramente a qualcuno, oggi, stabilire se una voce è ballante o ferma, se un cantante sa o non sa cantare? Figuriamoci poi se può interessare l’elenco dei difetti dell’impostazione o, nel caso di interpreti del passato, una spiegazione del gusto delle varie epoche e di come esso si evolve in sincronia con la letteratura e le altre arti. Sono questi i ferri del mestiere che Celletti cercò di trasmettere a generazioni di giovani. Ascoltando quello che “passa il convento” dei teatri d’opera attuali viene fatto di pensare che quegli strumenti siano stati definitivamente appesi al chiodo. Ma ricordarli è necessario.
Rodolfo Celletti, nato a Roma nel 1917, fu allevato da varie zie, una delle quali era maestra di canto. Ebbe così la possibilità di ascoltare principi di lettura musicale e di emissione della voce fin da bambino. Nell’adolescenza seguì le lezioni di un baritono della scuola antica, Riccardo Stracciari, e praticò i culti di Claudia Muzio e di Tito Schipa. Gli si può dare torto? Nel dopoguerra si laureò in legge. Alternò a lungo all'attività di musicologo e critico musicale quella di dirigente d'azienda alla sede milanese della Motta. Negli anni ’50 firmava la rubrica La maschera, in stile pettegoliero e surreale - salvo occasionali pagine serie e acute sulla Callas, la Schwarzkopf e Corelli -, nel mensile di Milano La Scala. Contemporaneamente collaborava all’Enciclopedia dello Spettacolo per la casa editrice Le Maschere, appositamente costituita per gestire l’imponente progetto, come direttore della sezione Cantanti. Fu poi direttore di un testo fondamentale di vocalità, l’enciclopedia Le grandi voci. Dizionario critico-biografico dei cantanti con discografia operistica, che uscì a Roma nel 1964. In quegli anni iniziò a collaborare con il mensile Discoteca, che all’epoca era diretto dall’americano William Weaver e si occupava di dischi di tutti i generi, anche di testi teatrali.
Non mi è mai sembrato un caso che in quegli anni esplodesse il fenomeno cinematografico di James Bond, da storici, sociologi e critici sempre spiegato con la passione dei nuovi pubblici per la tecnologia. Le recensioni di Celletti divennero, infatti, sempre più “tecnologiche”: del cantante in oggetto esaminava in dettaglio, nota per nota, parola per parola, le caratteristiche starei per dire “organolettiche” della voce di partenza, l’impostazione, l’emissione. L’industria discografica operistica andava riscoprendo il repertorio che per brevità si definisce “preverdiano”, affidandolo a cantanti altamente qualificati per questo tipo di canto. Era più facile che mettesse sul mercato Semiramide anziché Fedora; ed ecco che per tutti gli anni Settanta Celletti fu in prima fila nell’analisi della vocalità ritrovata con cui fenomeni come la Sutherland, la Horne, la giovane Caballè, Kraus, Bergonzi, Bruson eccetera affrontavano quel repertorio. Un repertorio che era nuovo per tutti gli over 25. Il saggio di Celletti Origine e sviluppi della coloratura rossiniana, pubblicato nel 1968 sulla Nuova Rivista Musicale Italiana, fu un importante punto di partenza per revisionare il giudizio sul genio di Pesaro.
Nell’ambiente un po’ isterico dei melomani certe sentenze cellettiane seminate a piene mani su Discoteca provocavano scalpore. Segnalava cali di intonazione e urlacci in osannatissime registrazioni degli anni Cinquanta; e queste scorrettezze, vedi un po’, se si ascoltava con attenzione c’erano proprio. Diagnosticava la gravissima crisi delle voci tenorili che con poche eccezioni flagellava il mondo dell’opera negli anni Settanta anche puntando il dito sull’acritico culto di Del Monaco e Di Stefano. A loro contrappose Bergonzi e Kraus e obbligò a riascoltare Lauri Volpi. Sottolineava i momenti “datati” di Gobbi, la genericità di Bastianini, esaltando all’opposto Bruson. Possiamo dargli interamente torto? Nel 1969 un lettore del Radiocorriere TV poneva con semplicità la domanda che a ben vedere è la chiave di volta dell’intera questione: “Ma come si fa a capire se uno sa cantare o no?”. Fino al 1939, rifletteva Celletti, nessun italiano si sarebbe posto questa domanda. Nel 1974 un fan di Pippo Di Stefano gli confessava “Sì, sento nel canto di Di Stefano manchevolezze tecniche. Ma mi beo del ricordo!” Memorabile conclusione cellettiana: “È lecito avanzare riserve sul fatto che il cuore abbia veramente qualcosa a che vedere con il canto”.
Qui va precisato che la scrittura di Celletti si giovava, oltre che di una insigne cultura letteraria da Cicerone a Garcia Màrquez, di un sottile senso di ironia. Amava e citava Pascarella, Panzini, Bacchelli, Nizza e Morbelli, Metz. A molti, soprattutto in Italia, l’ironia sfugge e rende il dispetto di chi lo leggeva ancora più acido – comprensibilmente.
Non si limitava a staffilare: rievocava, spiegava, insegnava. L’autentica vocalità di Monteverdi e di Mercadante, ad esempio. Ha illustrato e fatto amare una galassia di immensi cantanti come Mattia Battistini, Giuseppe Anselmi, John McCormack, Amelita Galli Curci, Richard Tauber, per citarne solo alcuni. Ha analizzato Magda Olivero frase per frase, in un saggio che metteva allo scoperto il collasso tecnico di molte scuole di canto italiane nei primi quarant’anni del Novecento. Ha vivisezionato nota per nota l’esemplare esecuzione di “Lunge da lei” dalla Traviata nell’interpretazione di Bergonzi; un esame che oggi andrebbe obbligatoriamente studiato nelle scuole di canto ( ammesso che esistano ancora scuole di canto). Mi sono sempre chiesta perché i detrattori di Celletti – a volte docenti e teorici ferrati – non abbiano mai contraccambiato con analisi altrettanto serrate di quegli stessi brani in positivo. Nel giudicare la Callas, niente cuore, ma parametri storici e vocalistici; e tutti a pappagallare la sua terminologia – “agilità di forza”, “stentando”, “legatura di striscio”, “trillo molle” – senza sapere bene come impiegarla esattamente.
Quando Celletti pubblicò la massiccia guida Il teatro d’opera in disco nel 1976, ai lettori di Discoteca ogni suo giudizio era ben noto. Per l’aggiornamento-ampliamento di dieci anni dopo fu costretto a ricorrere in alcuni casi a citazioni di altri critici. Nell’82 Discoteca (divenuta Discoteca HI-FI) chiuse purtroppo per sempre, ma Celletti passò ad altre testate; su Musica Viva apparvero saggi – sulla classificazione delle voci, sulla Kabaivanska, su Ramey – ancora oggi fondamentali. Ho letto un paragone con quanto Roberto Longhi ha fatto nella storia dell’arte, e concordo.
Personalmente mi recai a trovarlo quando preparavo un dizionarietto di cantanti rossiniani per Rossini nostro contemporaneo, edito da Ricordi. Un gran signore, cortese e attento. Mi fornì precisazioni su cantanti storici di cui non esistono registrazioni; mi sconsigliò di inserire Rockwell Blake perché era troppo presto per valutarlo globalmente, e a malincuore obbedii (aggiungo che, scambiandolo per Liala, gli accennai a un mio problema sentimentale e lui mi diede consigli che dentro di me giudicai maschilisti e cinici. Avrei fatto bene a dargli retta).
Qui lascio la parola a un musicologo e direttore quale Alberto Zedda: “ Quando [...] abbiamo cominciato a guardare oltre il repertorio di fine ottocento e primo novecento riscoprendo i tesori musicali di Monteverdi, Cavalli, Bach, Haendel, Vivaldi, Mozart, Rossini, Cherubini, Spontini, Bellini, Donizetti, abbiamo finalmente compreso l‘importanza immensa della lezione cellettiana. È stata la tenacia di Rodolfo Celletti e dei suoi seguaci a vincere definitivamente la partita. Le opere preromantiche o protoromantiche, dove il canto regna sovrano sopra ogni altra componente dello spettacolo, se si seguivano i canoni del realismo verista [...] suonavano deboli e lontane, estranee al gusto e alla cultura dell‘ascoltatore, incapaci di trasmettere emozioni profonde. Solo quando si cominciò a recuperare la civiltà vocale di estrazione barocca e si fu in grado di ricreare l'alato virtuosismo dei divi del Belcanto, si poté apprezzarle e coglierne appieno il messaggio. [...] gli artifici necessari per piegare la voce alle nuove esigenze espressive erano quegli stessi descritti con tanta passione e competenza da Celletti, troppe volte accolti con sufficienza o sogguardati come manifestazioni di fanatismo snobistico. Senza la sua lezione, oggi finalmente diventata cultura corrente, non ci sarebbe stata la Rossini renaissance, né le opere di Mozart risuonerebbero con tanta frequenza e favore, né circolerebbero melodrammi barocchi e neoclassici, e neppure si potrebbero ascoltare con profitto i lavori del primo Verdi, del Bellini e Donizetti drammatico, dei tanti interessanti epigoni e precursori del rossinismo. Non sono stati i musicologi a rendere possibile questa rivoluzione del gusto: sono stati i maestri e gli artisti che hanno compreso che gli insegnamenti di Rodolfo Celletti non erano nozioni settoriali e personalistiche, bensì il codice per accedere a un linguaggio interpretare il nuovo corso”.
Non ho parlato del Rodolfo Celletti romanziere e del direttore artistico di Martina Franca, luogo che non ho mai frequentato, perché entreremmo in un altro campo. Mi premeva ricordare il competentissimo analista scomparso vent’anni fa.