Pierino e il pianista
A poca distanza dalla morte di Alfred Brendel, Alvaro Vitali e Lea Massari, Rai5 assottiglia la propria programmazione musicale e teatrale mentre Rai Cultura presenta la prossima stagione e una serie di ghiotti eventi. Una riflessione sul rapporto fra media, cultura, qualità e mercato.
La morte di Alvaro Vitali è avvenuta proprio in mezzo a quelle di Alfred Brendel e Lea Massari: la livella non perdona, e ciascuno soppesi riflessioni e necrologie come meglio crede nella propria bolla di interessi e passioni. Nel desiderio che taluni nutrono di glorificare i propri beniamini, però, non si taccino d'esser dei novelli, arcigni Jorge de Burges coloro i quali non si sono mai divertiti con un certo tipo di film. Il riso è personale, liberatorio, irrazionale e finché non è derisione malevola è sempre legittimo, così come è legittimo non sentirne lo stimolo. E se, poi, Vitali possa equipararsi Mastroianni e Gassman o se La ripetente fa l'occhietto al preside vada considerata al pari di Roma città aperta è questione che qui non ci riguarda e semmai interesserà i critici e gli storici cinematografici, così come le implicazioni d'ambito sociologico spetteranno agli esperti del settore.
C'è invece un altro aspetto su cui è possibile soffermarsi dopo la presentazione dei nuovi palinsesti Rai e mentre prende il via la programmazione estiva [Rai Cultura, i palinsesti 2025/26]; un aspetto che lega inaspettatamente gli ambiti e i registri più diversi. Si tratta del sistema economico che reggeva l'industria e l'arte cinematografica intorno agli anni '60 e '70. Anni d'oro, certo, ma nei quali è pia illusione pensare che Il Gattopardo e Amarcord si ripagassero con gli incassi al botteghino. Erano i film di consumo, i film di genere (non necessariamente di bassa qualità) a finanziare un'industria che poi reinvestiva i proventi in progetti d'autore. I Visconti e i Fellini lavoravano grazie anche a peplum, melodrammoni, poliziotteschi e commedie sexy (e quant'altro sia pur oggi rivalutato o resti feticismo per Tarantino e i cultori del trash); il meccanismo per un certo periodo ha funzionato e un'attività commerciale redditizia ha fatto sì che se ne potesse sviluppare e sostentare un'altra di diverse ambizioni. Poi, c'era il servizio pubblico, la Rai, che anche nel cosiddetto intrattenimento manteneva alti i profili professionali di autori, attori, musicisti, ballerini.
Poi, qualcosa si è inceppato. L'apparizione delle tv commerciali, un nuovo sistema di concorrenza e di valori sposta progressivamente l'obiettivo, dall'idea di reinvestire i proventi in progetti di qualità (e prestigio: perché il produttore poi si poteva fregiare di riconoscimenti critici e premi internazionali cui si conferiva un valore non indifferente) si passò a quella di sviluppare i proventi rimanendo nell'humus più redditizio.
Si è partiti da un sistema in cui era importante guadagnare in termini monetari ma anche in termini di qualità, in cui l'imprenditore dovesse arricchirsi e l'ente pubblico far quadrare i conti, ma anche far qualcosa di buono e utile, che portasse vantaggio alla comunità e lustro al mecenate, il cui operato era quindi riconosciuto a livello sociale (se poi lo fosse stato magari di più anche a livello fiscale, sarebbe stato forse meglio). Si è progressivamente arrivati a un meccanismo in cui tutto ciò che conta è lusingare il mercato per trarne il massimo profitto. È chiaro che la contrapposizione fra i due estremi semplifica la situazione nelle sue sfumature e in falle originarie della realizzazione del principio, però aiuta anche a individuare un problema evidente nel panorama dei media odierni e nelle sue ripercussioni sulla società.
Il sistema televisivo è radicalmente cambiato, ed è inutile arroccarsi sui parametri anni '80 dei successi misurati intorno ai dieci milioni di spettatori e sulla preminenza della diretta dei canali generalisti. Oggi la fruizione è mirata, per lo più on demand: si va su quella determinata piattaforma e si vede ciò che si vuole quando si vuole. La torta dell'auditel è spartita in molte più fette, con numeri decimati rispetto a pochi lustri fa, ma si deve tenere in conto il numero di accessi allo streaming. Cionondimeno, le storiche “ammiraglie” generaliste mantengono la loro importanza, se non altro perché raccogliendo un pot-pourri selezionato dell'offerta specializzata, oltre a informazione e intrattenimento puro, dovrebbero poter raggiungere e attrarre anche pubblici diversi, non già fidelizzati su un determinato tema.
Sfogliando sia i palinsesti di questi giorni sia i comunicati relativi alla prossima stagione sorge la necessità di provare a riflettere e fare il punto.
È bene che la specializzazione non sia rigida, anche perché soprattutto gli ambiti culturali hanno per natura confini porosi e fluidi; tuttavia, nella programmazione estiva abbiamo visto concretamente come l'identità di Rai5 sia mutata e si sia fatta più labile. Il canale dedicato alle arti, con un'attenzione particolare alla musica (opera, sinfonica, cameristica soprattutto, ma anche jazz, rock d'autore, cantautorato), al teatro e al cinema di qualità appare ora sbilanciato in favore di documentari naturalistici con la cancellazione delle prime serate e della fascia mattutina come appuntamento fisso settimanale con opere e concerti.
Dopo un'epoca in cui la musica d'arte in Rai appariva giusto il 7 dicembre (e nemmeno sempre: non dimentichiamo i tanti anni di mancate dirette scaligere con l'alibi degli ascolti bassi e del conflitto con gli orari del tg), a Natale, Capodanno, Pasqua o nelle profonde notti d'estate, Rai5 e il suo palinsesto specializzato si è manifestato come l'attesa soluzione. Si prospettava una sorta di Arté italiana che, con un incremento significativo al tempo della pandemia, negli ultimi anni ha offerto ogni giorno almeno un'opera, un concerto e una pièce teatrale (o sceneggiato storico, che poi, visti gli interpreti e il taglio registico, era come grande prosa). Tutto o quasi poi fruibile negli orari più comodi per ciascuno sulla piattaforma Raiplay.
Ora, è delle ultime settimane l'amara constatazione della contrazione degli spazi dedicati alla musica e alla prosa su Rai5. Spazi quotidiani, programmazione regolare, insomma: una routine di cultura e qualità che si è repentinamente assottigliata.
Il palinsesto d'autunno promette, è vero, ghiottissime occasioni, prime serate con dirette o registrazioni recenti dalla Scala, da Santa Cecilia, dal San Carlo di Napoli o dall'Opera di Roma, la trasmissione delle finali del Concorso Busoni e altro. Benissimo. E benissimo il richiamo del direttore di Rai Cultura Fabrizio Zappi a un'unione di etica ed estetica. Tuttavia, si tratta di cicli ed eventi singoli e, visti proprio i recenti cambiamenti nell'assetto del palinsesto di Rai5, vien spontaneo esprimere l'accorato auspicio affinché non si torni indietro ai tempi in cui la musica e la prosa in tv eran diventati un'eccezione marginale, affinché il canale loro dedicato le mantenga al centro anche e soprattutto in un tessuto quotidiano, potenziando tutte quelle risorse che la Rai possiederebbe ma forse non sempre sfrutta appieno. È importante che il servizio pubblico rifletta chiaro un messaggio: la cultura, la musica, il teatro non sono un singolo evento scintillante, ma sono parte integrante della nostra vita di esseri umani sociali.
L'esito della fiction Belcanto dovrebbe servire da paradigma: l'aspetto romanzesco della vicenda ha incontrato il favore del pubblico generalista, che ha riconosciuto gli stilemi della narrazione televisiva nella serialità breve o lunga, ma ha inorridito i musicofili per la serie di strafalcioni inutili che sembravano messi lì per proporre elementi di facile presa e familiarità nella cultura pop (Mozart, i castrati, “Va', pensiero” che diventa un'aria di Fenena...) là dove però storicamente stavano come una Lamborghini nella Rivoluzione francese. Siamo davvero sicuri che romanzando con un minimo di credibilità e verosimiglianza non si sarebbe riusciti a piacere comunque al pubblico delle fiction, e magari a far conoscere loro anche qualcosa di vero? Sicuri che una ricostruzione accurata non permetta una narrazione avvincente? Sicuri che un termine o un concetto corretto sia di per sé respingente e che invece non basti proporlo in modo accessibile? E come si spiegherebbe, allora, il successo degli Angela o di Barbero? Sono argomenti, perlatro, non nuovi [Editoriale, Musica delle feste: una festa per la musica?].
Così, se è stato giusto e lodevole trasmettere Nabucco dall'Arena su Rai3, non sarebbe stato meglio affidare, se non la lettura, almeno la scrittura dei testi a un esperto che raccontasse l'opera invece di far declamare fra una scena e l'altra ai presentatori un'asettica playlist (“Ora coro e cavatina di Zaccaria”; “Ora la celebra aria 'Dio di Giuda'”), come a dire che Verdi ha assemblato una lunga compilation e non un dramma in musica a cui appassionarsi. O c'è forse paura che dire troppo, dire di più, dire bene e non usare sempre gli stessi schemi e gli stessi nomi di effetto collaudato anche quando fuori luogo possa allontanare il pubblico?
Ora, vorremmo che tutte le belle cose che vediamo elencate nel comunicato di Rai Cultura non restassero isolate in un palinsesto di musica e teatro altrimenti sempre più trasparente. Vorremmo che tutta la Rai tendesse, come servizio pubblico, ad avere a cuore prima di tutto e soprattutto la cultura, le proprie risorse di qualità e competenza che dovrebbero permeare tutta la programmazione.
Anni fa Alessandro Baricco lanciò una provocazione che fu naturalmente stigmatizzata nell'universo e in altri siti: non finanziare la scuola e dirottare i fondi sulla tv. Chiaro che si tratti di una follia eclatante, tuttavia bisognerebbe pur riflettere sul fatto che con la scuola e la famiglia i media rivestano un ruolo formativo da non trascurare. E allora quello che è il servizio pubblico fa benissimo il proprio dovere nel programmare Il nome della rosa dalla Scala, Die Walküre o Medea da Napoli, il Premio Campiello, le trasmissioni di Angela, Cucciari o Marzullo. Fa bene anche a programmare un intrattenimento che faccia anche cassa. Tuttavia, da un lato le trasmissioni culturali non devono rimanere cattedrali nel deserto ed eccezioni, l'intrattenimento non deve perdere di vista la qualità, non deve aver paura di una ricostruzione coerente della storia e della musica in una fiction, di un'introduzione competente su un canale generalista, di un livello di contenuti e professionalità che non sia quello dell'uno vale uno.
Le perle della programmazione, in genere, le va a cercare chi già sa di essere interessato. A questo pubblico si dia, per esempio, una Rai5 che mantenga la sua identità e la sua vocazione per le arti, per la musica e il teatro. Ma non si lascino soli, in balia dell'approssimazione e del banale, gli altri spettatori, non si compia l'errore fatale al cinema di gettarsi nell'agone del trash e di aver paura dei contenuti. Era un'Italia giovane, un'Italia con un tasso di analfabetismo ancora alto quella che aveva bisogno del Maestro Manzi e si sapeva godere il Quartetto Cetra, Mina, gli sceneggiati tratti dai grandi classici della letteratura e interpretati dai migliori attori di teatro. Si poteva fare e si può fare ancora, mutatis mutandis, nei sistemi dei media odierni: basta volerlo e dar valore ai professionisti capaci, che non mancano, ma spesso finiscono fagocitati da un meccanismo al ribasso. Come se la qualità fosse nemica dell'appetibilità. È il contrario, se non si abitua troppo male l'interlocutore. Non si lasci, allora, sola Rai Cultura, anzi, la si ponga al centro della politica aziendale, come punto di riferimento dei contenuti e come oggetto di strategie competenti nel nuovo agone mediatico. Le persone per farlo, in Rai, ci sono eccome.
Ciò vale per la Rai come per ogni istituzione culturale, perché pubblica o privata che sia è sempre un servizio alla comunità, un bene condiviso. Il cinema ha pagato caro il suo gettarsi a capofitto nella concorrenza con la tv commerciale, il puntare sul facile effetto, ma finché ha tenuto saldo il principio che si dovesse fare anche arte, che gli incassi andassero investiti in qualità e ne derivasse prestigio, allora anche i film di genere hanno saputo darci perle e gemme.
Ricordiamoci di un'imprenditoria dello spettacolo (il discorso si può estendere oltre i confini del cinema) che si è sì riempita le tasche con il mercato, ma ha poi considerato un suo fine anche il vanto della qualità. Pensiamo all'equilibrio precario quel mercato, per un periodo virtuoso e poi autocannibalizzato non tanto da prodotti a basso costo talmente brutti da non portare nemmeno incassi ed entrare solo nella memoria dei cultori del trash (chi ricorda la serie, assai spassosa, “I bruttissimi di Odeon”?) quanto dal gioco al ribasso di una concorrenza commerciale che porta dritta dritta alla più laida sfida di reality. Prendiamo il principio e guardiamoci dal disastro. Il servizio pubblico è tale proprio perché se scende nell'agone del mercato non si deve sporcar troppo le mani. Allo stesso modo, una fondazione lirica, un teatro di tradizione, un'orchestra, una stagione di prosa potrà a buon diritto programmare eventi che strizzano l'occhio al botteghino, ma non dovrà mai scendere sotto un determinato livello di dignità.
Pierino può finanziare il Pianista? Ci può essere posto per entrambi? Sì, ma non si metta Pierino al pianoforte, non si costringa il Pianista a fare il Pierino. Si tenga presente che per far soldi Pierino potrebbe anche funzionare meglio, ma non basta, perché il pubblico non è solo una fonte di denaro, è una comunità di cui tutti facciamo parte.
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