La costruzione di un’estetica musicale nella Francia dell’età dei Lumi

  di Giada Maria Zanzi

PREMESSA

Affermava Democrito: «L’uomo è un piccolo mondo». L’essere umano è una creatura estremamente complessa, dotata di una mente che abita un corpo e attraverso questo entra in relazione con l’universo circostante. Le percezioni fisiche permettono all’uomo di entrare in contatto con la natura, inducendolo a riflettere su se stesso in qualità di abitante del mondo, parte di un tutto; la natura stimola, dunque, il nostro lato razionale, ma il cuore che pulsa nel petto non sempre è concorde con quest’ultimo.

La sensibilità si colora di passioni e affetti, che rendono unici gli individui, mentre ciò che li accomuna è il bisogno di stare bene, essere felici. La felicità è come una gemma; è un bene tanto prezioso quanto raro e fragile, eppure esistono uomini che riescono a catturare aspetti meravigliosi della natura, incastonandoli nell’arte e porgendoci un bellissimo gioiello.

Ecco emergere una tematica fondamentale, il bello artistico, che non sempre accorda i giudizi della mente e del cuore di chi lo osserva: nella Francia settecentesca, pensatori illuminati cercarono la chiave per armonizzare il giudizio oggettivo del raziocinio con quello dettato dal nostro lato passionale ed essere quindi lieti e appagati.

Accanto al tentativo di costruire una coscienza intera, armoniosa, priva di conflitti, si cercò di capire se era possibile giungere a giudizi universalmente condivisi. Ci si accorse che non solo in un unico individuo potevano coesistere giudizi contrastanti, ma che i gusti di ognuno erano irrimediabilmente diversi. Chi aveva ragione e chi torto? Quali opinioni erano giuste? Il merito degli autori che incontreremo nelle prossime pagine è di aver compreso quanto la varietà arricchisca: l’uomo non è un essere scisso in senso negativo e non è in antitesi con gli altri, è piuttosto paragonabile a uno strumento musicale ricco di armonici. Le persone sono poliedriche e diverse fra loro, proprio come gli strumenti. Rendendoci conto di ciò e accogliendo la ricchezza che è data dalle diversità, udremo l’umanità suonare come un’immensa e melodiosa orchestra.

Nell’età dei Lumi, in Francia, la musica, rispetto alle altre arti, assume un’importanza legata alla riscoperta del suo potenziale intrinseco, che le consente di toccare le corde più intime dell’interiorità umana. Non è più solo una mera scienza dei suoni, è la voce della soggettività e, in quanto tale, colpisce l’attenzione di diversi intellettuali. Uomini raffinati si riuniscono in salotti, talvolta presso le abitazioni di donne illuminate, o in teatri, ascoltano buona musica e ne discutono. Però non si interrogano su quest’arte come farebbe un professionista, non sono interessati alle strutture, alla teoria: discorrono sugli effetti che l’ascolto ha avuto su di loro.

Le riflessioni sul bello musicale escono dai salotti per educare il pubblico attraverso scritti di vario genere che costituiscono un’alterità rispetto al secolare trattato. Il fine di codesti scritti è raffinare il pubblico, creare dei lettori-uditori capaci di esprimere i moti interiori che una melodia suscita in loro. Non esistono più solo i trattatisti e i maestri: oltre agli esecutori c’è chi fruisce delle arti, amatori che, sebbene non dotati di precise nozioni tecniche, si commuovono sulle note di una struggente sinfonia o gioiscono insieme al brioso personaggio di un’opera buffa e desiderano condividere le loro vere e proprie esperienze estetiche.

Nonostante il termine “estetica musicale” compaia sporadicamente, è tale disciplina che si sta formando: un nuovo ceto sociale sta nascendo e cerca un modo per affermarsi, distaccandosi da ciò che lo ha preceduto, riscoprendo però quella finezza cortese identificata nell'ideale femminile.

Indice

IL DISCORSO MUSICALE NEL XVIII SECOLO

La tematizzazione del soggetto

Un pubblico raffinato

La ricerca di principi ordinatori: il sistema delle belle arti e la questione del gusto

Nuovi generi letterari

CHABANON E LA SUA OPERA DE LA MUSIQUE

Introduzione al testo

Melodia e soggettività

La musica è un'arte imitativa?

BIBLIOGRAFIA


IL DISCORSO MUSICALE NEL XVIII SECOLO

LA TEMATIZZAZIONE DEL SOGGETTO

In Francia, sul finire del Seicento, prende il via un acceso dibattito fra sapienti, che vede contrapporsi gli Antichi ai Moderni, e il principale teatro della cosiddetta Querelle des Anciens et des Modernes sono pagine concernenti l’arte, dunque anche la musica, e la letteratura. I primi “contendenti” sono coloro che sostengono che la classicità greco-romana costituisca un modello cui ispirarsi, ma non superabile, mentre i Moderni sono i difensori del progresso e delle possibilità degli artisti e letterati loro contemporanei.

Nelle opere dei Moderni, inoltre, emerge che la musica non è solo scienza; inizia a configurarsi come una sorta di antropologia, il cui fine è l’esplorazione dell'uomo. L’interiorità, specchio dell’esteriorità e asilo dell’irripetibilità, è agitata come una sorta di atmosfera interna, motivo di felicità e dolore: le considerazioni estetiche moderne sulla musica (che, come già detto, sono tali nonostante la coniatura del termine sia successiva al XVIII secolo) vogliono portare pace tra il mondo interno dell’uomo e quello esterno che, irrimediabilmente, lo turba, lo scuote, e indagare gli effetti che la musica ha su chi la ode.

L’esperienza musicale, nel Settecento, coinvolge la triade esecutore-esecuzione-ascoltatore. È la prima volta che ci si interessa anche al pubblico: si scrivono testi per chi, pur non conoscendo la musica, riflette e si interroga su di essa e sulle emozioni che suscita.

L’ottica si sposta dall’oggetto al soggetto. Ogni essere umano è un unicum di esperienze, vissuto, educazione, ha un’interiorità che lo contraddistingue e che proietta all’esterno la propria impressione della realtà: in tal senso, gli uomini non sono solo creature, divengono creatori, che plasmano la realtà grazie alla loro immaginazione. La musica è intangibile e altrettanto impalpabile è quel “certo non so che” che la pervade, a proposito del quale ognuno darà una personale interpretazione.

UN PUBBLICO RAFFINATO

Claudio Monteverdi coniò, nei primi anni del XVII secolo, l’espressione “seconda pratica”, che designava una tecnica compositiva che si opponeva alla tradizione polifonica e contrappuntistica. La pratica monteverdiana è assai differente da quella, ad esempio, di Gioseffo Zarlino, grande teorico musicale del Rinascimento: la musica è ora concepita in qualità di messaggera della passione, che tiranneggia le menti ed è qualcosa di più rispetto alla pura conoscenza; assistiamo, agli inizi del Seicento, ad una retoricizzazione della musica, che si popola di miti classici. Il teatro musicale seicentesco crea e mette in scena archetipi antropologici delle passioni, che, per gli uomini del tempo, erano estremamente nette e definite.

Dunque, vi furono sforzi atti a costruire l’interiorità ancor prima del XVIII secolo e l’estetica musicale è uno dei punti di arrivo di codesto processo. La progressiva costruzione del soggetto attraverso la musica culmina nel Settecento, quando si sviluppò una relativizzazione anche degli affetti. Il Seicento è caratterizzato da un’eccessiva ricerca di sentimenti puri e dalla pretesa di renderli statici, mentre nel XVIII secolo si auspica un ritorno all’equilibrio, si tenta di portare alla luce tutte le sfumature dell’animo.

Un primo passo verso la ricostruzione dell’individualità si ha certamente in epoca barocca, ma è alle menti illuminate che dobbiamo una vera svolta per la soggettività. Attraverso l’analisi dei sentimenti, nel Settecento si tematizza l’uomo musicale, non il teorico, bensì colui che percepisce e gode della sfera sonora e ha un’esperienza estetica da condividere; si è detto che le realtà salottiere ospitano sia uomini sia donne e la delicatezza di queste ultime le erge a giudici del bello. Il gentil sesso si ritiene conoscere bene la sensibilità, poiché il suo spirito è soave e questo rende le donne muse ispiratrici di discorsi musicali raffinati e scritti in cui si parla di musica, ma in maniera decisamente differente rispetto ai trattati.

Il trattato è destinato agli esperti, non agli amatori, mentre i generi letterari settecenteschi che lo affiancano danno vita a opere che non illustrano la musica come un costrutto; i protagonisti di questi innovativi generi sono persone dotate di sensibilità. Alcuni generi sono assolutamente nuovi, altri costituiscono invece la riscoperta e il recupero di forme preesistenti, in particolare rinascimentali; ricordiamo, ad esempio, l’opera del 1702 di François Raguenet, Parallèle des Italiens et des Français en ce qui regarde la musique et les opéras: il titolo richiama il modello umanista del genere letterario del confronto, la disputa delle arti, il cui scopo era cercare di capire quale arte fosse più vicina a Dio, mentre Raguenet si interroga sulle musiche nazionali italiana e francese, sostenendo che la prima sia superiore alla seconda.

La tradizione trattatistica non conosce una crisi nel Settecento: difatti, Rameau scrisse il suo trattato di armonia, Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels, nel 1722; però è innegabile che in quest’epoca vi sia anche un filone letterario musicale parallelo a quello dei trattati, di grande valore estetico e storico.

Gli scritti che anticipano, nell’Età dei Lumi, la disciplina che nel secolo successivo prenderà il nome di estetica musicale, contribuiscono a conferire alla musica nuove connotazioni e proprietà; quest’arte non è esclusivamente una semplice concatenazione di suoni. Gli schemi compositivi sono finalizzati a riprodurre l’interiorità, i sentimenti, gli affetti; la teoria è votata a muovere le passioni; la musica deve raggiungere l’individuo e accompagnarlo nel cammino che lo porta alla definizione della sua soggettività e unicità.

LA RICERCA DI PRINCIPI ORDINATORI: IL SISTEMA DELLE BELLE ARTI E LA QUESTIONE DEL GUSTO

Nell’antichità si cercava di controllare l’affettività: si pensi alla filosofia stoica, che condanna le passioni in quanto turbano il saggio. I filosofi classici identificano nella passione un fattore destabilizzante; per mantenere l’ordine sono necessarie precise regole, precetti basilari. In definitiva, questa tendenza è sentita anche dai Moderni, che avvertono il bisogno di una legge universale che dia stabilità e senso di compiutezza.

Pitagora quantificò il piacere dell’ascolto musicale stabilendo che i suoni sono matematicamente e proporzionalmente rapportabili tra loro: dai rapporti matematici deriverebbero consonanze e dissonanze, ergo piacere o fastidio per l’orecchio. Anche nel Seicento si cerca di rendere più “tangibile” la musica e si persegue un approccio di tipo scientifico, si indagano i corpi, si studia la fisica acustica. L’eredità seicentesca pone delle basi metodologiche per il secolo successivo: l’impostazione scientifica, che caratterizza anche il XVIII secolo, porta al sistema delle Belle Arti.

La necessità di unificare tutte le arti secondo un unico principio, cioè l’imitazione della bella natura, che riprende la mimesi aristotelica, è di chiara ascendenza classica. L’artista riesce a cogliere la vera bellezza intrinseca della natura e a mostrarla al pubblico attraverso le proprie opere, anche musicali; l’arte, in quanto imitazione del reale, permette all’osservatore-uditore di gioire del mondo, muovendo le passioni disugualmente rispetto a esso, mettendole in scena. Una copia, per quanto attiva e piena di vibrante vitalità, non è la realtà e chi ammira o ascolta ne è coscio. La riproduzione della natura e degli affetti è più confortante e riposante per la mente, che può abbandonarsi alla contemplazione. Quindi, l’arte diviene una sorta di mediatrice e permette di controllare le emozioni, che possono essere, in questo modo, anche minuziosamente analizzate e individuate.

Di fronte all’arte, però, diverse sono le reazioni. La soggettività della sensibilità porta ad un tema centrale, ovvero il gusto, che, nel Sei-Settecento, non ha più solo a che fare con gli oggetti del palato, ma coinvolge anche quelli dello spirito: è una facoltà di giudizio fondata sulla proporzione, che si situa a metà tra il concreto e l’astratto.

Precedentemente abbiamo sottolineato come ognuno abbia percezioni proprie, e, anche in ambito musicale, difficilmente è possibile individuare un’opinione universale. La musica è oggetto di dibattiti, provocati dai gusti personali. In un secolo che accomuna le arti in base ad un unico principio, si ricerca una legge che unifichi anche i gusti musicali, ricordando che il conflitto non è solo esterno all’uomo; non ci imbattiamo solamente in altre persone, dobbiamo confrontarci anche con noi stessi, tentando di accordare giudizio razionale (vicino alle leggi compositive, al bello “tecnico” e oggettivo) e istintivo (cioè dettato dal cuore, che può apprezzare anche qualcosa che la ragione non approva). Gli antichi soccorrono ancora una volta i moderni: la perfezione della proporzione è, in generale, universalmente riconosciuta come fonte di bellezza e piacere; eppure, la simmetria non basta, non riesce a ergersi come principio assoluto, che sembra, invece, essere, l’assenza di concordia.

Non è possibile stabilire con esattezza cosa sia davvero bello e cosa no, chi abbia ragione e chi torto. Ciò che conta è che tale questione sia stata sollevata e che alcuni autori si siano cimentati, ognuno a proprio modo, nella ricerca di una soluzione portatrice di maggiore equilibrio e benessere.

NUOVI GENERI LETTERARI

Gli scritti sulla musica non sono la musica stessa, ma le consentono di sopravvivere anche quando cessa di risuonare, perciò, indipendentemente dal genere, sono tutti degni di nota e di interesse musicologico, perché consentono di ricostruire il suono del passato.

I nuovi generi letterari settecenteschi non si interessano alla musica teorica, bensì a quella “viva”, quella che si ascolta a teatro, quella dei fruitori. Cercando di dare una delimitazione cronologica a codesti discorsi, sono individuabili due opere, poli fondamentali: la Lettre de Monsieur Le Gallois à Mademoiselle Reganault de Solier (1680) e Observations sur la musique et principalement sur la metaphysique de l’art di Michel Chabanon (1779).

Grazie a Le Gallois iniziamo a scorgere una realtà speculare a quella delle corti rinascimentali, si riscopre l’arte della conversazione nei salotti di signore illuminate; come la tradizione insegna, gli spiriti muliebri sono fini ed ora educano gli uomini, insegnando loro ad essere sensibili.

La lettera di Le Gallois sembra essere il primo testo che presenta particolari elementi di novità, sintomatici di una coscienza musicale estetica. Innanzi tutto, il rivolgersi ad un pubblico sensibile di non-professionisti; poi, la scelta del genere epistolare, già prediletto dagli umanisti, implica un nuovo modo di comunicare, la presenza di un interlocutore (anzi, di un’interlocutrice) rende il discorso meno formale, la lettera è uno scritto personale. Le Gallois parla di musica, ma non come uno studioso, nonostante definisca questa sua opera “trattato”: si chiede come mai la musica dia piacere agli uomini e per quale motivo, nonostante esistano regole ordinatrici, le menti abbiano pareri tanto diversi su di essa; per rispondere al primo quesito, l’autore si basa su assiomi metafisici platonici, affermando che sia l’uomo sia la musica sono formati da numeri e, in quanto simili, si attraggono.

Per quanto riguarda la questione dei gusti, Le Gallois si mostra consapevole del fatto che non esistono musiche e giudizi giusti o errati, ma svariate alterità che portano ricchezza conoscitiva: egli fa riferimento anche alle differenti musiche nazionali, di cui dirà anche Raguenet. Quest’ultimo era un ecclesiastico francese che si trattenne in Italia per circa due anni e, in questo periodo, ne seguì la musica da vicino. Al suo ritorno in Francia, Raguenet scrisse il testo che abbiamo citatovedi↑, per elogiare il melodramma italiano.

Dunque, nei discorsi preestetici compare anche il teatro d’opera e, secondo Raguenet, le arie italiane riescono talmente a veicolare gli affetti da rendere la musica italiana superiore a quella francese, affermazione che risveglia il patriottismo di Le Cerf de la Viéville, magistrato e aristocratico francese che, per riabilitare la musica della propria nazione, pubblica a sua volta un testo nel 1705: Comparaison de la musique Italienne et de la musique Française.

Quindi anche Le Cerf si rifà al genere letterario del confronto, mentre diversi anni dopo, esattamente nel 1748, Denis Diderot scrive di musica in un testo scientifico, nella prima memoria (Principes généraux d’acoustique) dell’opera intitolata Mémoires sur différents sujets de mathématique: lo scritto tratta di matematica e inaugura un’ulteriore forma letteraria che ospita discorsi musicali. L’enciclopedista riporta il focus sulla musica-scienza, problematizza la questione della diversità dei gusti con atteggiamento moderno approdando anch’egli a conclusioni classicistiche; è, insomma, l’emblema di un’estetica settecentesca che vuole opporsi a quella barocca, auspicando ad un ritorno alla semplicità, o meglio, come si diceva in precedenza, all’ordine.

Si è visto il genere epistolare, quello comparativo e, in ultimo, le memorie. Oltre a codeste forme, un’utile strumento per la diffusione del sapere musicale e delle nuove meditazioni in materia è il giornale: il primo in Europa, risalente a metà Seicento è “Le journal des scavans”. Un ulteriore genere è, indubbiamente, il saggio.

Nel XVIII secolo, poi, l’Europa si apre al resto del mondo, la lettera di Le Gallois e i paralléles di Raguenet e Le Cerf dimostrano che ci si comincia a rendere conto di “altre musiche” e culture; il diario di viaggio è una fonte di conoscenza per i posteri di tale varietà sonora, oltre a testimoniare il nuovo interesse maturato dagli uomini del Settecento. La diversità non è guardata con sospetto, risulta piuttosto stimolante.

Accanto ai trattati, si sviluppano, quindi, tipologie scrittorie adatte a rendere giustizia a quegli aspetti, propri della musica, che conferiscono un’anima alle sue disciplinate strutture. Michel Chabanon conclude un cammino intellettuale, di cui abbiamo citato solo pochi esempi: il titolo della sua opera del 1779 richiama, da un lato, la scienza, dall’altro la metafisica. Egli indaga i moti dell’anima, ma per parlare di ciò la scienza non è sufficiente. Come asseriva Le Gallois, seguendo la tradizione ficiniana e antica, la musica è un medico dell’anima. Il metodo scientifico ritorna sempre, spina dorsale dell’epoca in esame, tuttavia le scienze non riescono a spiegare ogni cosa, hanno un limite. A un certo punto non si può far altro che fermarsi e semplicemente contemplare gli effetti della musica sull’uomo.

Nel 1785, Chabanon scrisse De la musique considérée en elle-même et dans ses rapports avec la parole, les langues, la poésie et le théâtre, un complemento all’opera del 1779. L’epoca dei Lumi volge al termine e lo spessore assunto dalla musica in questi anni è a un punto di svolta. Sul finire del XVIII secolo, quest’arte è pronta ad identificarsi come assoluta (caratterizzazione che la contrassegnerà per tutto l’Ottocento), all’apice del suo splendore, protagonista di un vero e proprio ribaltamento dialettico; credo che le parole di Chabanon illustrino questo progresso, pertanto l’autore si configura come punto di passaggio da un periodo storico-musicologico a un altro e, a mio avviso, merita una particolare menzione.


CHABANON E LA SUA OPERA DE LA MUSIQUE

INTRODUZIONE AL TESTO

Michel Chabanon fu un musicista, compositore e teorico, e un letterato, naturalizzato francese: nacque a San Domingo nel 1730 e si spense nel 1792 a Parigi. Per quanto di formazione illuministica (era grande amico e ammiratore di Voltaire, che elogia anche nella sua opera De la musique), appartiene, come già detto, alla cultura preromantica e il titolo del testo esaminato in questo capitolo ne è testimonianza. La musica può legarsi ad altre arti e discipline, ma nasce come entità autonoma e indipendente da esse. Coadiuvata dalla parola, il linguaggio, la poesia e la sua teatralizzazione, la musica ripropone le passioni naturali, ma Chabanon sottolinea che anche quando è “pura”, cioè libera da rapporti e relazioni, è capace di esprimere affetti. Tale concezione è senza dubbio sintomo di una nuova coscienza che sta prendendo forma e che preludia la vera e propria emancipazione di quest’arte nel corso dell’Ottocento, che non condanna le passioni suscitate dalla musica e le accoglie come complemento dell’uomo, ma che soprattutto si interroga sugli effetti che quest’ultima ha sull’ascoltatore:

«Puis-je rèveiller le souvenir de nos disputes sur la musique, sans observer qu’il est de la destinée de cet art, plus que de tout autre, d’intéresser la concorde et la tranquillité des citoyens; ce qui tient sans doute à la prodigieuse force des impressions que cet art fait éprouver?»

Siamo dinnanzi al tentativo di dare un volto più complesso alla musica, che si impone prodigiosamente, molto più di ogni altra arte, ci travolge.

L’opera di Chabanon De la musique è uno scritto estremamente articolato, che, come esplicitamente espresso dall’autore, non vuole essere un trattato:

«Nôtre livre ne doit ni apprendre la musique à ceux qui ne la savent pas, ni perfectionner les talens de musique dans ceux qui les ont acquis: il doit faire penser et réfléchir ceux qui connoinssent l’art, et quex qui l’ignorent, ceux qui l’aiment, et ceux qui n’ont pur lui que du dégoût: c’est à proprement parler, un ouvrage de philosophie fait à l’occasion de la musique.»

Non parliamo più esclusivamente della musica dei teorici; personalità come Chabanon desiderano abbracciarla nella sua totalità, interessandosi alle esperienze degli amatori, che possono comunque esprimere giudizi, seppur non tecnici.

La peculiarità del testo risiede nel fatto che Chabanon parla di poesia, linguaggio e teatro come accessori della musica, per dimostrare che essa non ne ha bisogno per veicolare emozioni. Li cita per negarne la rilevanza.

Strutturalmente, l’opera consta di due ampie sezioni ed un’appendice finale. La prima parte è quella di maggiore interesse per la nostra ricerca di indizi che accostino De la musique alla costruzione di un percorso estetico-musicale settecentesco.

MELODIA E SOGGETTIVITÀ

L’uomo riesce a dominare le passioni grazie all’azione catartica della musica, la cui efficacia risiede in una potenza intrinseca, che dà voce alla sfera sentimentale, all’interiorità: secondo Chabanon, il potenziale della musica risiede nella melodia, linguaggio dell’anima. La melodia (un tessuto tra le cui trame non si intellige solo una combinazione di note, ma si intrecciano pensieri e sentimenti, che, divenendo sonori, diventano quasi tangibili) e il cuore discorrono amabilmente, come due amichevoli interlocutori.

La melodia è ciò che maggiormente differenzia un’esecuzione da un’altra, ed è quindi nuovamente evidente la volontà di Chabanon di dar spazio alla soggettività, che, però, è sorretta dalle solide basi dell’oggettiva armonia: in Rameau, l’autore identifica quel complesso di regole dalle quali non si può prescindere; anche se privilegia la melodia e critica Rameau con atteggiamento pressoché rousseauiano, Chabanon non si scaglia contro l’armonia. Così giustifica il maggiore risalto che dà alla melodia:

«Nôtre intention étant de réduire la musique à l’idée la plus simple qu’on puisse s’en fair, afin d’en raisonner plus pertinemment, nous la considérerons d’abord uniquement comme mélodie, sans tenir aucun compte des embellissemens que l’harmonie lui prête.»

La melodia è musica pura e tinge di unicità ogni composizione. Fra melodia e armonia, orizzontalità e verticalità, successione e simultaneità, non vi è un rapporto gerarchico, bensì coabitazione. La prima, sonorità pura, canto dell’interiorità, è implicita nell’armonia, anche se il sentimento prevale inevitabilmente sulla teoria: una melodia senza sovrastrutture armoniche può esistere, ma non il contrario (il risultato sarebbe «une musique qui ne chante pas>>, priva di quel “certo non so che”). Le regole esistono ed è giusto che sia così, sono necessarie, ma rimane pur sempre il fatto che risultano subordinate al gusto personale e impotenti dinnanzi alla sua autorevolezza. Il sapere teorico è innegabilmente capitale per chi vuole cimentarsi in un’opera d’arte, ciò non toglie che le fatiche dell’artista non siano sempre ricompensate o apprezzate da tutti:

«On condamne une musique que l’on n’aime pas (ou qu’on ne veut pais aimer) et, comme pour consoler le compositeur de cette improbation malévole, on lui laisse le triste dédommagement d’un éloge qui ne signe rien: on le reconnaît savant, pourvu que les autres le reconnoissent sans génie et sans goût; le détracteur gagne tout à cet échange.»

Nel secondo capitolo della prima parte della sua opera, Chabanon tratta di melodia, rapportandola non solo agli affetti, ma anche al principio d’imitazione. Sin qui si è detto che, secondo l’autore, la musica veicola passioni, e lo fa grazie alle proprietà individuali intrinseche delle melodie, caratterizzate da spirito soggettivo. A questo punto, Chabanon si domanda: tutto ciò rende la musica un’arte imitativa? Vale a dire, la melodia imita le passioni?

LA MUSICA È UN’ARTE IMITATIVA?

Secondo Chabanon, la musica non è un’arte imitativa. Innanzi tutto, a suo avviso, una melodia non imita gli affetti, ma è allegoria di una situazione: ad esempio, una fanfara può riportarci alla mente un’immagine guerresca. Il fatto che l’ascolto susciti emozioni non significa che la melodia stessa le debba star imitando: in altre parole, Chabanon sembra prendere le distanze dall’imperante sensibilità classicista, secondo la quale musica e ascoltatore sono direttamente proporzionali l’una all’altro. Una musica non deve per forza imitare un affetto per suscitarlo nel pubblico. Un canto malinconico può anche far affiorare un sorriso:

«Le chant d’une nourice soulange ses douleurs, calme son impatience, lui transmet une gaîte qu’atteste son sourire innocent. Transportons-nous dans les forêts qu’habitent les peuples féroces et indisciplinés, nous y verrons la musique, compagne inséparable de l’homme et comme lui réduite à l’instinct le plus sauvage.»

Indipendentemente dal contenuto, comunque importante per meglio comprendere l’ascolto, la musica ci colpisce, e sempre in maniera personale. Per sostenere le sue tesi, Chabanon si sposta geograficamente, porta l’esempio di culture extra-europee (di cui, come già detto, tratterà approfonditamente anche nell’appendice del testo) per identificare e studiare una musica il più possibile pura e libera da convenzioni. Continua Chabanon:

«Les sauvages emploient la musique dans leurs fêtes, qui sont militaires ou funéraires, et leurs chants, ainsi qu’ils les appellent eux-mêmes, sont des chants de joie ou de mort. […] Les chants des sauvages n’ont aucun des caractères dont nôtre imagination les juges susceptibles ; la mélodie en est douce et gaie plutôt que terrible et (ce qu’il faut bien remarquer) le chant de guerre ne diffère pas du chant de mort : l’un n’est ni vif ni bruyant, l’autre ni triste ni lent.»

Si era già accennato al fatto che il giudizio di Chabanon a proposito delle melodie dei nativi è inevitabilmente filtrato dalla sua percezione culturale, che non gli impedisce di comprendere appieno il significato dei canti e di differenziarli; in ogni caso, indipendentemente da questo discorso e dall'esattezza o meno di alcune sue affermazioni, ciò che ci interessa rimarcare è il suo messaggio, quello che desidera dimostrare: il canto non è imitazione. Più avanti, leggiamo ancora:

«L’incohérence du chant et des paroles se fait sentir dans les chansons des nègres qui peuplent nos colonies. Ils mettent en chant tous les événements dont ils sont témoins, mais, que l’événement soit heureux ou sinistre, l’air n’en a pas moins le même caractère.»

L’esistenza di oggetti esterni alla musica e dai quali essa è ispirata e provocata è comunque un dato di fatto, Chabanon ne è consapevole, ma al contempo la delinea sia come un’arte estremamente complessa, che si può associare ad altre, sia prettamente indipendente, a tratti autoreferenziale e quasi bastante a se stessa, nella quale non vige il principio di imitazione; nemmeno le melodie si imitano a vicenda, piuttosto possono assumere lo stesso carattere:

«L’imitation musicale n’est sensiblement vraie que lorsqu’elle a des chants pur objet. En musique on imite avec vérité des fanfares guerrières, des airs de chasse, des chants rustiques, etc. Il ne s’agit que de donner à une mélodie le caractère d’une autre mélodie.»

La natura, più che oggetto di imitazione, pare essere abitata dalla musica: la realtà è un palcoscenico sul quale si muovono le musiche-attrici, che non narrano una storia agli spettatori, ma spettacolarizzano la propria esistenza.

La questione dell’imitazione, o meglio della negazione di codesto principio in musica, porta Chabanon (che abbiamo notato essere filorousseauiano nel privilegiare la melodia rispetto all’armonia), nel nono capitolo della prima parte dell’opera, intitolato L’expression du chant ne consiste pas dans l’imitation du cri inarticulé des passions, a muovere un’evidente critica anche a Rousseau, soprattutto su un piano dialettico:

«Plusieurs de nos passions n’ont point de cri qui leur soit propre; la musique cependant les exprime. Les instruments incapables de rendre les cris de la voix humaine n’en sont pas moins les interprètes éloquents de l’énergie et de l’expression de la musique. […] Comment la musique, sans imiter la parole, ni les cris, exprime-t-elle les passions ? Elle assimile, autant qu’elle peut, à nos divers sentiments, les sensations diverses qu’elle produit ; c’est ce que nous allons développer.»

La musica possiede già determinati caratteri, pertanto non le è necessario ricorrere all’imitazione per manifestarli: semplicemente li ripropone in chiave propria. È una ricca tavolozza di passioni, che ognuno percepirà in base alla propria storia, alla propria soggettività: ciò rende la musica immensa. Una melodia ci può portare in un numero infinito di atmosfere diverse. Un’unica serie di suoni, a seconda di chi ascolta, può dar vita a innumerevoli versioni di sé, ciascuna meritevole; l’uomo del Settecento costruisce il sapere insieme ad altri compagni di viaggio, che contribuiscono ad arricchire la sua unicità.


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