La tecnica canora maffeiana

 di Giada Maria Zanzi

Leggi anche:

Maffei e l'estetica della vocalità I

Maffei e l'estetica della vocalità II

Maffei e l'estetica della vocalità III

Cenni introduttivi pag 1

L'approccio didattico di Maffei pag 2

Il decalogo del cantore maffeiano pag 3

Il canto passeggiato pag 4

I rimedi per tutelare e guarire la voce pag 5

Bibliografia pag 6

Cenni introduttivi

Scopo primario della Lettera sul canto di Giovanni Camillo Maffei che apre i suoi Discorsi filosofici è fornire precetti per consentire a chiunque di apprendere l’arte canora, senza l’ausilio di un maestro. Il Maffei ci introduce gradualmente nel suo mondo canoro, affrontando differenti argomenti e dedicandosi innanzi tutto alla descrizione dello strumento-uomo; poi, ecco farsi strada il lessico puramente legato all’ambito musicale vocale: l’autore delle Lettere si esprime a proposito del falsetto, voce che l’uomo finge, dunque non naturale, risultante dalla volontà dell’individuo che agisce sulla propria dimensione corporea. Maffei adotta questo termine nella sua accezione rinascimentale, nonché sei-settecentesca, ergo lo identifica con un’alterazione a scopi artistici della voce maschile cantata (generalmente per imitare quella femminile e, a partire dal XVII secolo, per rivaleggiare con quella dei castrati), dalla quale risulta un suono acuto e non particolarmente potente.

Quando tratta del timbro grave e acuto e del falsetto, Maffei inaugura definitivamente una nuova sezione della Lettera sul canto, addentrandosi specificatamente nell’ambito canoro: nomina esplicitamente le vocalità tenorile, sopranile e di basso, così il discorso assume una connotazione più definita, proiettata a passare dal semplice parlato al cantato, che dà voce all’anima grazie all’azione del corpo e della volontà, esattamente come quando parliamo, ma raggiungendo in maniera più efficacie e immediata i cuori degli ascoltatori.

I primi veri e propri cenni di tecnica canora compaiono alla fine del discorso relativo alle caratteristiche vocali in generale: le parole spese dell’autore sino a quel punto appaiono votate a illustrare con dovizia quella che sarà la protagonista delle pagine successive, cioè la voce “passaggiata”. Partendo dalle tonalità del parlato, la voce esegue rapide scale melodiche (che a partire dal Cinquecento e per tutta l’età barocca sono indicate col nome di “passaggi”) che la agevolano anche quando deve toccare toni più ostici e difficili da sostenere. L’abilità nel “passaggiare” è, secondo Maffei, sinonimo di flessibilità vocale:

«Dico che tal voce [quella, appunto, passaggiata] non è altro ch’un suono cagionato dalla minuta e ordinata ripercussione dell’aere nella gola, con intentione di piacere all’orecchia. Dove chiaramente si vede ch’il suono sia genere, poich’ogni voce passaggiata è suono, ma non ogni suono è voce passaggiata. E dove chiaramente si vede ancora che l’altre particelle stanno in luogo di differenza, percioche dicendosi che la voce passaggiata sia minuta e ordinata con intentione di piacere all’orecchia, si fa differente dalla minuta voce che si sente nel ridere e similmente dalla tosse, laquale, quantunque sia minuta, non è però ordinata, né all’orecchia piace. E si fa differente ancora da quelle voci che, con ordine e diminutione, si fingono, portando le sillabe delle parole in bocca, si come farebbe alcuno quando dicesse (poniam per caso) amor, fortuna, ecc.»

Ciò che rende la voce passaggiata dissimile dal parlato è la gradevolezza dei suoni prodotti: meccanicamente non individuiamo significative differenze, anche se il rigore (l’“ordine” di cui parla Maffei) necessario per passaggiare è sicuramente maggiore, ma è soprattutto l’aspetto estetico a essere determinante:

«In cinque note, cioè ut, re, mi, fa, sol, applicando a ciascuna nota una sillaba, perché questa voce, ancor che sia minuta e ordinata e piacevole all’orecchia, nondimeno per farsi ella con intentione di significare alcuna cosa, cioè per inferire il sentimento delle parole, non si può né si deve chiamar voce passeggiata, la quale solamente si fa per diporto dell’orecchia. Né perché tante conditioni in questa diffinitione io abbia messe si deve dire che tal voce sia specialmente distinta dalle sopradette, conciosia cosa che si riduce alla flessibile, poiché consistendo ella nel sormontar di basso in alto e nello descender d’alto in basso con la minuta e ordinata ripercussione dell’aere, non può nascere se non dall’istromento pieghevole e molle. Onde si fa chiaro a tutti che coloro i quali dalla natura non hanno la gola molle e pieghevole non sono atti far passaggi, si che ad essi loro poco o nulla questi miei ordini giovevoli saranno. Or detto dunque che cosa sia questa voce e a quale delle sopradette voci si riduca, vò dire del luogo dove i passaggi si formano. Il luogo dove i passaggi si formano è quello istesso nel quale si forma la voce, cioè la cartilagine chiamata cimbalare, come abbiam veduto, la qual, ora costringendosi e ora dilatandosi da sopradetti nervi con l’ordine che V. S. più sotto intenderà, rifrange e ripercuote tanto minutamente l’aria che ne risulta da tutti lo desiderato cantare.»

La voce passaggiata è puramente gradevole, lo scopo principale del passaggiare è piacere a chi ascolta, non riferire un testo. Essa è però un privilegio: difatti solo chi ha un apparato flessibile può eseguire i passaggi, cioè virtuosismi, e coloro che possono vantarla saranno capaci di un soavissimo canto.


L’approccio didattico di Maffei

Secondo l’autore dei Discorsi filosofici, la natura abbisogna di nozioni che la regolino, e a ciò provvede l’arte. Il maestro è colui che plasma la materia vocale del proprio discepolo, appurando il verificarsi di determinate condizioni e seguendo precetti particolari. Maffei ritiene che non basti essere musici per educare una voce, è necessario essere anche artisti del sanare, quindi medici (per conoscere a fondo il proprio strumento), nonché filosofi (in quanto la sola anatomia non consente di comprendere e gestire le vocalità, che non sono esclusivamente connesse alla corporeità, ma anche allo spirito, all’interiorità del soggetto). L’illustre solofrano riunisce in se stesso tutte queste figure professionali, che gli conferiscono l’autorità per trasmettere dei precetti utili a chiunque desideri accostarsi all’arte canora: egli, nella Lettera sul canto,si presenta come un primo maestro, che successivamente lascia che sia l’allievo stesso ad autovalutarsi e prepararsi. Infatti, grazie alle regole formalizzate da Maffei chiunque può divenire maestro-artefice di se stesso ed essere autonomo.

Tanto nell’antica Grecia quanto nel Rinascimento, la musica e il canto monodico hanno una forte valenza educativa: in epoca classica erano considerati fattori estetico-morali, e, a partire dal Medioevo, le scuole e le realtà ecclesiastiche ne incoraggiano lo studio a complemento dell’educazione cavalleresca. Maffei è certamente influenzato da questo quadro storico: il medico, musico e filosofo di Solofra rientra perfettamente nella tradizione dell’insegnamento musicale cortese, anche se sviluppa una personale tecnica canora. Si autodefinisce addirittura innovatore, ma lo è davvero?

Nella prefazione a Le nuove musiche, una raccolta di brani per voce solista e basso continuo, il musicista e compositore Giulio Caccini (Roma, 8 ottobre 1551 – Firenze, 10 dicembre 1618) esprime il suo punto di vista estetico a proposito dell’interpretazione canora: le emozioni non sono suscitate tanto dalla voce in sé quanto dal testo che pronuncia e i passaggi virtuosistici rischiano di distrarre l’ascoltatore dal significato delle parole, pertanto è bene evitare di abusarne. Lodovico Zacconi (Trebbiantico, 11 giugno 1555 – Pesaro, 23 marzo 1627), compositore contemporaneo di Caccini, concorda con quest’ultimo a proposito dei virtuosismi: è vero che i passaggi dimostrano l’abilità del cantante, ma un loro uso eccessivo può tediare il pubblico; tuttavia, il passaggio, derivante da diminuzioni ritmiche della linea vocale originale, costituisce senza dubbio uno dei principali elementi per lo studio della tecnica vocale tra i secoli XVI e XIX. Alla luce di ciò, risulta evidente che la peculiarità di Maffei non risiede nell’impiegare i passaggi, bensì nella concezione “estetica” che egli ha dei medesimi e del canto. Siamo di fronte ad una filosofia del canto, non mera didattica.

Una voce flessibile, che scaturisce da un apparato ad essa congeniale, può eseguire passaggi. I virtuosismi evidenziano i tratti individuali della vocalità stessa, consentendo, dunque, al soggetto di proiettarsi all’esterno di se stesso; educarsi al canto non equivale solamente ad imparare a dilettare gli altri, è un cammino che porta l’uomo musicale a emergere: affinché il nostro modo di cantare risulti gradevole dobbiamo accordarci, come ogni strumento, ma anche in qualità di individui che provano e trasmettono emozioni.


Il decalogo del cantore maffeiano

Maffei, nelle Lettere, discorre di bello e brutto, gradevole e sgradevole e sconveniente, dimostrando non solo un interesse remoto per tali argomenti, ma anche che i temi principali delle sue pagine, cioè la voce e il canto, non si distaccano né dall’etica né dall’estetica. La bellezza è sinonimo di virtù, pertantoil cortigiano dovrà apprendere a modulare la propria voce in maniera esteticamente gradevole, così da porgere un suono degno di essere udito e che ben rispecchi la purezza di un animo nobile.

Nella Lettera sul canto sono enunciate le regole da seguire per riuscire ad educare la propria gola al canto senza l’ausilio di un maestro, ma coadiuvati dall’agilità dei passaggi (la cui rapidità favorisce la precisione).

«La prima dunque regola sia che colui che vuole abbracciar questa virtù debba fuggire, come capital nemica, l’affettatione, percioche tanto é di maggior bruttezza nella musica che nell’altre scienze, quanto con minor pretendimento si deve la musica esercitare. Nè m’occorre sopra ciò addurre altra ragione che l’isperienza istessa, laqual’ ogni giorno ne veggiamo, conciosia cosa che molti per saper cantare quattro notucce con un poco di gratia, mentre cantano, s’invaghiscono tanto di loro stessi che i circostanti se ne fanno beffe; e dopo aver cantato non meno per la città con i piedi passaggiano di quello c’hanno con la gorga passaggiato, e vanno tanto altieri e fumosi che sono da tutti più tosto schivati che riveriti. Or fugga dunque la compiacenza di se stesso, senza dare ad intendere che di ciò faccia o voglia far professione.»

Le regole sono in tutto dieci. Nella prima, Maffei ricorda che chi canta deve rifuggire l’affettazione e non ostentare la propria arte; inoltre, una qualità del cortigiano è anche la sprezzatura, cioè l’agire con disinvoltura. Il cantore non deve dimostrare né fatica né tantomeno autocompiacimento. Secondo Maffei è corretto essere disinvolti, ma non narcisisti (sarebbe uno sbaglio gravissimo, il cui unico risultato è la perdita del controllo su se stessi e sulla propria voce). Chi canta deve avere una veritiera percezione di sé, però ciò non significa commettere lo stesso errore del vanesio Narciso e perdersi nella propria immagine.

«La seconda regola è che l’ora nella quale si deve far questo esercizio sia la mattina, ovvero quattro o cinque ore dopo mangiare, perché nel tempo nel quale lo stomaco è pieno non può la canna della gola esser cosi forbita e netta come si richiede a mandar fuora la voce chiara e serena, la quale più di qualsivoglia altra cosa al cantare di gorga é necesseria. La terza regola è che lo luogo dove si deve far questo esercizio sia in parte nella quale la solitaria Eco risponda, si come sono alcune ombrose valli e cavernosi sassi, ne’ quali, rispondendo ella a chi seco ragiona e cantando con chi seco canta, potrà facilmente dimostrare se buoni o no i passaggi sono, e fare di viva voce ufficio.»

La seconda e la terza regola ci dicono quando e dove è conveniente esercitarsi: il giorno è il momento migliore, a distanza di quattro o cinque ore dai pasti onde evitare eventuali reflussi gastrici, mentre, per quanto riguarda il luogo, l’autore suggerisce di cantare ove vi sia eco. Maffei personifica l’effetto acustico del ritorno del suono identificando nella ninfa Eco una guida per il cantore: secondo la mitologia greca, Eco fu condannata dalla dea Era a ripetere in eterno l’ultima parola dei discorsi che le si rivolgevano; Maffei affida alla ninfa lo studente di canto, il quale, in un ambiente echeggiante, può riudire e valutare la propria voce. Proseguendo nella lettura apprendiamo che, oltre all’autoascolto, è centrale anche il sapersi osservare:

«La quarta è che non abbia far movimento alcuno altra parte del corpo fuor che la detta cartilagine cimbalare, perché se paiono brutti a noi coloro i quali cantano di gorga crollano la testa o tremano con le labbra o muovono le mani o piedi, ci abbiamo a persuadere che noi, facendo il simile, dobbiamo parere brutti agli altri. E di questi ne veggiamo molti, i quali, o per poca fatica tolta nel principio, ovvero perché non si sono accorti del mal’uso, non ponno in modo alcuno, quando cantano, star fermi, ed accioché di cio sia avvertito. La quinta regola è che debbia tenere uno specchio inanzi agli occhi, accioché mirando in esso sia avisato di qualsivoglia accento brutto che quando canta facesse.»

Guardandoci allo specchio non rischiamo di commettere errori: l’unica parte del corpo che deve attivarsi è la cartilagine cimbalare, cioè la glottide, ogni altro movimento risulterebbe visivamente antiestetico e sfavorirebbe una corretta emissione. Grazie all’aiuto dell’eco e all’uso dello specchio è possibile immedesimarsi negli spettatori, uscendo da se stessi: per avere il controllo sulle immagini che trasmettiamo a chi ci guarda e ascolta dobbiamo abituarci ad ascoltarci e ad osservare attentamente il riflesso del nostro atteggiamento corporeo; le parole di Maffei accostano, dunque, voce e immagine, riuniscono, cioè, Eco all’amato Narciso (i due protagonisti delle Metamorfosi di Ovidio che incarnano altrettanti caratteri complementari fra loro) attraverso il canto. Abbiamo già detto che il cantante deve avere una realistica percezione di se stesso senza cedere alla vanità, come accadde, invece, a Narciso. Un giorno, mentre cacciava nei boschi, il bellissimo giovane si fermò ad una fonte per dissetarsi e si specchiò per la prima volta: si innamorò del proprio riflesso, di una chimera senza corpo, come riferisce Ovidio, che, divenendo l’oggetto d’amore di Narciso, si anima; il giovinetto disprezzò virtuose fanciulle, fra cui anche la ninfa Eco, per questo le divinità olimpiche vollero punirlo, facendolo penare e languire fino alla morte per colpa della sua stessa immagine. Narciso si dissocia da sé in un insano delirio: invaghitosi del giovanotto incontrato alla fonte, smette di bere e mangiare. Narciso non conosce il proprio corpo, non ne è padrone, e ne rimane vittima; Maffei incoraggia un uso coscienzioso dello specchio mentre ci si esercita, esso deve essere un valido aiuto per chi canta, in quanto mostra la forma fisica della propria interiorità. La voce dell’universo interiore si dispiegherà nel cantato attraverso un ponderato controllo del corpo, solo così l’immagine del soggetto potrà essere proiettata all’esterno: Eco, voce disincarnata, ama Narciso, che deve abbracciare la ninfa e dimenticare l’ossessivo amore per il proprio riflesso (l’uomo musicale, a differenza di Narciso, non è un trionfo della propria immagine, bensì un accordo fra se stessi e l’esteriorità). Per l’autore dei Discorsi filosofici l’arte canora è armoniosa cooperazione fra anima e corpo, come riconfermato dalle righe seguenti:

«La sesta è che distenda la lingua di modo che la punta arrivi e tocchi le radici de’ denti di sotto. La settima è che tenga la bocca aperta e giusta, non più di quello che si tiene quando si ragiona con gli amici. L’ottava, che spinga appoco appoco con la voce il fiato, e avverta molto che non eschi per il naso, ovvero per lo palato, che l’uno l’altro sarebbe error grandissimo.»

Le regole numero sei, sette e otto dimostrano il rigore con cui Maffei disciplina l’aspirante cantore e si ribadisce nuovamente l’importanza della corporeità. Sono enunciati precetti propedeutici per ottenere una bella emissione: l’aria deve uscire dalla bocca (non dal naso), che deve essere aperta il giusto, ergo né troppo né troppo poco, e la lingua deve orbitare nei pressi degli incisivi inferiori. Appoggiare la punta della lingua alle radici dei denti inferiori fa si che non venga ostruito il passaggio dell’aria.

«La nona, che voglia conversare con quelli che con molta leggiadria cantano di gorga, perch’il sentire lascia nella memoria una certa imagine e idea, la quale porge aiuto non picciolo.»

A questo punto, Maffei ci dice che non dobbiamo ascoltare solo noi stessi, ma anche chi canta correttamente (quindi “di gorga”, cioè producendo la voce attivando esclusivamente la cartilagine cimbalare) e ad essi ispirarci: é necessario aprirsi all’universo circostante, udire le altre voci e ad esse rispondere, come un eco eterno. L’autore, oltre a manifestare l’intenzione di porre il cantante in armonia con la natura, riprende il principio aristotelico di mimesi: sia lo stagirita sia il suo maestro, Platone, ritenevano che la vera arte risultasse dall’imitazione della realtà. Le copie del reale, però, non devono essere sterili riproduzioni, si deve riuscire a intelligere la mano dell’artista (in altre parole la sua soggettività). Il decalogo si chiude con un’ammonizione per coloro che non si dedicano allo studio con impegno e costanza: la pigrizia non paga, per ottenere dei risultati è necessario esercitarsi a lungo. Inoltre, l’autore ripete ancora una volta quanto sia importante munirsi di uno specchio e esercitarsi in un luogo echeggiante:

«La decima è che debba fare quest’esercizio spessissime fiate, senza far com’alcuni fanno, i quali, in una o due volte ch’il loro intento non accapano, subito lasciano e della Natura si dogliono che non abbia loro data l’attezza e dispositione che se ce richiede. Onde attribuendo a lei quello qu’alla pigrizia loro attribuir si deve, fanno (a mio giudizio) grand’errore. Si ch’io mi rendo certissimo ch’il discepolo ammonito da Eco nella voce e avvisato dallo specchio negli accenti e aiutato dal continuo esercitio e parimente dal sentire coloro i quali cantano leggiadramente, acquistarà dispositione tale che potrà facilmente, in ogni sorte di madrigali o mottetti, applicar’ i pasaggi.»

Infine, oltre a riassumere brevemente le suddette dieci regole, Maffei introduce alcuni esercizi su pentagramma: si tratta di esempi musicali sui quali l’allievo può basarsi per attuare le indicazioni fornite da Maffei stesso.

I passaggi predispongono la laringe al canto: la voce cantante (come del resto quella parlata) è plasmata nella laringe, che deve essere educata. Al fine di arrotondare la propria emissione cantata e renderla meno aspra all’ascolto è utile che la bocca assuma la posizione di pronuncia della vocale “O”; inoltre, il cantore deve curare con attenzione l’intonazione, accertandosi, quindi, di star eseguendo e riproponendo con precisione una data melodia, ed è a tal scopo che Maffei propone alcuni esercizi progressivi: è necessario esercitarsi con costanza su tali passaggi per abituare la laringe ad un automatismo nel canto. Maffei precisa che i suddetti esercizi non descrivono le modalità di distribuire i passaggi in un brano: servono semplicemente per “accordare” le corde vocali, allenarsi a emettere suoni intonati. Le regole specificatamente legate all’uso estetico dei passaggi sono espresse in seguito, vediamole nel dettaglio.


Il canto passeggiato

Maffei riporta lo spartito del madrigale Lasciar il velo, composto da Francesco Aiolli (organista e compositore fiorentino, nato nel XV secolo) su testo di Francesco Petrarca, ma inserendo alcuni passaggi: egli varia i valori delle note, aggiungendo dei virtuosismi che vivacizzano le linee melodiche del brano, scritto per quattro voci, cioè soprano, tenore, contralto e basso. Lo scopo di tale madrigale è illustrare l’uso dei passaggi:

«E io anchora so che questo madrigale è vecchio, ma l’ho voluto mettere solo per esempio, accioché il buon cantante osservi in qual si voglia cosa che se gli para innanzi da cantare quei ordini e regole ch’in questo osservate si veggono, le quali, accioché più chiaramente s’intendano, ecco che da me si scrivono.»

L’illustre filosofo solofrano arricchisce le dieci regole concernenti la tecnica canora illustrando quando e come inserire i passaggi, dimostrando che è suo convincimento che il cantante debba essere erudito anche in fatto di teoria musicale; storicamente parlando, i passaggi nascono come improvvisazioni, che tuttavia non sono lasciate al caso:

«La prima, dunque, regola è che non si facciano passaggi in altri luoghi che nelle cadenze, perché, concludendosi l’armonia nel cadimento, con molta piacevolezza vi si puo scherzare, senza disturbo degli altri compagni; ma non per questo si proibisce che prima che s’arrivi alla cadenza non si possa passare da una ad un’altra nota con qualche vaghezza o fioretto, si come di passo in passo nel sopra stampato madrigale osservato si vede (in quei luoghi, però, dove si può comportare e dove pare che stia bene). La seconda regola è che nel madrigale non si facciano più di quattro o cinque passaggi, accioché l’orecchia, gustando di rado la dolcezza, si renda sempre più d’ascoltar desiderosa. Il che non avvenirebbe se continuamente passaggiando si cantasse, percioché i passaggi di piacevoli diventarebbono noiosi quando l’orecchia appieno satia ne divenisse; e questo ogni giorno tenemo inanzi agli occhi, poiché molti se veggono di coloro i quali, senza osservare semitoni e bemolli e senza anche esprimere come stanno le parole, non attendono ad altro ch’a passaggiare, persuadendosi ch’inquesto modo l’orecchia s’addolcisca. Onde, perché divengono fastidiosi, sono da tutto ’l mondo biasimati. La terza regola è che si debba far il passaggio nella penultima sillaba della parola, accioché, col finimento della parola, si finisca anche il passaggio. La quarta è che più volontieri si faccia il passaggio nella parola e sillaba dove si porta la lettera “O” in bocca col passaggio che nell’altre; e accioché questa regola sia meglio intesa, ora la dichiaro: le vocali (com’ognun sa) sono cinque, delle quali alcuna, come é lo “U”, porta uno spaventevole tuono all’orecchia, oltre che, passaggiando con esso, pare appunto rappresentare un lupo ch’ulula; onde non posso se non meravigliarmi di coloro quali nella prima sillaba del madrigale, ch’incomincia “ultimi miei sospiri”, fanno il passaggio, non posso (dico) se non meravigliarmene; si perché non si deve in modo alcuno passaggiando entrare e si ancora perché con questa vocale s’aumenta lo spavento e ombra del tuono. E alcuna, si come è lo “I”, portandosi col passaggio, rappresenta un animaletto che si vada lagnando per aver smarrita la sua madre; pure si può concedere ch’al soprano istia manco brutto il passaggiare per lo “I” ch’all'altre voci. L’altre vocali che rimangono si ponno senza sempolo portare; pure fando fra loro comparatione, dico che l’“O” è la migliore, percioché con essa si rende la voce piu tonda e con l’altre, oltre che non così bene s’unisce il fiato, perché si formino i passaggi, sembianti al ridere, pure non istringendo tanto questa regola, mi rimetto al buon giudizio del cantante. La quinta regola é che quando si ritrovano quattro o cinque di conserto, mentre cantano, l’uno debbia dar luogo all’altro, perché, se due o tre tutti in un tempo passaggiassero, confonderebbono l’armonia. E di quanto in queste regole si comprende, si vede manifesto esempio sopra scritto madrigale.»

Maffei aveva già manifestato la sua preferenza per la vocale “O”; ribadisce che è estremamente funzionale poiché, grazie ad essa, la voce si arrotonda, ma indugia anche su altre vocali, associando ad ognuna una particolare immagine (a suo avviso, la “U” ricorda l’ululato di un lupo, la “I”, invece, il lamento di un cucciolo spaventato che si è allontanato dalla madre). Secondo Aristotele, è l’immaginazione che rende voce un suono: è grazie ad essa che l’interiorità si rimodella per proiettarsi all’esterno sottoforma di voce. Innanzi tutto abbiamo una rappresentazione interna, sulla quale si plasma l’emissione, che ne veicola altre al di fuori del soggetto. Ergo, la voce nasce dall’immagine, ma è anche generatrice di immagini. Gli effetti acustici sono rielaborati nelle menti degli ascoltatori e in esse riecheggiano in qualità di simboli sonori di immagini esterne all’individuo. Maffei si rende conto che è impossibile separare Eco da Narciso, il cantante non può evitare di trasmettere immagini: oltre all’atteggiamento corporeo, anche quello vocale è rilevante, e proporre determinate sonorità in particolari punti di un brano può addirittura turbare, oltre a renderlo antiestetico. Notiamo che l’elemento estetico, in Maffei, è sempre fortemente connesso all’ambito metafisico e morale: l’arte agita le anime e l’artista deve essere conscio di ciò, senza abusarne. In conclusione, il cantore maffeiano deve essere responsabile e sensibile, moderato e garbato, come un cortigiano.

«Io penso finqui avere adempito quanto V. S. m’ha comandato; ora, perché non tutti i musici dopo d’avere a questi miei ordini ubbidito sapranno da per loro formare i passaggi, voglio qui sotto, per loro sodisfatione e mia, metterne alcuni, i quali nel cantare con qualche grazia riescano dove terrò quest’ordine: prima ponerò le cadenze e dopo i passaggi (io dico i più belli), perché se volesse mettere tutti quelli con i quali si può la cadenza variare, empirei il foglio più tosto di passaggi da sonar che da cantare, aggiongendovi Vago augelletto passaggiato nell’aria sua.»

Prima di riportare lo spartito di Vago augelletto, Maffei propone una serie di cadenze e passaggi come esempi per coloro che, nonostante le indicazioni fornite dall’autore, non riescano a ideare autonomamente dei virtuosismi. Vago augelletto è un antico madrigale (Maffei non specifica da chi sia stata musicata la versione da lui proposta), basato sul testo di un sonetto tratto dal Canzoniere di Petrarca, indicato da Maffei come ulteriore modello per l’invenzione e l’esecuzione di cadenze e passaggi: questi ultimi vanno eseguiti esclusivamente sulle cadenze e, in un madrigale, non ve ne devono essere più di quattro o cinque, in modo tale da non intaccare la linea melodica e l’armonia. In seguito, l’autore scrive poche righe per promuovere il proprio metodo didattico: la natura fornisce all’aspirante cantore lo strumento, cioè l’apparato fonatorio, ed egli, attraverso l’arte, lo educa al canto; per avvalorare le proprie tesi, Maffei afferma che sono condivise anche da Giovanni Domenico da Nola (poeta e compositore rinascimentale), Stefano Lando (compositore e liutista), Rocco Rodio (compositore e teorico musicale della scuola napoletana) e Tommaso Cimello (che, insieme allo stesso Giovanni Domenico da Nola, fu uno dei primi musicisti a scrivere villanelle napoletane). Secondo l’illustre solofrano il vero canto, cioè quello cavalleresco, è quello “di gorga”, che può essere perseguito rifuggendo la pigrizia e seguendo fedelmente il decalogo da lui formalizzato. Tuttavia, ciò non è sufficiente: riusciamo a cantare agevolmente solo se siamo sani, ecco perché è il medico che alberga nel Maffei a conclude la Lettera sul canto con una serie di suggerimenti per preservare e guarire la nostra voce.


I rimedi per tutelare e guarire la voce

Secondo Svetonio, l’imperatore Nerone, nonostante avesse una voce rauca e sottile, amava molto cantare, per questo motivo non trascurava mai nessuna delle precauzioni necessarie per conservare e migliorare la voce: arrivò perfino a sopportare sul suo petto lastre di piombo e a privarsi dei cibi che potessero recargli danno. Maffei invita a emulare Nerone, inoltre suggerisce di fare uso di erbe medicamentose:

«Assai giovevole rimedio a far buona voce è l’usare spesse volte gli argomenti onde Nerone, al quale tanto dilettava la musica, non avea a sdegno (come riferisce Svetonio tranquillo) l’usargli per potere più dolcemente poi cantare. Buono anco rimedio è il tenere una piastra di piombo nel stomaco, si come anco il medesimo Nerone facea.»

Successivamente, il medico solofrano ci istruisce sulle modalità di realizzazione di pillole che combattano gli effetti dell’umidità sulla voce: è necessario mischiare una mezza dramma (antica unità di misura del peso usata in farmacia, che corrisponde a circa 4 grammi; anche lo scrupolo è un’unità di misura, usata in ambito farmaceutico a partire dal Medioevo) di calamento con uno scrupolo (quasi 2 grammi) di gomma arabica. Il calamento è un’erba aromatica dalle proprietà lenitive nonché depurative, le stesse della gomma arabica:

«Ancora sono buone le seguenti pillole: massimamente quando la voce é guasta per soverchia umidità, togliansi quattro fiche secche levandone le scorze, e togliasi una mezza dramma di calamento e parimente uno scrupolo di gomma arabica, e pestisi ogni cosa insieme nel mortaio e facciasi ballotte, delle quali se ne tenerà una in bocca la notta continuamente e ’l dì.»

Maffei prosegue con altri consigli terapeutici:

«Ecco questo altro: togliasi una dramma di ligoritia e due d’incenso e togliasi anco uno scrupolo di safrano, e, pestando ogni cosa insieme e congiongendole con il rob di vino o d’uva, si userà poi appoco appoco. Il brodo del cavolo al medesimo effetto giova molto.»

La “ligoritia” è la liquirizia, pianta erbacea perenne, viene usata per mascherare sapori sgradevoli, ma anche come bechico, ergo contro la tosse, e espettorante, cioè per promuovere la rimozione di muco. Il “safrano” è, invece, lo zafferano, infine il “rob” è una sorta di sciroppo, che, tuttavia, differisce da quest’ultimo in quanto è costituito solamente da succo, senza zuccheri. La medicina popolare ha da sempre attribuito alle foglie del cavolo interessanti e curiose proprietà antifiammatorie, ecco perchè anche Maffei ci invita a farne uso in caso di bruciore alla gola. Altri rimedi all’“asprezza” della voce sono:

«Ed a tutti questi non è inferiore rimedio per l’asprezza della voce il togliere la cassia, dico il mangiarla nel cannuolo con il coltello, e parimente è molto approvato rimedio il lochsano di Mesué, si come buono rimedio ancora è il gargarismo fatto con un poco di sandaraca e aceto squillitico e alquanto miele; e questo sia detto brevemente intorno alle cose ch’entrano per la bocca quando il difetto della voce viene d’umidità nella gola, che quando si disiderasse rimedio per fuora si potrà usare questo suffomiggio senza entrare ad empiastri, unguenti ed altre ontioni per esser cose di molto fastidio e bruttezza. Togliasi incenso sandaraca stirace, calamento, e mettendosi ne’ carboni se ne toglia il fumo per lo naso e per la bocca. E quando per avventura per causa secca la voce fosse cattiva, il che rare volte avviene, togliasi olio violato e con esso si mescoli tanto zuccaro che l’uno e l’altro divenga come miele, e questo s’inghiottisca appoco appoco, e massimamente quando se va a coricare se ne toglia un cochiaro; ed a questo proposito è buono ancora il brodo di gallina e le fiche secche con umidità molta.»

In botanica, il genere “cassia” comprende piccoli alberi e arbusti con proprietà decongestionanti, parimenti al loch sanum di Mesuè il Giovane (un medico cristiano giacobita della fine del X sec. d.C., autore di un antidotario molto celebre nel Rinascimento), un elettuario con consistenza simile al miele, a base di cinnamomo, issopo e liquirizia. Anche i gargarismi con resina, aceto di cipolla squilla, che è un’erba bulbosa dotata di radici più grandi rispetto a quelle delle cipolle volgari, e miele sono ottimi emollienti per una voce affaticata ed una gola secca a causa dell’umidità. L’olio che si ricava dai fiori di viola, inoltre, attenua le infiammazioni e riduce la tosse e la sensazione di bruciore alla gola; infine, il brodo di gallina e i fichi secchi inumiditi sono ulteriori rimedi utili a guarire una voce arrochita.

Queste ultime pagine costituiscono la degna conclusione di un’epistola dedicata all’arte canora: il medico che alberga nell’autore non eclissa il musicista, bensì fornisce a quest’ultimo validi consigli per avere cura della propria voce. Ciò che colpisce è l’interesse medico per una disciplina artistica in tempi non sospetti; Maffei non è solo orientato a guarire un apparato malato, le sue parole testimoniano una contaminazione del canto da parte della medicina, che non interviene solo in favore di individui in senso generico: si interessa precisamente ai cantanti e alle loro necessità. Tale atteggiamento è estremamente moderno, ed è bene evidenziare il pionierismo di figure come quella di Maffei, il quale, nel Cinquecento, propone una tecnica vocale fortemente incentrata sull’uomo, ancor prima che sull’esecuzione.


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