Dall'incantesimo all'arte

 di Giada Maria Zanzi

 

La voce dell’unicità
La corporeità vocale
Le origini della parola musicale
Dal canto magico all’arte

Bibliografia


La voce dell’unicità

Il nostro corpo invia dei segnali antropologicamente convenzionali a chi ci circonda anche quando tacciamo: gesti associati a semplici emissioni vocali consentono all’uomo di manifestare le necessità primarie e interagire a livello basilare con i propri simili. Diversi pensatori si sono interrogati sulle origini di una comunicazione più profonda, finalizzata a uno scambio di esperienze e, successivamente, all’espressione di emozioni: Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 28 giugno 1712 – Ermenonville, 2 luglio 1778), ad esempio, afferma che l’esigenza di condividere sentimenti e estrinsecare le interiorità individuali abbia portato gli esseri umani a elaborare un linguaggio verbale sempre più complesso e articolato. La voce è comunicazione introspettiva ed è tale in quanto suono puro: essa si slega dal discorso al quale si può asservire, rimanendo sempre indipendente e carica di un potenziale intrinseco che caratterizza ogni vocalizzazione (basti pensare alla molteplicità delle sue manifestazioni e intenzioni, il bisbiglio, il grido, il canto e, valicando il confine umano, i versi degli animali, i suoni degli strumenti musicali, e così via; non è possibile identificare un’essenza ripetibile). Non esiste una voce unica e nell’esecuzione canora maggiormente si evince l’unicità delle diverse sonorità vocali: il cantante porge un’emissione educata, volutamente votata a far spiccare la riconoscibilità del timbro e le sue potenzialità espressive. Primariamente, il canto si ispira al mondo esteriore, modello indistintamente sotto gli occhi di tutti: ripropone eventi, descrive luoghi, ma riesce a imitare anche il soggettivo, con cui ha in comune l’astrattezza, e rende estrinsecabile ciò che non lo sarebbe altrimenti; i cantanti tentano di raccontarsi cantando le proprie sensazioni, narrando, dal proprio punto di vista, le loro vicende interiori. Quando la parola non è più sufficiente ecco che interviene la magia della melodia a descrivere l’indicibile. Lo studio del canto permette all’individuo di riscoprire la propria vera voce e con essa il suo universo interiore. L’impatto dello studio della voce nella quotidianità di un individuo è innegabilmente notevole: l’atto dell’apprendimento in sé arricchisce e dedicarsi a studi musicali può portare l’uomo a valorizzare le proprie capacità grazie agli effetti terapeutici e introspettivi della disciplina, assai rigorosa, ed a guadagnare tutti gli strumenti possibili per potenziare la propria unicità. Non esiste cultura o religione che non contempli il canto: è un vero e proprio linguaggio (si basa su una concatenazione di suoni e il senso deriva dall’unione coerente delle singole parti; il solo concetto di frase manifesta la sovrapposizione di linguistica e musica, indica sia parte di un discorso che una struttura musicalmente portante) ed è universale. Secondo la teogonia egizia di tradizione ermopolita, il mondo era stato creato dal dio Thot con giusta voce, lanciando un grido: la qualità della giustezza alludeva alla precisione dell’intonazione, vale a dire a una voce impostata. Nel XVIII secolo, Giambattista Vico, filosofo, storico e giurista partenopeo, individua negli antichi oracoli e sibille la prova storica del fatto che il canto sia il primo, necessario mezzo di espressione; inoltre, ricorda anche che i fanciulli romani andavano cantando le legge delle XII Tavole. Il musicologo greco naturalizzato tedesco Thrasybulos Georgiades (Atene, 4 gennaio 1907 – Monaco di Baviera, 15 marzo 1977) dichiara:

La parola greca aveva un saldo corpo sonoro; possedeva una propria, ostinata volontà musicale. […] Questa corporeità, questa concretezza del greco antico era il suo ritmo naturalmente musicale.

Tali esempi sono prova dell’antichità del fenomeno canoro, del suo impatto sul sociale e innatismo nelle gole umane. La ritmicità e l’universalità che caratterizzano il canto favoriscono la penetrazione di qualsiasi concetto, sacro o profano, rendendolo un mezzo adatto a plurimi scopi.

La corporeità vocale
Le origini della parola musicale
Dal canto magico all’arte

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La corporeità vocale

Versi elementari e il movimento e la percussione del corpo sono fra i mezzi comunicativi più atavici: si battevano o sfregavano le mani (fra loro oppure su gambe e torace), schioccavano le dita, battevano i piedi, in alternativa all’emissione di suoni monosillabici, di intensità e altezza variabili. Si possono individuare diverse ragioni che spinsero gli essere umani a produrre suoni: esprimere con­cetti o necessità, oppure dare vita ad un ritmo. Sin da tempi remoti, il corpo e la voce sono stati in­tesi come strumenti, più o meno consciamente finalizzati al fare musica, carichi di potenziale e in relazione fra loro: si pensi al legame che univa nell’antica Grecia il concetto di φωνή (che nella lingua greca designa sia la voce che ogni manifestazione acustica) a quello di ψυχή, che originariamente significava respiro, soffio vitale: entrambi i concetti si rifanno ad una fisicità che inglobi la voce, ma anche a una spazialità impli­cita nell’idea di voce stessa, come se avesse un suo corpo, al suo continuo movimento immateriale, metaforicamente direzionabile; difatti, la voce trasmette immagini vettoriali, si innalza, scende, cre­sce, ecc. Opera, insomma, veri e propri gesti sonori.

La voce è anche un tratto distintivo e personale: la sponta­neità che la contraddistingue la rende certamente un medium espressivo storicamente nodale e predominante; la modulazione, proprietà tipica esclusivamente della fonazione, le conferisce il valore aggiunto di riuscire a emulare anche effetti sonori che non le sarebbero conven­zionali, superando definitivamente i limiti dei gesti fisici meramente muti. Da tutto ciò evinciamo come il canto e la musica fossero quasi una necessità, strettamente connessi tanto al parlato e al silenzio quanto alla ricerca di ritmo per percussione del corpo. Anzi, in quest’ottica, parrebbero addirittura antenati metafisici della comunicazione: il canto è un silenzioso e paziente Demiurgo della parola non volontariamente intonata. Pur non sapendolo o non auspicandolo, è impossibile non fare musica.

La voce dell’unicità
 
Le origini della parola musicale
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Le origini della parola musicale

Per esprimere i propri sentimenti in maniera dilettevole e sopraffina, l’essere umano, parallelamente al parlato, si è da sempre interessato alla sfera delle melodie, arrivando a formalizzare veri e propri linguaggi di tipo musicale, caratterizzati da forte eterogenia temporale e geografico-culturale, pertanto non si può individuare un’unica radice generatrice e nemmeno dare nette delimitazioni (tale ricerca ci obbliga a indagare periodi assai remoti, che per questa ragione sfuggono ad ogni possibile verifica attuale). È, però, possibile affermare che l’uomo primitivo abbia conosciuto la musica vocale ancor prima di quella strumentale, e ne è riprova il fatto che alcune società tribali tutt’oggi non conoscono l’uso di strumenti. L’innatismo della voce non presuppone, come invece gli strumenti musicali, le abilità artigianali tipiche di società perfettamente organizzate, indubbiamente antiche, ma non primitive. Difatti, solo nel tardo paleolitico nascono strumenti musicali in qualità di prolungamento di quello che la natura aveva già concesso agli esseri umani: sorte di tubi costituiscono i primissimi strumenti a fiato, la percussione di pezzi di legno o metallo sostituisce il battito delle mani e del corpo, infine, pizzicando gli archi da caccia, nascono i cordofoni.

Rousseau è uno dei primi pensatori a evidenziare un ulte­riore tratto rilevante del cantato: nel suo saggio sull’origine delle lingue segnala che esso imita gli accenti del discorso non intonato, parte da esso per superarlo, risultando anche maggiormente incisivo ri­spetto a quest’ultimo. Il vantaggio del canto sta nel non essere dipendente o originato dal parlato, oltre che dalla possibilità di emancipazione da sussidi fisici. Funge da punto di contatto prosodicamente assoluto fra musica e comunicazione parlata. Anzi, è una sintesi di questi due universi, ma, storicamente, da cosa scaturisce? La parola musicale formalizzata nasce in seno alle funzioni religiose delle comunità antiche: il canto tocca i cuori, contribuendo a un avvicinamento tra il fedele e il divino mediante un profondo simbolismo (comparabile, in ambito cristiano, alle parabole; volendo andare ancor più indietro nel tempo, possiamo paragonare la carica allegorica del canto ai messaggi dei miti greci e latini). Diffondere una morale ricorrendo a metafore la rende accessibile a tutti, allo stesso modo opera la parola cantata. Le credenze primitive sono impregnate di esoterismo e la musica connessa ai riti ne assorbe conseguentemente la potenzialità magica; due sono le tipologie di rituale: manuale e orale, basato esclusivamente sull’istinto e innatismo vocale. Mentre nel primo caso sono presupposte abilità artigianali pari a quelle necessarie alla costruzione di strumenti musicali, la voce è messa a disposizione dell’uomo dalla natura e per farla funzionare è sufficiente l’istinto: per questa ragione, i riti orali sono i più antichi e radicati, e per orali intendiamo cantati. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, prima del parlato abbiamo il cantato. Le formule magiche furono dapprima cantate, solo successivamente si introdusse la recitazione e l’iscrizione su amuleti. Naturalmente il canto magico primitivo è ancora slegato da un rigoroso sistema musicale (per ragioni di contestualizzazione, sbaglieremmo se volessimo ingabbiarlo nelle odierne teorie musicali; non cadremmo solo nell’anacronismo, ne depaupereremmo l’essenza), anche se, in quanto attività inscindibile dalla vita comunitaria, è comunque subordinato a regolamentazioni proprie: ripetitività, ritmicità, dinamiche che distinguono suoni forti da altri più deboli, erano i principi costanti e basilari. Lo scopo era favorire la memorizzazione di testi spesso inintelligibili: l’importante non era la parola in sé quanto la sua teatralizzazione. Il senso del testo doveva giungere alla divinità e non essere compreso dai recitanti, che dovevano concentrarsi esclusivamente sulla carica emotiva e sulla ritualità. Inizialmente, quindi, il ruolo del canto magico era utilitaristico, non dilettevole: affinché il rito fosse efficace, andava eseguito con minuziosa attenzione e precisione, senza errori di intonazione o ritmo. Anche se non possiamo ancora parlare di professionalità, è innegabile la cura con cui sciamani e adepti vi si dedicavano: l’assenza di determinate codifiche e il filtro dei nostri occhi moderni non devono portarci a ignorare l’importanza di codesti fenomeni primigeni, poiché in essi scorgiamo sentimenti e intenzioni già fortemente avanzati, preludi a futuri sviluppi.

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La corporeità vocale
 
Dal canto magico all’arte

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Dal canto magico all’arte

La minaccia della siccità spinse gli antichi abitanti del Messico a intonare cantilene per invocare lo spirito dispensatore di pioggia; l’architettura delle melodie era realizzata in base agli obiettivi prestabiliti (ampi intervalli tonali servivano a richiamare l’attenzione del dio, accentuavano il carattere supplichevole). Anche gli indù avevano particolari motivi, detti rāga, che dovevano essere cantati durante specifiche stagioni, così come anche i greci prima e i latini poi, i cui inni all’eros dovevano favorire la fecondazione della terra da parte del cielo. La pubblica utilità non era la sola contemplata: abbiamo testimonianze anche di canti che, ad esempio, richiamavano su di sé l’amore di un uomo o una donna. Tuttavia sempre di rito si trattava: anche se per scopi personali, era comunque legato alla magia e alla ritualità religiosa. Le dinamiche amorose potevano essere regolate attraverso l’intercessione di una divinità, come anche le malattie, sovente imperscrutabili  senza un coinvolgimento ultraterreno: ecco, quindi, canti legati alla richiesta di salute e guarigione. In base ai bisogni primari e all'evoluzione della società, il canto si rivolse alla sera dell'alimentazione, poi ancora al lavoro, al sonno, all'incoraggiamento dei guerrieri, all'invocazione della vittoria, e così via. Infine, dobbiamo aggiungere che la musica magica non era diretta solo a ristabilire un equilibrio, vi erano ovviamente molti canti anche per nuocere, manifestare odio e malevolenza, scagliare maledizioni pregando divinità malefiche.

Gli egiziani e le civiltà mesopotamiche conferivano alla musica origine divina, mentre i cinesi cantavano per comunicare coi demoni; il canto era quindi ancora strumento di mediazione con l’universo metafisico. Tuttavia, il ditirambo, che ebbe origine nel VII secolo circa in Grecia come canto corale celebrativo in onore di Dioniso, a un secolo dalla sua nascita si evolse anche in direzione artistica: il contesto religioso iniziò a inglobare un godimento estetico e questi cori cominciarono a divenire oggetto di competizioni nell’ambito delle Dionisie. Secondo Aristotele la drammatizzazione del ditirambo originò la tragedia, via via slegata dalla religione, se non formalmente sostanzialmente, e che ben presto troverà dei luoghi a essa consacrati, venendo anche assorbita, tramandata e rielaborata da altre popolazioni negli anni a venire.

Comunque, fu Confucio in Cina a compiere il passo decisivo, distinguendo nettamente tra musica sacra e profana (così come già postulato, seppur embrionalmente, nel V secolo a.C. dal filosofo Platone nella sua distinzione fra una musica virtuosa che suscitasse negli animi e composizioni da rifiutare per il loro carattere passionale). Fra i luoghi di culto in cui riecheggiavano melodie esclusivamente sacre, ricordiamo le prime sinagoghe del VI secolo a.C., attorno alle quali si sviluppava la vita delle comunità ebraiche, ove salmi erano intonati da veri cori; la salmo­dia fu assorbita anche dalla liturgia cristiana, da cui sbocciò la polifonia, forma vocale che dominò anche il Medioevo profano europeo. Quindi, il canto profano proviene da quello sacro, che a sua volta deriva dal canto magico. I religiosi medievali consideravano il canto sacro come un momento di contrizione e comunione con Dio e in questo è equiparabile alle melodie magiche primitive, tuttavia, a differenza di queste ultime, la salmodia portava la comunità a unirsi in maniera differente: si ricercava la solidarietà, almeno finché la complessità musicale non ha iniziato a esigere una maggiore professionalizzazione degli esecutori. Il canto ecclesiastico non è ancora un’opera d’arte, e nemmeno del tutto slegato dalla praticità: la Chiesa greco-latina rispecchiava il motto agostiniano secondo cui chi canta prega due volte, esprimendo dunque, più che uno scopo pratico, l'amore per la divinità, ben distinta dai sentimenti più terreni dei canti profani. Si ritiene ancora che la musica abbia origine divina, ma in quanto dono fatto all’uomo.

La filosofia rinascimentale sublimerà ulteriormente il canto, paragonandolo a un vero e proprio medico dell’anima: la medicina può curare il corpo, mentre la musica sana lo spirito dai conflitti e turbamenti che lo scindono; l’umanista Marsilio Ficino (Figline Valdarno, 19 ottobre 1433 – Careggi, 1 ottobre 1499) riferisce che una delle sue più efficaci terapie è proprio il canto, che imita

intenzioni e affetti dell’animo, imita le parole, riproduce gesti e movimenti del corpo, azioni e costumi degli uomini, e tutte queste cose imita e riproduce con tale forza trascinatrice, che stimola immediatamente ad imitarle e riprodurle sia lo stesso cantante sia i suoi ascoltatori.

La noia, la sofferenza, il male di vivere dividono l’anima passionale e istintiva dell’uomo dal suo lato più razionale e quest’ultimo sarà il perno su cui ruoterà l’individuo che trova la sua salvezza unicamente nella ragione, nel XVII secolo; il sentimento si rifarà strada nel corso del Settecento, sino a ritrovare la dignità perduta. Gli intellettuali dell’età dei Lumi non offrono semplicemente un’alternativa, non invitano, per reazione alla tendenza antecedente, ad affidarsi esclusivamente all’emotività, auspicano piuttosto una conciliazione tra mente e cuore poiché è loro convinzione che sia l’essere dialetticamente disgiunti a renderci incompleti, dunque infelici. In questo scenario, l’arte è decisiva: soprattutto la musica, accorda le due anime che coabitano nel singolo. Nel Settecento, la visione in prospettiva medico-scientifica del canto non muta rispetto ai secoli precedenti, ma sicuramente si arricchisce di inedite sfumature guaritrici sempre più potenti, paragonabili all’atavico canto magico.

Nei secoli, dunque, l’umanità si riappropria dell’innatismo della propria voce attraverso il crescente rigore delle tecniche votate a educare al canto: dall’antico misticismo dei rituali primitivi giungiamo a una sempre più matura coscienza degli elementi che costituiscono l’universo musicale vocale, e quel “non so che”, cagione dell’apprezzamento di una melodia piuttosto che di un’altra, che rende una voce cantante assolutamente efficace e penetrante, assume una morfologia progressivamente più definita. Il potenziale intrinseco delle voci è la loro unicità, vale a dire ciò che distingue un uomo da un altro. Scoprendo la nostra voce interiore e porgendola al mondo esterno come un melodioso canto impariamo a conoscere le nostre sensibilità e a mostrarle agli altri, e consentiamo alla coscienza dell’uomo di eternarsi, armonizzando i battiti dei cuori con la bellezza che incanta le menti e guida alla virtù.

La voce dell’unicità
La corporeità vocale
Le origini della parola musicale
 

Bibliografia


Bibliografia

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La voce dell’unicità
La corporeità vocale
Le origini della parola musicale
Dal canto magico all’arte