Rapsodia ebraica, rapsodia dell'anima

 di Andrea R. G. Pedrotti

Si sono aperte con un intenso incontro al Gran Teatro La Fenice le iniziative per i 500 anni dalla creazione del primo Ghetto ebraico, che, chiamato così dal dialetto veneziano per la presenza di antiche fonderie pubbliche, darà il nome a tutti quelli che sorgeranno in futuro. La memoria dolorosa del pregiudizio e della segregazione è occasione per una profonda riflessione, di cui l'esecuzione della Prima Sinfonia di Mahler diretta da Omer Meir Wellber è parte integrante.

VENEZIA, 29 marzo 2016 - Era il 29 marzo 1516 quando il Doge conferì alla città di Venezia il triste titolo di prima città al mondo a costringere gli Ebrei in uno spazio delimitato, quasi non fossero degni di convivere con chi aveva riconosciuto il Salvatore, decretando testualmente che “li giudei debbano tutti abitar unidi in la corte de case che sono in ghetto appresso San Girolamo”. Così nacque il ghetto, una delle poche espressioni che la musicale lingua italiana avrebbe potuto risparmiarsi. “Ghetto” da “getto”, la gutturale si fa dura come durissima si fece l’esistenza degli Ebrei veneziani prima e poi di tutto il mondo poi, costretti in spazi circoscritti, senza che venisse consentito loro di uscire dal perimetro loro assegnato a causa colpe mai commesse, costretti a vivere in case alte anche sette piani, per guadagnare in verticale lo spazio vitale che il tessuto urbano non concedeva più. Non era la prima volta che Israele subiva l’estromissione da un presunto genere umano, che nessuna umanità seppe dimostrare, e veniva negato agli Ebrei il diritto di svolgere una gran molteplicità di mestieri, costringendo “li giudei” al commercio e allo scambio di denaro, in modo da ingrassare le casse della Repubblica veneziana, riversando l’avversione del pensiero volgare verso un necessario capro espiatorio. Infatti è da sempre un vizio di chi rifiuti logica, ragionamento e discussione addossare le colpe a un nemico immaginifico a fini di propaganda, sfruttandone un’apparente debolezza numerica, dimostrando, così, grandi limiti intellettuali. Chi in passato formulò questo sragionamento nei confronti del popolo che di analisi, interpretazione e messa in discussione fece la sua cifra caratteristica, superando i maestri della logica tramandata dalla filosofia antica, grazie alla comprensione della struttura del pensiero svilito degli orpelli narrativi, probabilmente non lesse con attenzione le scritture che il popolo ebraico era accusato di tradire non riconoscendo il Salvatore. Se, infatti, chi pensava di poter vincere facilmente Israele avesse letto, con onestà intellettuale, il Primo libro di Samuele, avrebbe potuto riscontrare come, grazie all’inventiva e al ragionamento, il minuto Davide seppe sconfiggere il possente Golia. Il gigante filisteo non poté nulla contro la fionda di colui che sarebbe succeduto a Saul, quale re d’Israele. Lo spirito di un popolo che parte da un testo, che racconta di una divinità acronica, nonché priva di un’autentica corporeità: forma trascendente delle minuta astrazione da cui ogni ragionamento umano (l’“immagine e somiglianza”) parte, attraverso un percorso ragionato (Ebreo, infatti, significa “passaggio”), che conduca alla ricerca d’una soluzione a cui non si giungerà mai.

Illogicità e ignoranza contro il popolo Ebraico, accusato, in passato, di utilizzare per le loro ritualità sangue puro di bimbi battezzati. Cosa alquanto curiosa, giacché gli Ebrei non potevano considerare quale una purificazione un sacramento non riconosciuto.

Avvicinandosi alla zona di massima sicurezza attorno al teatro la Fenice di Venezia le necessariamente serrate misure di controllo fanno comprendere fin da subito quanto il ricordo, la discussione e il ragionamento siano necessari oggi più di ieri. Una soluzione autentica, purtroppo, non arriverà mai, ma è dovere di ognuno di noi ricercarla. Il male non può essere sconfitto, ma Israele è vivo e questa è la sua vittoria.

L’ingresso al teatro è leggermente scostato sulla destra rispetto al solito e i campanelli non suonano. Non una divisa all’interno della sala, grande attenzione e un senso di sicurezza quasi di carattere familiare nei sorrisi e nella cortesia della babele linguistica che ci circondava. Molte lingue per un unico popolo raccolto nel ricordo di un’ingiustizia, pronto a ripartire innanzi ad avversità sempre più gravi. D’altra parte ci trovavamo all’interno della Fenice, teatro intitolato al mitologico volatile egizio capace di risorgere dalle proprie ceneri.

Fra i vari interventi il nostro plauso va in particolar modo alla profonda efficacia e abilità oratoria della moderatrice, Viviana Kasam, che ci piace citare per la precisione nel presentare alcuni aspetti della vita Ebraica, attraverso riferimenti alla quotidianità e alla legge Talmudica, nell’obbligo del ragionamento, della discussione e dell’interpretazione del testo, inevitabili nella religione ebraica, unica fra quelle monoteistiche ad ammettere un discorso logico che non sia antitetico a quello religioso. Infatti non si può accettare nulla se non lo si comprende.

Abbiamo sentito il dovere di citare per prima Viviana Kasam, oltre che per obblighi di cavalleria, anche per un disguido tecnico che ha portato all’omissione del suo nome dall’opuscolo distribuito ai presenti.

Fra i relatori ufficiali abbiamo avuto il piacere di ascoltare le belle e sentite parole del Presidente della Comunità ebraica locale e del comitato “I 500 anni del Ghetto di Venezia", Paolo Gnignati, il quale con gran precisione e proprietà di linguaggio ha raccontato la storia del Ghetto dei suoi abitanti, della loro provenienza eterogenea, al pari di quella delle persone presenti in sala, e dell’importante contributo che gli Ebrei veneziani hanno saputo dare alla città che li aveva estromessi dalla vita civile e comunitaria.

Nessuno degli oratori è uscito dal ruolo dovuto e ha saputo destreggiarsi con chiarezza in discorsi completamente privi di retorica, ma densi di sentimento.

Dopo i saluti istituzionali del Sindaco Luigi Brugnaro, che si è rivolto, fra gli altri, anche al presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, presente in sala, è stata la volta degli ospiti esterni alla città di Venezia.

Restando in ambiente nazionale, per primo ha parlato il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, il quale ha saputo con gran stile ampliare il discorso di Paolo Gnignati, sottolineando le sofferenze e gli importanti contributi che gli Ebrei hanno saputo vivere e regalare all’Italia, nell’ottica della comprensione, della solidarietà e del rigetto nei confronti dell’orbo pregiudizio.

Probabilmente l’intervento più applaudito è stato, tuttavia, quello del Presidente del Congresso Mondiale Ebraico, Ronald Lauder, che in un’orazione pronunziata interamente a braccio ha portato a tutti significative parole di pace e di solidarietà, facendo emergere (purtroppo ce n’è sempre bisogno) il cuore di Israele nel mondo, perché gli Ebrei, dopo la diaspora, si sono diffusi, unico popolo al servizio della crescita delle proprie Nazioni, ma sempre al servizio del progresso dell’umanità, senza rancori per le vessazioni subite nel passato come nel presente.

Ultimo discorso, prima che fosse un grande figlio di Israele a prendere le redini della cerimonia (il compositore Gustav Mahler), affidato alla prolusione dello storico britannico Simon Schama. Lo studioso d’Oltremanica ha sfruttato i venti minuti a sua disposizione per snocciolare un’incredibile climax ascendente delle persecuzioni subite dagli Ebrei in Europa, dal principio dell’età moderna ai giorni nostri, intervallando i torti più violenti con una laconica battuta nel tipico stile dei discendenti di Abramo: “Dai, poteva andare peggio!”. Gli ultimi riferimenti sono stati al contributo degli Ebrei alla musica, partendo dal servizio reso alla corte dei Gonzaga nel Rinascimento, fino alla storica rivoluzione che Gustav Mahler avrebbe dato ai teatri viennesi. Mahler, un ebreo rimproverato da Simon Schama per la sua inutile conversione.

Proseguendo il ragionamento ascoltato possiamo aggiungere che Mahler fu, senz’ombra di dubbio, un personaggio controverso. Pensando a lui e alle sue azioni ci verrebbe da immaginare una figura scontrosa e anaffettiva, ma fermarci all’apparenza sarebbe un grave errore. Tutto questo è ben comprensibile ascoltando il celeberrimo Adagietto tratto dalla sua 5° Sinfonia. Un orecchio superficiale potrebbe pensare che questa composizione, nell'intento una lettera d’amore per la moglie Alma Schindler, rappresenti un personaggio tedioso. Mahler probabilmente non vietò la musica di Johann Strauss jr. dai teatri nazionali viennesi per avversione al collega direttore d’orchestra, ma perché la vivacità e l’immediatezza dei capolavori del Re del Walzer non consentiva ai suoi concittadini (all’epoca sicuramente stressati da una vita perennemente ossessiva) di cercare un momento di riflessione, trovandosi innanzi a uno svago immediato. Nell’Adagietto è contenuto un substrato di intensità straordinaria, non c’è nulla di noioso, ma molto di tormentato. La celeberrima nevrosi ossessiva di cui soffriva il compositore è palesata ampiamente nei suoi scritti musicali (poco riconosciuti durante la sua esistenza terrena), sicuramente amava molto la moglie, ma pretendeva di essere ascoltato. Ecco un altro tema tipicamente ebraico: l’ascolto. È stato proprio il m° Omer Meir Wellber, chiamato nell’occasione a dirigere la Sinfonia n° 1 di Mahler, a spiegare con gran maestria il rapporto fra la musica e l’ascolto, nel corso di una manifestazione culturale ebraica a Milano. In un breve saggio dello stesso direttore d’orchestra viene trattato il tema del vegetarianismo di Mahler, come connubio con la natura. Questo è a nostro avviso sintomo di grande umanità da parte del compositore, che molto si discosta dal rifiuto quasi totale per la carne di un uomo che, da antisemita qual era, rigettava con rabbia qualunque tipo di ipotesi affettiva, come Arthur Scopennhauer.

Non si poteva pensare a direttore più adatto a concertare il “Titano”, poiché Omer Meir Wellber, in Israele, si è da sempre impegnato in cause per l’integrazione degli immigrati, come per il sostegno medico e umanitario nei confronti delle popolazioni beduine. L’umanità, il dialogo, il confronto, oltre i muri sono ben sintetizzati nell’opera del maestro Wellber. Inoltre egli può vantare le medesime radici culturali russo-tedesche di Gustav Mahler e una preparazione filosofica e teologica, oltre che musicale, di altissimo livello. Il testo, come ricordato prima, va rispettato, conosciuto, interpretato e discusso. Omer Meir Wellber conosce benissimo l’orchestra della Fenice di Venezia. La versione eseguita è quella definitiva in quattro movimenti di intensità impareggiabile, trasmessa anche dalla vista dell’autografo della partitura, di grafia incerta e tremolante.

Il primo movimento ha già un’indicazione emotiva molto precisa Langsam, Schleppend, Wie ein Naturlaut; im Aanfag sehr gemächlich; belebtes Zeitmass, (Lentamente, trascinato, come un suono della natura; all'inizio molto tranquillo). Tornano alla luce i discorsi precedenti, ossia il connubio con la natura, nella nota del compositore, il substrato dell’animo di Mahler nel fremer degli archi. Tutto sembra indicato con precisione maniacale e ossessiva, ma sembra solo a chi si limiti a leggere il testo musicale rigettando interpretazione e discussione. Wellber fa sentire ciò che viene da Mahler: infatti l’orchestra sembra respirare, quasi ansimare. Il primo concetto astratto, e forse disordinato della mente di Mahler compie un percorso su carta, si scompone in strutture e sovrastrutture della partitura, fino a viaggiare nell’aria come messaggio musicale, simile all’astrazione che lo aveva generato. Già qui torna tutto il concetto culturale ebraico di cui abbiamo parlato a lungo, ma sempre superficialmente per la profondità che meriterebbe. Il secondo movimento è indicato come Kräftig, bewegt, doch nicht zu schnell; Trio, Recht gemächlich, (Vigorosamente mosso, ma non troppo presto; Trio, Molto tranquillo). “Vigorosamente mosso, ma non troppo presto”, e ci si domanda il perché unire nell’indicazione una frase principale ove si pretenda dichiaratamente impeto, ma ci si affretti, nell’avversativa successiva, a specificare che l’impeto non debba essere troppo impetuoso. Perché gli strati sono tre: due li indica Mahler e sono il fuoco che arde sotto la cenere, il terzo è ciò che noi percepiamo, quello centrale, che poi è frutto delle altre due stratificazioni. Il direttore deve pensare contemporaneamente a tutto questo e Wellber lo mostra comandando magistralmente le sezioni nel substrato (il fuoco), con il tremolio della mano sinistra e la superficie (la cenere) con la decisione della destra. L’effetto musicale è, ovviamente, dirompente e perfettamente in linea con un testo che non può limitarsi al testo.

Il vero capolavoro del pomeriggio veneziano sono, tuttavia il terzo e il quarto movimento. Il “Titano” è un connubio con la natura, ma anche una rappresentazione delle fasi della vita. L’inizio della Sinfonia evoca un’atmosfera di alba, di risveglio, di nascita e il secondo è naturale prosecuzione con l’impeto delle passioni dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita adulta. Fra le varie citazioni che troviamo nella partitura, la più smaccata è quella dal celeberrimo canto popolare “Bruder Martin”, ossia “Fra’ Martino campanaro”, che qui diviene una marcia funebre che prende spunto da una tipica melodia della fanciullezza. Abbiamo tutto il senso dell’origine e dell’apprendimento in un sunto riflessivo del percorso dell’esistenza. Si fanno i conti con il passato e l’orchestra comincia a evocare sonorità palesemente ebraiche, la marcia funebre è intervallata da note quasi Klezmer. E allora troviamo un altro elemento giudaico, ossia lo scontro di significati, l’antitesi del sentimento che si incontra: triste allegria, o allegra tristezza, che si fondono in spensierata malinconia. Non è facile tenere tutto assieme, sottolineare la divergenza di significati e i respiri dell’orchestra. Wellber rasenta la perfezione nel guidare l’orchestra che non accenna a sbavature di alcun genere, rispettando alla lettera il Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen (Solenne e misurato senza trascinare), sapendo andare ben oltre, ancora una volta, la mera indicazione scritta. La grafia è un linguaggio limitato rispetto all’astrazione, ne è traditrice traduzione e va interpretata, non solo seguita.

Stupefacente il quarto movimento: l’ultima fase della vita, il compimento della natura, la solennità della fine. Stürmisch bewegt. Energisch (Tempestosamente agitato) per Gustav Mahler come per Omer Meir Wellber che trae un’impressionante intensità del suono dal complesso orchestrale veneziano. Un impeto mirabile per la precisione encomiabile con cui viene gestita l’irresistibile foga della scrittura musicale. Nessuna sezione dell’orchestra mostra di violare l’equilibrio. Il tutto è un unisono di altissimo livello tecnico, garantito dall’abilità del direttore, che non si ferma a questo traendo una impressionante serie di colori e sfumature dagli strumenti dei professori.

Il crescendo emotivo ha il suo compimento ultimo nella geniale intuizione di Mahler di far alzare in piedi, nel finale, i corni, che con il rilucente scintillio dell’ottone dei loro strumenti, è conclusione ideale di una Sinfonia di unica bellezza. Al termine del concerto, e della cerimonia, il pubblico imita i cornisti e si alza in piedi a tributare il proprio entusiasmo alla grandiosità musicale di Mahler e all’impareggiabile concertazione di Wellber.

Così si conclude la cerimonia di inaugurazione di ricordo, dopo esattamente 500 anni, di confino degli ebrei veneziani nel Ghetto. Una cerimonia, che vuole dare inizio a un periodo di monito e memoria, non di celebrazione, perché il 29 marzo 1516 fu l’inizio di un’immeritata ingiustizia (l’ennesima) per Israele e il suo popolo.

L'evento era patrocinato, oltre che dalle associazioni citate, dal "World Jewish Congress" e dall'"AEPJ (Association Européene pour la Préservation du Patrimoine Juif).