Addio, Giorgio

 di Roberta Pedrotti

Un ricordo personale dei Giorgio Gualerzi, scomparso mercoledì 20 luglio a Torino.

Era da un po' che non lo si vedeva in giro, è vero, ma l'idea che potesse andarsene sembrava fuori dai nostri orizzonti. Se la trasferta pesarese gli pesava già da qualche anno, almeno a Torino ero riuscita ancora a incrociarlo qualche volta e mi piaceva pensarlo sempre qui con noi. Tanti pensieri, ora, si affollano nella mente sedendo al computer per dedicare qualche riga alla memoria di Giorgio Gualerzi, e non è facile ordinarli dopo che la notizia della sua scomparsa è piombata, nella serata del 20 luglio, come un fulmine improvviso.

Non ha bisogno di essere ricordato il Gualerzi critico, l'esperto di voci, la memoria storica di un secolo di teatro d'opera nel quale sembrava avesse sentito e conosciuto tutti, tale era la miniera inesauribile di aneddoti e testimonianze dirette che sapeva sciorinare. Tutti lo conoscevamo, tutti l'avevamo letto, tutti l'avevamo visto in televisione o ascoltato per radio, molti hanno avuto occasione di scambiare qualche battuta di persona. Ed è la persona quella che soprattutto mi mancherà, perché Giorgio Gualerzi era un signore ed era simpatico, arguto, curioso, ironico e sottile.

Era inarrestabile, instancabile, senza essere maniacale. Ricordo un giorno in cui lo incrociammo appena arrivato a Pesaro (avrebbe compiuto ottant'anni dopo quattro mesi, era sceso da pochissimo dal treno da Torino), andavamo un po' di fretta perché dovevamo prendere la navetta per la prova generale della Cenerentola all'Adriatic Arena e lui, con un sorrisone, “C'è la generale? Vengo con voi!”. Avranno faticato un po' a trovargli un posto all'ultimo momento, ma era impossibile non volergli bene, e non solo nell'ambiente operistico, dove ispiravano rispetto anche la sua esperienza e la sua competenza. In giornate in cui pochi argomenti trovano spazio fuor di Rossini e immediati dintorni, lui sapeva rendersi amabile e mettere a proprio agio anche il non melomane, ricco d'argomenti com'era, lungi dalla monomania. Appassionatissimo di ciclismo, non potevano mancare i commenti sul Giro e sul Tour; tifoso del Toro fino al midollo sapeva intavolare gradevolissime discussioni di calciomercato, senza che mai un argomento si affacciasse per convenienza. Con noi bresciani di Lumezzane parlava volentieri del tenore Giacinto Prandelli, ma anche di tutti i calciatori passati nella rosa delle rondinelle o dei rossoblù, ed era tutto naturale, perché lui Prandelli lo aveva ascoltato e conosciuto e con leggerezza amava ricordarlo, perché delle carriere di Possanzini e di Caracciolo s'intendeva davvero e sapeva di trovare interlocutori informati. Allo stesso modo amava sinceramente confrontarsi e scambiare notizie serie o facete su cantanti e produzioni: non posso dimenticare la scintilla nel suo sguardo, curioso e non pettegolo, per l'aneddoto che gli era sfuggito e scopriva in quel momento. Non posso dimenticare il sorriso complice quando, un mattino a colazione in albergo, feci un riferimento alla vera età di Domingo: “Eh, anche lei sa! Con me ne può parlare perché noi sappiamo la verità!”, ribatté compiaciuto.

Giorgio Gualerzi era l'interlocutore ideale, la persona con la quale si sarebbe potuto parlare d'opera a trecentosessanta gradi per ore, senza annoiarsi, ma anche la persona con cui era possibile parlar d'altro e di sport, senza che mai, in nessun campo, si potesse temere l'affacciarsi di qualsivoglia polemica. Garbato, mai saccente, discreto e disponibile con tutti, delicatamente loquace, galante d'una cavalleria antica mai leziosa. Non credo che vi sia persona che, dopo averlo conosciuto, non possa che ricordarlo con un sorriso, non pensare con affetto a quella sua espressione con gli occhi socchiusi ma sempre vispi. Il "professor Gualerzi" a Pesaro era un'istituzione anche per chi viveva il Rossini Opera Festival solo dall'esterno.

Per questo ci mancherà Giorgio Gualerzi, il commensale prediletto (non ne vogliano altri colleghi) nelle cene dopo l'opera a Pesaro, sempre disponibile per una chiacchiera di persona o al telefono, l'attento osservatore sereno del panorama operistico, severo o benevolo sempre con onestà priva d'astio, di nostalgie, di preconcetti.

Poi si allarga lo sguardo, ci si guarda intorno, si riflette un istante sul nostro mestiere e sale un diverso tipo di malinconia, che dal particolare e personale si fa professionale e generale. La stessa che assale leggendo quelle recensioni di Massimo Mila sempre interessanti e degne d'attenzione anche quando non se ne condividano gli assunti. Occuparsi di critica non per vanagloria ma per amore dell'arte, badare alla forza dei propri argomenti e allo sviluppo di un dibattito più che all'affermazione mediatica e mondana, preoccuparsi di dire cose fondate e sensate in un italiano quantomeno corretto, sentire la responsabilità del ruolo e non vantarlo come un privilegio, anteporre l'onestà all'interesse. Tutte cose che critici come Gualerzi potevano dare per scontate: di certo oggi lui suggerirebbe, con uno dei suoi sorrisetti pieni d'intenzione, semplicemente di non farsi il sangue amaro e pensare alle cose che contano, con leggerezza.