L’Ape musicale

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Quattro volti, o forse più

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I libretti di Madama Butterfly

Leggenda vuole che Milano abbia infranto le ali della farfalla e che a Brescia questa abbia spiccato il volo. La storia è, naturalmente, più articolata e le metamorfosi non si sono fermate al secondo stadio per giungere allo stabile successo attuale.

Già la prima edizione a stampa di Madama Butterfly, licenziata da Ricordi nel gennaio del 1904 e quindi un mesetto buono prima del debutto assoluto alla Scala, non corrisponde esattamente a quando il pubblico ascoltò al Piermarini il 17 febbraio, come attestano varianti autografe rinvenute nel 1995 nell'archivio dell'Accademia Filarmonica di Bologna risalenti proprio al periodo di prove, a testimonianza di un lavorìo continuo che ora si suole scandire in quattro tappe principali, corrispondenti a quattro fondamentali rappresentazioni (Milano, Brescia, Londra e Parigi) con le relative edizioni a stampa. D'altra parte, pochi autori come Puccini hanno sottoposto le loro opere a un labor limae tanto estenuante e prolungato, ben oltre il debutto assoluto, anche radicale e anche svincolato da effettive esigenze teatrali. Se, insomma, Rossini e Verdi possono essersi trovati a cambiare un'aria o a inserire un balletto non solo per ragioni estetiche, ma anche per venire incontro alle peculiarità di un interprete o alle consuetudini di un teatro, Puccini sembra costantemente insoddisfatto, alla ricerca di un perfezionamento irraggiungibile. Turandot non ne è che l'esempio estremo e il suo vero enigma, in fondo, può risiedere, più che nel disgelo della principessa e nella risoluzione delle ultime scene, nella rielaborazione di tutto quello che era già stato composto fino alla morte di Liù: la creazione dell'ultima opera non è stata, in fondo, molto più tormentata di quella di altre sue sorelle, ma la morte dell'autore ha interrotto il processo.

Madama Butterfly, dunque, cade alla prima milanese, e si sa che un fiasco iniziale non è una condanna inappellabile che i posteri non possano redimere, tante e tali le variabili che concorrono a formare la reazione del pubblico in una serata: il gusto del tempo, la qualità della rappresentazione e degli interpreti, le aspettative, le rivalità, anche qualche difetto da correggere fra musica e testo, perché no? Certo è che una cattiva accoglienza non può che accendere i dubbi di Puccini e spingero a una rifinitura continua: come testimonia l'edizione Ricordi, per Brescia si sforbicia (alcuni tagli si trovano già nelle varianti autografe non stampate per la prima milanese), si rifinisce, soprattutto si comprende che serve un colpo d'ala teatrale verso la fine dell'opera. Sono centotrenta le battute cassate nel primo atto (la canzone dello zio Yakusidé, ma anche qualcosa nella scena della presentazione e in “Ieri son salita”), mentre qualche modifica nell'Intermezzo permette di scindere il Secondo Atto in due parti, con la possibilità di calare il sipario e ottenere un indubbio alleggerimento del ritmo teatrale; la novità più eclatante resta comunque l'introduzione di “Addio, fiorito asil” poco prima dell'epilogo. Una mossa astuta per appagare melomani e tenori in un quadro dove prevale un canto di conversazione particolarmente drammatico, ma anche l'intuizione felice dell'abile drammaturgo musicale, che muove così il ritmo di quest'ultima sequenza della tragedia e istilla uno spiraglio di nostalgia e umano rimorso a bilanciare, e far risaltare, la spietata conclusione. Difficile pensare che l'istante in cui il Duca di Mantova “quasi spinto a virtù” talor si crede non abbia convinto definitivamente Puccini dell'opportunità di conferire il beneficio del dubbio anche al suo più cinico seduttore.

A Brescia, come anche a Milano, lettere e appunti lasciano ben intendere che non si sia ascoltata esattamente la partitura stampata per l'occasione, e con anticipo, da Ricordi: Puccini tagliava, tagliava, e centocinque battute almeno non furono eseguite al Teatro Grande nel maggio del 1904 e così fu in seguito, per le riprese successive, che l'autore seguì con attenzione, limando e sottraendo per il concreto della prova scenica quel che aveva lasciato incidere e stampare dal suo editore. Così, passando anche per l'importante debutto londinese e per quello negli Stati Uniti (l'affezione del divo Caruso a Pinkerton conferma come “Addio fiorito asil” sia stato una carta vincente per l'opera) si arriva all'Opèra Comique di Parigi, il cui direttore (e marito della primadonna) Albert Carré è anche regista e ha idee molto chiare e nette su un taglio più essenziale del dramma. Idee che, quindi, collimano con il processo creativo pucciniano: compositore e impresario/regista si trovano in perfetto accordo per interventi su musica e testo e viene così ratificata la Madama Butterfly così come oggi la conosciamo. Incidentalmente, a Parigi si parlò di tre atti e non di due con la divisioen del secondo, ma la definizione poco cambia nella sostanza dell'opera, tant'è vero che quel sipario fatto calare durante la veglia di Cio Cio San oggi si tende a lasciarlo immoto per non interrompere il consumarsi della tragedia.

Che poi l'inquieto Giacomo ritenesse concluso il volo della sua farfalla, è altra questione; per la ripresa al Teatro Carcano di Milano indicò la riapertura di centoquaranta battute cassate fra Brescia e Parigi: la presentazione dei parenti, l'arietta di Yakusidé, le osservazioni di Cio Cio San sulla barbarie degli americani nel duetto del finale primo. Non riteneva chiusa la questione, insomma, ma lasciava aperta la strada a nuovi ripensamenti, tagli, reintegri.


 

 

 
 
 

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