Le metamorfosi della crisalide

 di Roberta Pedrotti

In occasione della ripresa scaligera della prima versione di Madama Butterfly, una approfondimento e una riflessione sul significato degli interventi di Puccini sulla sua "tragedia giapponese", parente stretta, a ben guardare, di una delle più celebri tragedie classiche.

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Leggenda vuole che Milano abbia infranto le ali della farfalla e che a Brescia questa abbia spiccato il volo. La storia è, naturalmente, più articolata e le metamorfosi non si sono fermate al secondo stadio per giungere allo stabile successo attuale.

Già la prima edizione a stampa di Madama Butterfly, licenziata da Ricordi nel gennaio del 1904 e quindi un mesetto buono prima del debutto assoluto alla Scala, non corrisponde esattamente a quando il pubblico ascoltò al Piermarini il 17 febbraio, come attestano varianti autografe rinvenute nel 1995 nell'archivio dell'Accademia Filarmonica di Bologna risalenti proprio al periodo di prove, a testimonianza di un lavorìo continuo che ora si suole scandire in quattro tappe principali, corrispondenti a quattro fondamentali rappresentazioni (Milano, Brescia, Londra e Parigi) con le relative edizioni a stampa. D'altra parte, pochi autori come Puccini hanno sottoposto le loro opere a un labor limae tanto estenuante e prolungato, ben oltre il debutto assoluto, anche radicale e anche svincolato da effettive esigenze teatrali. Se, insomma, Rossini e Verdi possono essersi trovati a cambiare un'aria o a inserire un balletto non solo per ragioni estetiche, ma anche per venire incontro alle peculiarità di un interprete o alle consuetudini di un teatro, Puccini sembra costantemente insoddisfatto, alla ricerca di un perfezionamento irraggiungibile. Turandot non ne è che l'esempio estremo e il suo vero enigma, in fondo, può risiedere, più che nel disgelo della principessa e nella risoluzione delle ultime scene, nella rielaborazione di tutto quello che era già stato composto fino alla morte di Liù: la creazione dell'ultima opera non è stata, in fondo, molto più tormentata di quella di altre sue sorelle, ma la morte dell'autore ha interrotto il processo.

Madama Butterfly, dunque, cade alla prima milanese, e si sa che un fiasco iniziale non è una condanna inappellabile che i posteri non possano redimere, tante e tali le variabili che concorrono a formare la reazione del pubblico in una serata: il gusto del tempo, la qualità della rappresentazione e degli interpreti, le aspettative, le rivalità, anche qualche difetto da correggere fra musica e testo, perché no? Certo è che una cattiva accoglienza non può che accendere i dubbi di Puccini e spingero a una rifinitura continua: come testimonia l'edizione Ricordi, per Brescia si sforbicia (alcuni tagli si trovano già nelle varianti autografe non stampate per la prima milanese), si rifinisce, soprattutto si comprende che serve un colpo d'ala teatrale verso la fine dell'opera. Sono centotrenta le battute cassate nel primo atto (la canzone dello zio Yakusidé, ma anche qualcosa nella scena della presentazione e in “Ieri son salita”), mentre qualche modifica nell'Intermezzo permette di scindere il Secondo Atto in due parti, con la possibilità di calare il sipario e ottenere un indubbio alleggerimento del ritmo teatrale; la novità più eclatante resta comunque l'introduzione di “Addio, fiorito asil” poco prima dell'epilogo. Una mossa astuta per appagare melomani e tenori in un quadro dove prevale un canto di conversazione particolarmente drammatico, ma anche l'intuizione felice dell'abile drammaturgo musicale, che muove così il ritmo di quest'ultima sequenza della tragedia e istilla uno spiraglio di nostalgia e umano rimorso a bilanciare, e far risaltare, la spietata conclusione. Difficile pensare che l'istante in cui il Duca di Mantova “quasi spinto a virtù” talor si crede non abbia convinto definitivamente Puccini dell'opportunità di conferire il beneficio del dubbio anche al suo più cinico seduttore.

A Brescia, come anche a Milano, lettere e appunti lasciano ben intendere che non si sia ascoltata esattamente la partitura stampata per l'occasione, e con anticipo, da Ricordi: Puccini tagliava, tagliava, e centocinque battute almeno non furono eseguite al Teatro Grande nel maggio del 1904 e così fu in seguito, per le riprese successive, che l'autore seguì con attenzione, limando e sottraendo per il concreto della prova scenica quel che aveva lasciato incidere e stampare dal suo editore. Così, passando anche per l'importante debutto londinese e per quello negli Stati Uniti (l'affezione del divo Caruso a Pinkerton conferma come “Addio fiorito asil” sia stato una carta vincente per l'opera) si arriva all'Opèra Comique di Parigi, il cui direttore (e marito della primadonna) Albert Carré è anche regista e ha idee molto chiare e nette su un taglio più essenziale del dramma. Idee che, quindi, collimano con il processo creativo pucciniano: compositore e impresario/regista si trovano in perfetto accordo per interventi su musica e testo e viene così ratificata la Madama Butterfly così come oggi la conosciamo. Incidentalmente, a Parigi si parlò di tre atti e non di due con la divisioen del secondo, ma la definizione poco cambia nella sostanza dell'opera, tant'è vero che quel sipario fatto calare durante la veglia di Cio Cio San oggi si tende a lasciarlo immoto per non interrompere il consumarsi della tragedia.

Che poi l'inquieto Giacomo ritenesse concluso il volo della sua farfalla, è altra questione; per la ripresa al Teatro Carcano di Milano indicò la riapertura di centoquaranta battute cassate fra Brescia e Parigi: la presentazione dei parenti, l'arietta di Yakusidé, le osservazioni di Cio Cio San sulla barbarie degli americani nel duetto del finale primo. Non riteneva chiusa la questione, insomma, ma lasciava aperta la strada a nuovi ripensamenti, tagli, reintegri.


Cento yen e uno zio beone

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Fra i primissimi tagli che Puccini avrebbe apportato alla partitura ci sarebbe stato dunque già a Milano quello dell'allusione di Cio Cio San ai “cento yen” per il nakodo che il contratto nuziale sarebbe costato a Pinkerton. Un richiamo che nel libretto originale torna più volte, insieme con dettagli economici assai minuziosi. Mezzo secolo è trascorso dello scandalo della Traviata, storia di una mantenuta in cui troppo spesso si fa esplicito riferimento a beni da alienare, puntate al gioco, risparmi conservati e contati moneta per moneta. La volgarità del trattar di denaro sul palcoscenico non cessa di turbare, non solo il pubblico che in tragico e commuovente contesto non vorrebbe sentir parlare di siffatte questioni materiali, ma anche lo stesso autore, che evidentemente tende, nel suo processo creativo, a spostare l'attenzione dall'aspetto sociale a quello psicologico più intimo, essenziale, universale. Inizialmente l'incontro fra due diverse culture è il cardine della tragedia, mentre via via, liberandosi da dettagli caratteristici e concreti, assume sempre maggior evidenza la solitudine di Cio Cio San, la sua illusione ostinata che spietatamente si infrange. La sua alterità culturale rispetto a Pinkerton si fa sempre più funzionale a questo isolamento, più che fulcro stesso del dramma.

Tuttavia, sarebbe un errore considerare tutto quel che di giapponese e giapponeseria cadrà fra Milano e Parigi  come divagazioni e pennellate di colore. L'Oriente era prepotentemente di moda, la Cina e il Giappone solleticano le fantasie degli artisti e del pubblico come, un secolo prima, l'avevano fatto Turchia e dintorni; Puccini vi si dedica con cura minuziosa, non fa del facile esotismo, ma s'informa presso la moglie dell'ambasciatore nipponico, annota nomi, usi, melodie. Il Giappone che emerge non sarà autentico, ma avrà una propria verità, una sostanza non meramente decorativa nella tragedia. Perfino le macchiette dei parenti, e quell'imbarazzante zio Yakusidé vittima designata dei tagli più consistenti e poi inaspettatamente riabilitato al Carcano, offrono un quadro brulicante di vita che osserviamo grottesco come lo può vedere l'estraneo – e razzista – Pinkerton, ma anche come lo può vedere Cio Cio San, con un misto d'imbarazzo e di affetto, piccolo mondo quotidiano messo alla prova di fronte a un altero “conquistatore”. L'insistenza sui dettagli della cultura e della famiglia d'origine della protagonista enfatizzano la plateale rottura bilaterale: la maledizione scatenata dallo Zio Bonzo da una parte, la conversione al cristianesimo e l'adozione degli Stati Uniti come nuova patria dall'altra. Il fatto, poi, che in origine Cio Cio San continuasse a esprimersi citando proverbi, filastrocche, ninne nanne nipponiche (fors'anche di questo Giappone di fantasia) dichiara che la sua è solo un'illusione, che tutto ciò che l'avrebbe resa “americana” è solo una menzogna, che in lei, cresciuta troppo in fretta con quel matrimonio precoce, è ancora vivo il sentimento infantile e che il legame con il mondo che ha rinnegato e che l'ha rinnegata non è reciso del tutto. Appartiene a chi rifiuta e la rifiuta, non a chi si ostina ad attendere: questa è la sua tragedia, leggendo il libretto nella stesura milanese, e l'immagine macchiettistica del parentado rende tutto ciò ancor più feroce.

Anche quella che sembra una divagazione, nel duetto del finale primo, assume un importante valore psicologico. Certo, la scena così come la si esegue correntemente ha un suo equilibrio perfetto, ma non si può negare che l'improvviso cambiar argomento di Cio Cio San di fronte alle parole ardenti di Pinkerton non rifletta la realistica reazione di un'adolescente innamorata, ma anche imbarazzata di fronte alla sua prima notte d'amore:

Pinkerton
Stolta paura, l'amor non uccide
ma dà vita, e sorride
per gioie celestiali
[avvicinandosi a Butterfly e prendendole la faccia]
come ora fa nei tuoi lunghi occhi ovali.
[Butterfly, con subito movimento si ritrae dalla carezza ardente di Pinkerton]

Butterfly[con reticenza]
Pensavo: se qualcuno mi volesse...
[s'interrompe]

Pinkerton 
Perchè t'interrompi?

Butterfly[con semplicità, riprendendo]
...pensavo: se qualcuno mi volesse
forse lo sposerei per qualche tempo.
Fu allora che il nakodo
le vostre nozze ci propose.
Ma, vi dico in verità,
a tutta prima le propose invano.
Un uomo americano!
Un barbaro! una vespa!
Scusate, non sapevo...

Pinkerton[incoraggiandola a continuare]
Amor mio dolce! E poi?..
Racconta...

Butterfly
Adesso voi
siete per me l'occhio del firmamento.
E mi piaceste dal primo momento
che vi ho veduto.

[Butterfly ha un moto di spavento e fa atto di turarsi gli orecchi, come se ancora avesse ad udire le urla dei parenti: poi si rassicura e con fiducia si rivolge a Pinkerton]

Siete
alto, forte. Ridete
con modi si palesi!
E dite cose che mai non intesi.
Or son contenta,
or son contenta.

La diffidenza dichiarata nei confronti dell'americano ha una sua forza precisa: marca la distanza culturale fra i due, riflette specularmente ("un barbaro") il disprezzo di Pinkerton verso i giapponesi, evidenzia il timore (ben fondato) di fronte all'unione, ma anche proclama il fascino irresistibile della novità e della diversità rispetto a quel microcosmo di parenti e parassiti. C'è, però, un altro aspetto notevole: dopo aver parlato dei “cento yen” ora Cio Cio San racconta di aver preso spontaneamente e consapevolmente in considerazione un matrimonio “a tempo”. Insomma, ci fa capire che sapeva a cosa andava incontro, ma che la situazione, anche grazie al fascino dello yankee, le è sfuggita di mano e ha finito per credere sul serio di poter essere la “vera sposa americana”. Un'altra possibile sfumatura del dramma dell'illusione, ma che ci propone una Cio Cio San leggermente diversa dalla ragazzina innamorata e ingannata della versione corrente, in cui non si fa menzione di questi antefatti e l'essenzialità della narrazione ci rende una figura più pura e ferita che mai.


Miti e crisantemi

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Da dove viene questa lucida considerazione della piccola Cio Cio San sull'opportunità di un matrimonio a tempo? Da lontano, ma non troppo.

La fonte primaria fedelmente seguita da Illica e Giacosa è la pièce di David Belasco Madame Butterfly (1900), tratta dal romanzo omonimo di John Luther Long (1898). Quest'ultimo è stato influenzato dal successo della novella semiautobiografica Madame Chrisanthème di Pierre Loti (1887), che nel 1893 ispirò l'opèra-comique di André Messager. Se le differenze con il romanzo e il dramma inglese sono minime (eccezion fatta per un finale ambiguamente sospeso ed elusivo in Long, identico all'opera in Belasco), più interessante è il confronto con i testi francesi, proprio alla luce dei versi scremati da Puccini fino alle recite parigine.

Kiku San, la bella geisha detta Madame Chrisanthéme, è, infatti, nella penna di Loti un personaggio ben più smaliziato della nostra Cio Cio San: accetta di buon grado il contratto senza farsi illusioni, sopravvive all'abbandono e lascia un dolce ricordo in Pierre. Il passaggio all'opèra-comique, com'è naturale, accende i sentimenti, ricerca un maggiore pathos e nell'epilogo il protagonista maschile, tornato in patria, rilegge l'ultima lettera della sua moglie “temporanea”, che gli rivela come il sorriso con cui l'ha salutato alla partenza celasse le lacrime di un amore vero. Questa prima ombra di dolore sarà il seme da cui germoglierà, da un grazioso racconto sugli usi esotici intriso di nostalgia e lieve erotismo, la tragedia dell'attesa senza speranza.

Il passaggio da Loti e Messager a Madama Butterfly in letteratura, prosa e opera non è certo, però, così semplice e lineare: la forza del dramma di Cio Cio San non si alimenta solo dell'elaborazione tragica ispirata da un aneddoto orientale, ma riprende temi ben più antichi e topoi ben più imponenti. Basterebbe declinare il catalogo di sedotte e abbandonate, di fanciulle ingannate e portate al suicidio che allignano dalle mitologie alle letterature d'ogni tempo e luogo per trovare una schiera ben nutrita di sorelle maggiori per la nostra piccola geisha, non ultima quell'Iris (1898) di Mascagni ripudiata e maledetta da un padre basso come lo Zio Bonzo, rapita e gettata via da un tenore libidinoso sodale d'un baritono viscido e ben poco comprensivo, a differenza di Sharpless. Tutto si consuma, però, nel paese del Sol Levante, manca il contrasto fra culture, manca l'alterità come barriera fra i due amanti, che è elemento fondamentale in ogni Madama Butterfly. Lo è quando, nella versione corrente, Cio Cio San è lasciata praticamente da sola a fissare il mare in attesa di un ritorno da un mondo lontano, lo è ancor più quando, nella prima stesura, Pinkerton si abbandona a commenti sprezzanti e sarcastici su tutto ciò, usi cibi o persone, che è giapponese, mentre la fanciulla resta ancorata a modi di dire e nenie della sua infanzia e della sua tradizione.

Cio Cio San è madre ed è straniera rispetto all'uomo che ama, il quale, senza mezzi termini, intende sbarazzarsi di lei per un conveniente matrimonio con una connazionale, salvo comunque preservare la discendenza e tenere con sé la prole nata dalla prima relazione. Cambiamo i nomi, parliamo di Colchide e Grecia invece che di Giappone e USA, di Medea, Giasone e Glauce/Creusa invece che di Cio Cio San, Pinkerton e Kate e il parallelo è evidente. Madama Butterfly è una moderna Medea in cui la protagonista pone l'amore materno sopra ogni cosa e punta all'autodistruzione invece che all'autoaffermazione. Così come la maga colca e tutte le infanticide del mito vedono nei fanciulli il ritratto del padre su cui intendono vendicarsi privandolo di discendenza, così Cio Cio San vanta i tratti occidentali del piccolo, ereditati da Pinkerton. Così come Giasone rinfaccerà a Medea d'averlo stregato con il suo fascino, l'ufficiale americano è preda di un'infatuazione puramente erotica e definire “duetto d'amore” quello che chiude il primo atto resta un madornale errore di valutazione, trattandosi di pura concupiscenza da parte dell'uomo. Come Medea recide anche brutalmente i legami con la sua terra e la sua famiglia, così Cio Cio San rinnega ed è rinnegata. Ma la principessa di Colchide è una donna forte, sophé e mekaniké, sapiente ed esperta nelle arti magiche e mediche, ha gli strumenti per vendicarsi e l'orgoglio ad alimentarne la volontà; Butterfly non ha altra risorsa che “divertir la gente col cantar”e ha riposto tutta se stessa nell'illusione dell'amore di Pinkerton: distrutta questa è distrutta anche lei stessa, non è contemplata l'ipotesi della vendetta per “serbar vita con onore”. Nella poetica dei primi del Novecento la donna è angelo o demonio, femme fatale o vittima: di Medea Cio Cio San eredita i torti, non le armi, si fa angelo con ali di farfalla e muore trafitta.

L'aspetto più umano di Medea, quello più vicino alla tragedia di Puccini, fondato sul suo isolamento e sulla sua distanza culturale rispetto a Giasone, risalta soprattutto nella versione che ne diede Franz Grillparzer nel 1821. Da questa Aribert Reimann trasse la sua opera Medea (2010), nella quale, appunto, l'espressione anche musicale della protagonista differisce strutturalmente rispetto ai personaggi greci e in una scena emblematica vediamo la sposa ripudiata di Giasone cercare disperatamente di adeguarsi ai modi melodici “occidentali”, imitanto il canto della rivale Kreusa, paziente maestra. Esattamente come Cio Cio San si ostina a mostrare la sua come una “casa americana”, assecondando in tutto Pinkerton e abbracciandone la religione. Non ci riuscirà esattamente come la prima Cio Cio San continuerà a cantilenare nenie nipponiche. Così si chiude il cerchio e nelle metamorfosi di Madama Butterfly s'incontrano e s'intrecciano anche le metamorfosi di Medea.

Un ringraziamento particolare va a Stefano Ceccarelli per il confronto sul parallelismo fra Medea e Madama Butterfly, da entrambi separatamente notato.