Il binario della morte

 di Andrea R. G. Pedrotti

“Ci chiediamo cosa succederà

alla Memoria della Shoah quando scomparirà

anche l'ultimo Sopravvissuto:

i suoi Figli saranno qui

per continuare a testimoniare.”

Elie Wiesel, Boston 1998, in occasione della costituzione dell'Associazione Figli della Shoah.

Era il 27 gennaio 1945 quanto le truppe dell'esercito sovietico entrarono ne campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e nel gelo dell'inverno polacco si trovarono innanzi, ormai abbandonata dalle S.S. in ritirata, la più affinata macchina di distruzione del genere umano mai concepita.

L'Associazione Figli della Shoah, sezione di Verona e Vicenza, come ogni anno non può mancare di far sentire la sua fondamentale presenza. Quest'anno, all'interno del palazzo della Granguardia, è stato deciso di organizzare una mostra, tanto semplice nei materiali, quanto intensa e toccante nei contenuti. È stata aperta solo la porta centrale della sede in Piazza Bra, sulla sinistra un tavolo con un registro che consenta ai presenti di lasciare un segno del proprio passaggio e alcuni opuscoli informativi.

Nell'atrio della Granguardia si è costretti a seguire un percorso, il percorso che conduceva al binario della morte; non a caso il titolo dell'evento era “Viaggio nella memoria Binario 21”. Si parte con le fotografie della monumentale stazione centrale di Milano. Niente volti, solo ambienti, quegli ambienti che i deportati, scaricati dai camion, si trovavano davanti. Convogli di camion gestiti dall'iniquità del collaborazionismo della Repubblica Sociale Italiana di Benito Mussolini, colpevole come e più dei tedeschi, poiché si rese complice del più efferato crimine della storia, perpetrato ai danni dell'essere umano, senza interesse reale, quasi con indifferenza, lo stessa colpevole indifferenza con cui il popolo italiano, a sua onta perpetua, salutò la proclamazione della Legge sulla difesa della Razza del 19 settembre 1938. Ora l'indifferenza e la vigliaccheria fascista consegnava alla scienza del Reich uomini cui non era più concesso il diritto di dirsi tali. Gli inarrestabili vagoni, minuziosamente organizzati da Adolf Eichmann, erano pronti a partire per i centri di smistamento. Qui la mostra veronese presenta la differenza fra la Shoah e gli altri eccidi: due distinti pannelli, posti l'uno accanto all'altro celebrano i morti: sulla sinistra coloro che erano destinati ai campi di concentramento e di lavoro, zingari, asociali, omosessuali, testimoni di Geova, emigrati, criminali e politici. Per loro non era stabilita una sistematica eliminazione: a un prigioniero politico sarebbe bastata l'abiura, ognuno di solo poteva negare, celare la sua condizione o le sue idee. È un distacco che vuole sottolineare la nobiltà d'un atto di eroismo, che, come ha ricordato Roberto Israel dell'Associazione Figli della Shoah, verrebbe perso in un ricordo collettivo.

Sul pannello di destra invece gli ebrei, coloro che andavano eliminati, senza alcuna possibilità di salvezza, condannati per la loro nascita, per i loro geni, non per delle idee: la sistematica idea di eliminazione in un campo di sterminio di un'intera parte del genere umano, il primo passo verso la creazione dell'Übermensch immaginato nei deliri di Friedrich Wilhelm Nietzsche o nell'irreale, quanto folle, società immaginata da Martin Heidegger, fino all'eugenetica di Josef Mengele. Un'idea riverberata dai nazisti nelle loro ricerche di perfezione della razza, per esempio, in Tibet, o della lancia di Longino, immaginando la terra come un pianeta cavo, dotato di punti di polarizzazione mistica. L'attacco alla scienza e alla ragione: l'attacco agli ebrei in quanto tali, l'attacco all'uomo. Tutte idee che vanno cosciute e studiate, per far sì che non prendano mai più forma attuativa.

Uno dei momenti più toccanti del sapiente climax ascendente di emozioni creato dai curatori della mostra è l'ingresso in un piccolo cilindro (anch'esso da seguire secondo un percorso obbligato), con le immagini delle famiglie di ebrei deportati, le loro storie, i loro racconti di vita, la loro cattura, la loro sparizione, tutto nella penombra d'una luce chiaro-scura: la dinamicità della vita e il suo annullamento. I loro nomi vengono ripetuti ininterrottamente, con tono andino, il tono di spettri a cui si pretendeva di cancellare l'anima e la memoria. Usciti dalla struttura centrale è d'obbligo ripercorrere il breve tratto che conduce all'uscita, al banchetto dov'è possibile acquistare il bellissimo catalogo illustrato della mostra, ricco di tavole sinottiche, testi e soprattutto, le storie delle donne, degli uomini, delle famiglie, che sono stati strappati brutalmente alla vita per essere cancellati dalla storia.

Sul tavolo la fiamma di un piccolo lume, quel lume che ognuno di noi dovrebbe accendere in memoria, almeno il 27 gennaio.

Come ricorda la frase citata in testa all'articolo, la giornata della memoria non dev'essere una giornata di tristezza, ma di consapevolezza che il ricordo dei sopravvissuti verrà portato avanti sempre, nella coscienza che nessuna soluzione definitiva potrà essere posta alla brutalità dell'uomo, animale fatto di disordini e pulsioni interiori, ma, per lo stesso motivo, nessuna “soluzione finale” potrà aver luogo, proprio grazie alle stesse pulsioni che, quando sono costruttive e non distruttive, continuando a esistere, provano che la vita non è stata sconfitta. Il fatto che questa mostra esista ne è la prova.