Philip Gossett. Un ricordo

 di Stefano Ceccarelli

A qualche giorno dall’annuncio della scomparsa del famoso musicologo Philip Gossett, è forse giunto il momento che anch’io condivida qualche ricordo che ho di lui. Non si tratta di una biografia, o di una laudatio che ne riesca a mettere in evidenza degnamente i meriti di studioso e divulgatore (che, per questo, rimando al documentatissimo articolo di Roberta Pedrotti), ma di alcune immagini e ricordi che mi affollano la mente e sono legati a un corso universitario di drammaturgia musicale che, or son diversi anni (mi pare, a memoria, fosse il 2009), Gossett tenne presso l’università romana della Sapienza e che ebbi la fortuna e il privilegio di frequentare, ricevendone un’autentica folgorazione.

Aprendo la mia casella email, con commozione leggo, ancora, la ricca corrispondenza fra me e il prof. Philip Gossett. Quando incominciai a scrivere di musica, d’opera, di concerti, l’unico musicologo veramente famoso che avessi avuto la fortuna di conoscere era proprio Gossett: naturale, quindi, che gli sottoponessi quasi ogni riga di quello che scrivevo, più o meno malamente. Incredibile come lui le leggesse con tanta attenzione da prodigarmi infiniti suggerimenti, correzioni, spunti, idee. Ne rimasi sempre profondamente affascinato. Del nostro incontro, del resto, Galeotto fu un corso di drammaturgia musicale presso l’università della Sapienza di Roma, quando ebbi la prima crisi ‘mistica’ della mia vita di studente universitario e avrei quasi voluto abbandonare gli studi classici per abbracciare l’altra mia grande passione: la storia della musica.

Rovistando nella mia confusionaria casella di posta elettronica, sono così riuscito a ritrovare la prima email che gli mandai. Era una richiesta per un esame da non frequentante con lui, proprio per quel corso di drammaturgia musicale. Scorrendo il programma sul sito della Sapienza, pensai che potevo tranquillamente sostenere l’esame senza andare in aula: il Barbiere, il Rigoletto, Carmen…erano opere che conoscevo a memoria. Certo: meno il Boris, ma tant’è. La baldanza degli studenti è notevole: e io ne ho avuta sempre, purtroppo, forse troppa. Gossett mi rispose, con la massima cordialità, che sarebbe stato più fruttuoso seguire le lezioni in aula, invitandomi almeno a provare. Molte delle cose che avrebbe spiegato, diceva, non si trovavano su un libro di testo, su alcun ‘manuale’. La strutturazione drammaturgica di un’opera lirica era affare talmente delicato che necessitava di spiegazioni ad hoc, specificheper ogni caso. Mi convinsi, allora, a provare. Rimasi folgorato la prima volta che si mise al pianoforte, che cantò con passione (sì: era aduso cantare, anche le parti femminili!), e si mise a spiegarci come si struttura un duetto: il tempo d’attacco, il cantabile, il tempo di mezzo, la cabaletta. Sul pianoforte suonava Rigoletto. Me ne innamorai: non persi più una lezione, da quel giorno. Ancora, ricordo, una volta ci disse come Bizet avesse scelto un duetto all’italiana (che avrebbe potuto scrivere, dunque, anche Donizetti!) per quello, dolcissimo, fra José e Micaela nella Carmen: fu in quel momento che cominciai veramente a capire quanto attivamente l’opera italiana aveva funto come modello di un certo tipo di estetica. Compresi cosa significava l’opera per gli italiani, gli inglesi, i tedeschi e i francesi: ci parlava delle precipue singolarità di Purcell, di Der Freischütz, del ‘crescendo rossiniano’, dell’arte di Bizet. Cominciai a capire che cos’è un’opera lirica, come se ne scriveva una, a quale struttura pensavano i compositori durante il loro lavoro; cosa sono gli atelier musicali, a quali aiuti ricorrevano i compositori; e la macchina economica che permetteva la vita dell’opera in musica.

Andammo, una volta, verso la fine del corso, a vedere una Carmen con la classe, in un teatro secondario di Roma. Fu una performance scarsa. Ma quando io e lui la commentammo, fuori dal teatro, mi disse che avrei potuto imparare molto su come si metteva in scena un’opera lirica. Gli dissi, un po’ incredulo, che c’erano stati diversi errori: per esempio, l’attacco del duetto fra Carmen e José. Lui mi rispose, sorridendo, che, però, si era emozionato per come direttore e cantanti si erano ripresi. Questo era il teatro: vita, e come tale, imperfezione, ma viva, palpitante. Il fuoco che aveva nel parlare e nello spiegare è familiare a chi l’abbia conosciuto. Era comunicativo, efficace, accattivante. Colto e competentissimo.

Una folgorazione, quindi, quando comprai e cominciai a studiare il suo testamento spirituale, Divas and Scholars. Performing Italian Opera: c’era tutta l’ironia e la competenza, l’acume e l’arguzia di cui avevo avuto prova dalla sua viva voce. L’ultima volta che lo vidi fu il 4 maggio di sette anni fa. Lo so perché mi autografò la mia copia del libro – per questo sono certo della data – e chiacchierammo di Euripide (ne era molto interessato per via dell’Ermione rossiniana). Infatti la dedica suona così: «A Stefano, con ammirazione per il senso del rapporto fra teatro classico e teatro dell’opera. Cordiali saluti. Philip Gossett». Molto, infatti, mi ha sensibilizzato al dato performativo, a tal punto che ne ho tratto giovamento per gli studi accademici, che da sempre conduco sul teatro attico di V sec a. C.: un teatro lontanissimo dall’opera lirica. Proprio qualche tempo fa mi venne in mente che avrei voluto scrivergli: non ho fatto in tempo. Da anni oramai ci sentivamo, sempre più di rado, solo per email.

Non sono io degno di enumerare i successi accademici di Philip Gossett; il suo impegno come editore, esegeta e cultore dell’universo dell’opera; come auctoritas in fatto di gusto estetico di ricezione dell’opera. Spero rimanga nel tempo il fervore con cui spiegava come il sovracuto interpolato finale in una cabaletta del XIX sec deturpi il senso estetico del brano. Spero rimanga nel tempo la gentilezza con cui concedeva tempo ed energie a chiunque (ivi compreso io stesso) per permettergli di comprendere sempre, un po’ di più, l’arte dell’opera in musica.

Per parte mia, mi rimarranno impresse le sue lacrime quando vedemmo Die Walküre in classe, al momento del ‘canto della primavera’. I suoi occhi brillanti, ogni volta che si parlava di Rossini. La sua attenzione nello spiegarci l’intima struttura di ogni passaggio di un’opera, mostrandola come parte di un tutto, come un pezzo di un’intelaiatura riconoscibile ma non smembrabile.

Queste poche righe vogliono essere un umile omaggio a chi mi ha dato tanto, a chi mi ha permesso di progredire nello studio teorico della musica. Anche se ora non c’è più, a noi frequentatori del teatro dell’Opera di Roma è dato in felice sorta, ancora, di sentirne la voce, appena prima dell’inizio di ogni spettacolo. E non dico metaforicamente: è sua, infatti, la voce registrata che, nella sua madrelingua, avverte gli spettatori più distratti di spegnere i telefoni cellulari e di non scattare foto o fare video durante lo spettacolo. «Sis licet, ut debes, tellus, placata levisque».