Il giovane Holden e le traduzioni

di Gina Guandalini

Tra come l’America percepisce se stessa e come la cultura europea percepisce l’America ci sono discrepanze interessanti. Il fenomeno Woody Allen è uno dei primi che vengono in mente: idolatrato – anche se con legittime perplessità verso la sua attività recente - qui da noi e considerato da sempre con indulgenza, come un amabile ( o sgradevole) freak del cinema nella sua patria.

In letteratura J.D. Salinger è autore onnipresente, planetario. Ma nei confronti della sua non vasta produzione è da segnalare la disaffezione delle ultime generazioni statunitensi nei confronti di The Catcher in the Rye o, come è conosciuto in Italia, Il giovane Holden. Questa stanchezza non sorprende dato che laggiù il libro è lettura scolastica obbligatoria dagli anni Sessanta; la cultura inghiottita a forza non può mai essere amata, e dover scrivere saggi e papers sulla sorellina Phoebe o sulla sessualità di Holden allontana ovviamente gli adolescenti dal romanzo. Molti di loro si dichiarano francamente annoiati dalla condizione verginale del protagonista, in totale contrasto con la precocità della generazione di oggi. La cultura gay diffonde da qualche anno la teoria – per la verità supportata da alcuni momenti di Catcher in the Rye– che Holden sia un giovanissimo che reprime la propria omosessualità ma ne è assediato e turbato.

A scrivere Catcher fu un reduce di guerra trentenne stanco di esperienze orribili; nessun sedicenne è così acuto, articolato e sofisticato. The Catcher in the Rye di J. D. Salinger fu pubblicato nel 1951 elaborando e ampliando tre racconti già apparsi su mensili newyorkesi prestigiosi durante la guerra o subito dopo. E’ un testo che è entrato nella coscienza collettiva; uno di quei libri che, come si suol dire, “ ti cambiano la vita”; una spiritosa e lucida cronaca di tre giorni a Manhattan nel dicembre 1949. (La datazione è esatta: la commedia I Know My Love di S. N. Behrman, commediografo allora popolarissimo, alla quale assistono Holden e Sally nel libro, andò realmente in scena al Teatro Shubert con i mitici Lynn e Alfred Lunt dal novembre 1949 al giugno ’50). Giorni vissuti da un sedicenne newyorkese che sente e pensa come un adulto stanco della vita e ci manda la sua cronaca di Manhattan dal sanatorio tubercolare in cui è stato ricoverato. Un memoriale dal sanatorio, non un monologo da una clinica psichiatrica, come a chi scrive affermò l’americanista Biancamaria Pisapia. O forse a Holden è stato detto così perché non si ribelli alle cure psichiatriche?

La giovanissima vita di Holden Caulfield è segnata dal trauma per la perdita di un fratello causata dalla leucemia. Acchiappatore in un campo di segale dei bambini che rischiano di precipitare in un burrone è il mestiere favolistico che Holden inventa lì per lì a beneficio della sorellina, e implica quel rifiuto di crescere onnipresente nel romanzo; e certo anche il desiderio di “salvare i bambini”, preservare l’infanzia.

Tre anni prima, nel 1946, Salinger, reduce dallo sbarco in Normandia del ’44 e dalle ultime fasi belliche in Germania, poi da un ricovero in un ospedale da campo per esaurimento nervoso - il racconto To Esmée, with Love and Squalor è nitidamente autobiografico in questo senso - aveva compiuto un vagabondaggio newyorkese simile a questo del suo adolescente Holden.


E’ recente l’uscita da Einaudi della terza traduzione in italiano di The Catcher in the Rye. Ci ha lavorato sopra per due anni l’americanista Matteo Colombo, piemontese che vive a Berlino. E’ almeno dal ’96 che Alessandro Baricco e Sandro Veronesi parlano della necessità di una terza traduzione aggiornata ai tempi; e non è da escludere che Baricco ne abbia completata una per conto proprio . La traduzione che in Italia è stata fino ad oggi universalmente nota fu firmata dalla romana Adriana (“Diddi”) Motti - che veniva principalmente da lavori di traduzione del grandissimo umorista inglese P. G. Woodhouse - nella primavera 1961, per la Einaudi. Italo Calvino la incoraggiò in questo compito. Fu compagna di Giacomo Debenedetti dal ’44 alla morte di lui nel ’67, ed è stato ipotizzato qualche consiglio, letterario se non linguistico, nella stesura del lavoro; ma non si sa se si possa parlare di “opera a quattro mani”.

Prima di Adriana Motti, Calvino aveva interpellato l’americanista Marisa Bulgheroni, che già conosceva una prima traduzione italiana di The Catcher in the Rye ed era entusiasta del romanzo; però la Bulgheroni si bloccò davanti al problema di tradurre il titolo. Era già entrata nella storia di Salinger in Italia traducendo il racconto Down at the Dinghy; questo lavoro comparve nell’autunno 1959 sul mensile Il Caffè di Giambattista Vicari; è una geniale storia salingeriana che anticipa il ciclo della famiglia Glass ma anche La vita è bella di Benigni: una giovane mamma scopre che il proprio bambino è traumatizzato da un discorso antisemita contro il suo papà e riesce a fargli superare il trauma con una graziosa bugia.

Luciano Fonzi, informatico sofisticato, ma anche americanofilo, mi ha appunto ricordato che nel 1952 era già uscita una traduzione del romanzo che precedette quella della Motti di ben nove anni: Vita da uomo per l’editore romano Gherardo Casini; che non ebbe grande diffusione; e mi ha segnalato che il nome del traduttore, tale Jacopo Darca, altro non è che uno pseudonimo di Corrado Pavolini. Quindi Holden, già un anno dopo l’uscita negli Stati Uniti, fu nelle mani di uno dei più importanti tramiti tra l’Italietta prima fascista poi neorealista e la cultura internazionale.

Per sua sfortuna Corrado era fratello di Alessandro Pavolini, che fu uomo-simbolo del fascismo fino alla morte, conclusasi a piazzale Loreto, e questo handicap probabilmente ci impedisce tuttora di collocare Corrado insieme agli altri nostri grandi, coltissimi “sprovincializzatori” degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, come Pavese, Vittorini, Visconti. Uomo schivo, alieno da discorsi politici, regista teatrale e operistico (favorì il debutto alla Scala del giovane Zeffirelli, che fino al ’54 fu osteggiato come regista proprio da Luchino Visconti), Corrado Pavolini fu traduttore prolifico e attendibile e pubblicò decine di titoli, da Marlowe, Shakespeare e Racine a Sartre, Gide e, appunto, Salinger. E’ affrettato liquidare questa stesura, come ha fatto il traduttore numero 3 Matteo Colombo in una intervista online “un’altra traduzione pirata anteriore a quella di Motti”.

La segnalazione di Fonzi porta a riflettere sulla questione delle traduzioni dalla letteratura americana. Pochi raffronti sono affascinanti come questo à trois, tra la traduzione di Pavolini, un po’ più datata, ma assai felice in tante piccole soluzioni, quella della Motti, quella canonica, che tutti sappiamo a memoria, e l’ultima di Colombo. Tutte devono affrontare il problema del turpiloquio. Le parolacce, ci spiega la linguistica, si evolvono lentamente ma continuamente; una volta infranto un tabù verbale bisogna poi trovarne un altro, andando più in là. E nessuna cultura sarebbe “andata più in là” di quella americana a partire dalla metà degli anni ‘50. Come si pone Holden nei loro confronti ? Per fare un esempio interessante, nell’originale americano usa lo stesso termine “moron” per descrivere se stesso al suo vecchio professore di storia e poco dopo per offendere a sangue, durante una colluttazione furibonda, il suo compagno Stradlater. Non arriva comunque a scrivere “fuck” per intero: si autocensura, limitandosi a “f….”


Adriana Motti non ha mai nascosto di non avere compreso l’importanza della storia di Holden nella cultura giovanile degli ultimi cinquant’anni. “Ho tradotto quaranta libri e si ricordano solo di quello”, lamentava, raccontando che la contattavano numerosi sessantottini, affascinati da “un dogma, un catechismo che non capisco tuttora”. Per lei Holden era “il tipico americano alto- borghese e radical-chic, non vedevo che rapporto ci fosse con dei giovani marxisti”.E’ senz’altro vero che il microcosmo rappresentato – e fustigato – nel nostro romanzo è ricco, intellettuale, snob, tutto bianco, senza quasi contatti con la cultura afro-americana e nativa indiana. L’amico Fonzi, fondamentalmente appassionato di cultura indiano-americana, mi fa notare che nel museo che Holden cerca e vuole ritrovare intatto come quando ci andava da bambino gli indiani esistono solo “congelati”: sono ridotti a manichini didattici.

Nel non capire la portata iconoclasta di Holden la Motti era del resto in buona compagnia: tre anni fa Umberto Eco ha dichiarato sull’Espresso la più totale indifferenza nei confronti di questo capolavoro di Salinger; nulla gli ha detto, avendolo letto, dice, in epoche della sua vita lontane dall’adolescenza, l’unica – secondo il nostro grande semiologo - che permetterebbe di sentire Holden fratello.

Ma lo ha letto con attenzione? E in originale, dove il linguaggio è molto meno legato al passare del tempo che in italiano? E si è chiesto come vivevano i sedicenni italiani nel ’52 e nel ’61 – ma anche nel ’78 se è per quello? Ad essi l’odissea di Holden in The Catcher in the Rye spalancava una finestra su un pianeta di libertà e indipendenza inimmaginabili: assenti i genitori, inesistenti orari e disciplina, fumo a volontà, alcool di straforo, prostitute nella camera d’albergo. Del resto Nanni Moretti si è chiesto angosciato perché, ma perché mai, all’inizio degli anni ’60 ci fu chi andò ad abitare dalla vecchia Roma al quartiere Casal Palocco. Non sapeva che gli italiani erano stregati dalla sontuosa American way of life descritta nei film, dove si viveva in villini unifamiliari con giardino e piscina?

Il problema dei due linguaggi giovanili del 1952, del 1961 e del 2014 rientra nel più vasto problema dei due universi giovanili, l’americano e l’italiano, che nel 1951 si trovavano a distanze planetarie. E qui si capisce, se non altro, il titolo scelto da Pavolini, Vita da uomo: nel ‘51 le tre giornate del nostro sedicenne dovevano apparire inaudite, straordinarie, come una angosciosa discesa nel maelström dell’anarchia e di una maturità tragicamente precoce; ecco spiegato il “vivere da uomo” in un’età che in Italia era ancora di protezione e di innocenza. The Catcher in the Rye di Salinger ha dato un fondamentale contributo nell’enucleare e cristallizzare l’adolescenza; una fase della vita, una categoria sociale e un mercato consumistico che prima non esistevano e che in Italia hanno cominciato a venire fuori proprio negli anni in cui usciva la seconda traduzione del romanzo, quella “canonica” della Motti. Secondo Umberto Eco da noi fu Rita Pavone a capitanare la “presa di coscienza” dei ragazzi italiani fra i tredici e i diciannove anni, mentre in precedenza si passava direttamente dall’infanzia alla età adulta. Insomma, qui in Italia i teen-agers cominciarono faticosamente a venire riconosciuti nella prima metà degli anni Sessanta, e il libro poté essere letto anche come una dolorosa nostalgia dell’ infanzia. L’America così genialmente raccontata nel 1951 dieci anni dopo era molto cambiata.


Ne Il giovane Holden della Einaudi l’elaborata spiegazione in nota del titolo italiano fu scritta da Calvino; ed è replicata nella traduzione attuale di Colombo. E’ stata sempre ultracitata, ma si presta ancora a qualche osservazione. Nell’espressione The Catcher in the Rye - che non può certo diventare “Il salvatore nel campo”, “Il salvatore sul burrone”, “Il terzino nella grappa” o peggio ancora, “L’acchiappatore nella segale”, come hanno tradotto in Germania - la parola rye non ha un secondo significato esclusivo di “whisky”, come tutti gli americanisti italiani affermano: negli Stati Uniti ovunque uno ordina pane o toast si sente automaticamente chiedere “White or rye?”, cioè “Bianco o integrale?”. Un cereale comunissimo, insomma, e non obbligatoriamente un superalcolico. Pavolini traduceva “sèsame”, per dare una connotazione biblico-letteraria al sogno di Holden.

Perché non provare a rintracciare e tradurre i racconti di Salinger degli anni ’40, sparpagliati in riviste letterarie e archivi di università ? E’ impresa ardua a causa dei veti ostruzionistici che Salinger ha lasciato in eredità al suo estate:; ma anche quelli sono letteratura di importanza storica. Motivi che anticipano The Catcher in the Rye si trovano nel primissimo racconto pubblicato da Salinger, Young Folks, che è del marzo-aprile ’40 e riferisce le conversazioni insicure e snob di due studenti di college (“fasulli”, li definisce Holden nella traduzione più conosciuta). Nel 1945, su due sedi prestigiose come Esquire e Collier’s, Salinger raccontò due storie di guerra riguardanti Vincent Caulfield, il fratello maggiore di Holden (che in Catcher si chiama D.B.) Sempre nel ’45 e sempre su Collier’s troviamo la prima stesura della visita di Holden al vecchio professore di storia e poi alla sorellina Phoebe; questa volta c’è un’altra sorellina più piccola, Viola, e si parla della cruciale questione delle anatre del Central Park: ecco perchè I’m Crazy è un racconto che sarebbe da riversare subito – eredi dell’autore permettendo – in italiano. Infine su The New Yorker del dicembre ’46 figura la più conosciuta Slight Rebellion Off Madison, che anticipa l’episodio di Holden e Sally che vanno a pattinare sulla pista del Rockefeller Center, e lui, piuttosto brillo, invita lei a fuggire insieme. Nel racconto la fuga è precisata meglio che nel romanzo, il ragazzo vorrebbe andare nel Connecticut e nel Vermont. Rendendo accessibili tutti questi “abbozzi di Holden” a chi non sa l’inglese si avvertirebbe, fra l’altro, la forte influenza di un geniale scrittore e umorista quale fu Ring Lardner; non a caso citato proprio dal fratello maggiore di Holden al protagonista di The Catcher in the Rye come autore fondamentale, da non trascurare

Poco meno di due anni dopo la vicenda di Holden Caulfield, nell’ottobre ’51 un ventenne che è veramente esistito giungeva a Manhattan; prendeva alloggio in squallidi ostelli e si aggirava tra Time Square e il Radio City Music Hall, tra prostitute e drogati, tra intellettuali pomposi e “protettori” interessati; squattrinato, solo e spaventato, segnato da traumi personali. Avrebbe anche lui rappresentato l’affermarsi insolente e insopprimibile della fase adolescenziale, pur diventando celebre a ventitré anni e morendo a ventiquattro. Si chiamava James Dean. Ma questa è un’altra storia.