di Roberta Pedrotti
Nonostante il valore di Myung Whun Chun sul podio e della voce di Maria Agresta, il Concerto di Capodanno coprodotto dalla Rai con La Fenice di Venezia sembra ancora una volta sprecare le potenzialità di luoghi, repertorio e interpreti in un progetto senz'anima.
Il Concerto di Capodanno trasmesso dalla Rai dalla Fenice di Venezia nasce nel 2004 e da allora non smette di far discutere, se non altro per una rivalità con Vienna pretesa da taluni. Ma la tradizione e il primato storico del concerto al Musikverein lo pongono al di fuori di ogni possibile dibattito. D'altro canto, e senz'ombra di dubbio, un appuntamento musicale in più trasmesso e replicato in orari accessibili dalle emittenti pubbliche a celebrare i giorni festivi non può che far piacere, tanto più che l'incastro nella programmazione permette di aver subito, nel primo pomeriggio, la possibilità della visione integrale del Capodanno viennese, in precedenza proposto, sì, in diretta, ma solo per la seconda parte, relegando la prima o alla parallela trasmissione radiofonica o a una differita televisiva in seconda o terza serata. Insomma, dal punto di vista del palinsesto, l'introduzione del concerto veneziano è un guadagno da ogni punto di vista.
Il problema non è nemmeno nella scelta degli interpreti, generalmente artisti in carriera di prestigio consolidato. Quest'anno in particolare ci si potrebbe sbilanciare e riconoscere in Myung Whun Chung uno dei migliori se non il migliore in assoluto ad aver retto dal podio le sorti musicali del Capodanno veneziano. Anche attraverso la ripresa televisiva si percepiscono la finezza, la delicatezza delle sfumature, la maestria del legato e del crescendo, la precisione e l'incisività di fraseggio che Chung imprime in ogni brano. Bello lo scatto del preludio di Carmen, bella l'atmosfera spettrale e sospesa come la nebbia sulla Laguna nella Barcarolle da Les contes d'Hoffmann, tale da farci sognare un'opera rossiniana completa la sinfonia dall'Italiana in Algeri (presentata come omaggio al centocinquantesimo dalla morte dell'autore, comunque presente in programma ogni anno). Lo si ascolta con grande piacere, ma con l'impressione di un concerto non intimamente festoso, frammentato e un po' sacrificato e qui risiede il problema principale del concerto alla Fenice. Un problema che coinvolge anche le voci, e non infieriremo su Michael Fabiano, che ha trentatré anni e una bella carriera teatrale in cui lo si potrà meglio giudicare, ma che oggi in tv ci sembra spingere più del dovuto, non poco a disagio e anche con qualche inciampo, costretto a intonare, fra due ruoli lirici a lui familiari (il Duca di Rigoletto e Alfredo della Traviata), anche il popolarissimo “Nessun dorma” di Calaf, personaggio decisamente estraneo alla sua vocalità. Esce a testa alta, nel confronto, Maria Agresta, cantante di classe anche quando la scelta dei brani non sembri proprio pensata per metterla in luce. Non si può dire che non abbia cantato bene Lauretta e Cio Cio San, ma non si può nemmeno non notare che le poche frasi di Violetta, l'unico personaggio in programma già affrontato in scena, fossero quelle in cui veramente emergesse con souplesse la grande qualità del soprano campano.
Allora ci si chiede quale sia il criterio di selezione del programma in un concerto che dovrebbe celebrare la tradizione del melodramma italiano e si riduce a una quarantina di minuti (una prima parte solo sinfonica – quasi sempre Beethoven o Dvorak – non viene trasmessa in tv se non in lontane repliche) in cui i solisti sono impegnati in un paio di brani a testa, in genere di per sé assai brevi o ampiamente tagliati, forzando spesso e volentieri il repertorio d'elezione degli stessi senza una chiara ragione. Nel 2018 ricorrono i cent'anni dalla prima del Trittico pucciniano e ciò ben può motivare la scelta dei nemmeno tre minuti di “O mio babbino caro”, ma non essendo Cio Cio San il cavallo di battaglia di Maria Agresta, che non l'ha ancora cantata né l'annuncia nei suoi prossimi impegni, quale sarà mai il motivo per augurare buon anno con il canto di una speranza destinata a infrangersi nel modo più crudele? Quando, per di più, abbiamo un'eccellente interprete di Elena nei Vespri siciliani che avrebbe potuto allietarci con un effervescente Bolero, tanto per fare un esempio? Esclusi, dunque, come filo conduttore le caratteristiche e le carriere dei cantanti, le ricorrenze storiche e una logica consequenzialità nel programma (che saltella da Bizet a Verdi, da Offenbach a Rossini con l'aria un mosaico scombinato con singole tessere di gran pregio) non restano che, tristemente, la brevità e la popolarità spicciola in funzione televisiva. Non staremo a insegnare il mestiere ai professionisti della Rai, ma ci pare davvero incomprensibile una così scarsa fiducia nell'efficacia di un programma operistico da parte di chi coproduce un concerto per lo più dedicato al repertorio operistico. Senza necessariamente ricorrere alla Saffo di Pacini o al Reggente di Mercadante, si potrebbe cercare di costruire una scaletta un po' più compatta e originale, meglio modellata sulle caratteristiche degli interpreti senza imporre loro un assurdo letto di Procuste a senso unico, ché questa è la netta impressione che si ricava da tagli e durate medie dei brani. Pare che manchi una vera e propria direzione artistica, o quanto meno non è riuscita a persuaderci di un progetto che vada oltre discutibili motivazioni pratiche.
Dal 2013 a oggi i brani d'opera sono stati solo di cinque autori (Verdi, Puccini, Bellini, Donizetti, Gounod, cui si aggiunge Leoncavallo con la sua Mattinata); ben due volte, in programmi con un paio di pezzi solistici ciascuno, sono apparse "Una furtiva lagrima" e "O mio babbino caro", tre "Questa o quella" (considerata la presenza anche di "La donna è mobile", la fantasia in ambito tenorile non si può dire che abbondi); la sola cabaletta “Sempre libera” (due volte) e i pochi versi dell'arioso “Amami Alfredo” sono pure apparsi a guisa di pezzi completi. Non va molto meglio in ambito strumentale, dove in questi sei anni si è avuto anche un po' di Nino Rota, un Rimsky Korsakov e di Britten, ma si è contrabbandato senza troppe sottigliezze e delucidazioni storiche la fasulla ouverture del Viaggio a Reims (che tale non è, ma pezzo apocrifo tratto dai ballabili di Le siège de Corinthe), si è insistito nel presentare due volte il solo can can finale dalla Danza delle ore dalla Gioconda e si è giunti a infilare i soli galop del Guillame Tell e del Siège de Corinthe (troppa fatica per i telespettatori qualche minuto in più di musica sublime e accattivante?) e proporre la Quadriglia di Johann Strauss II su temi da Un ballo in maschera in versione dimezzata. Né si capisce perché il coro dal secondo atto della Traviata, per ben tre volte, sia stato orbato delle Zingarelle passando direttamente ai Mattadori: dura troppo il coretto femminile? Non si possono trovare due solisti per il botta-risposta fra Flora e il Marchese o tagliare quelle battute, soluzioni entrambe attuate finanche nelle parrocchie?
Fatto sta che così frammentato dal terrore di annoiare lo spettatore televisivo più che spinto a stimolarlo con un prodotto accattivante e della qualità che molti degli artisti e dei complessi coinvolti potrebbero garantire, il concerto sembra una rapida carrellata di riempitivo e sottofondo. Un menù di degustazione assortito da uno chef senza troppe idee seppur con ingredienti di qualità a disposizione, una sintesi della giornata di campionato che propone i gol e qualche azione eclatante avulsi dalla dinamica del gioco. Una playlist da scorrere in fretta, senza pensarci troppo né prestar troppa attenzione.
Lo spreco degli ingredienti appare anche un notevole spreco nell'impiattamento ridondante e nella cornice non valorizzata. In uno dei teatri più belli del mondo, in una città come Venezia, abbiamo davvero bisogno di caricare la scena con un fondale che riproduca la veduta di piazza San Marco? Son dettagli, ma l'eleganza (e l'Italia si propone come patria dell'eleganza) è fatta di dettagli: non sarebbe meglio puntare su inquadrature ben studiate degli angoli più suggestivi della città senza ulteriori fronzoli? Anche perché, in tutta franchezza, le danze non sono il punto di forza di questi concerti e anche in questo caso non se ne possono imputare gli interpreti: in passato si è coinvolto più volte un divo come Roberto Bolle, negli ultimi anni abbiamo avuto validissimi complessi come quelli della Scala e dell'Opera di Roma. Eppure qualcosa non va, le coreografie sono statiche, non sviluppano una narrazione, ma propongono passi isolati ancor più frammentati da inquadrature di dettagli, perfino (è successo quest'anno per troppi secondi) solo di fluttuar astratto di veli variopinti, quasi a coprire un rapporto con la musica, pure nella corrispondenza dei tempi, e una rifinitura d'insieme non ottimali. Anche nel regno di Tersicore la Rai dovrebbe rivedere un po' l'organizzazione del concerto, perché lì il confronto – impietoso – con Vienna non si può evitare e sarebbe bello si potesse veramente valorizzare, anche con un solo intervento coreutico meglio assestato, i corpi di ballo italiani, che vivono in questi anni drammatiche e immeritate difficoltà a dispetto dei talenti che il nostro Paese continua a produrre.
Parimenti si potrebbe riorganizzare la presentazione, ché con brani già così brevi sentire la voce fuori campo intervenire anche sulla musica non è certo piacevole e contribuisce a comunicare la sensazione di un progetto frettoloso nella cui anima si crede poco, confidando nel richiamo intrinseco della cornice e di alcuni nomi. Venezia, La Fenice, l'Opera, gli artisti meriterebbero il valore di un'idea con un'anima, non di essere solo un marchio scintillante che garantisce (o dovrebbe garantire) il prodotto.